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martedì 18 settembre 2018

Aleksandr Isaevič Solženicyn – a dieci anni dalla morte


Aleksandr  Solženicyn, un grande cristiano, un grande pensatore. A dieci anni dalla morte.
Le sue opere dovrebbero essere lette da certi prelati infatuati dallo statalismo e dal socialismo.
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Europa Cristiana, Cristina Siccardi, 4-8-18

Cento anni fa nasceva Aleksandr Isaevič Solženicyn (Kislovodsk, 11 dicembre 1918 – Mosca, 3 agosto 2008) e moriva dieci anni fa. È stato un grande uomo, prima che un grande scrittore. Ha lottato contro il comunismo e ne ha fatto conoscere al mondo il vero e orrendo volto, ateo e contro la persona. Tuttavia ha combattuto anche la degenerazione dell’Occidente senza Dio: per quanto egli sia celebre, essendo anche stato insignito del Premio Nobel nel 1970 per la letteratura, egli non è apprezzato dal liberalismo occidentale e dai mezzi di comunicazione di massa, come si è potuto ben notare in questo anno: i suoi due anniversari sono stati raramente e brevemente ricordati, e quando è avvenuto lo si è fatto a mezza voce.

Solženicyn non voleva essere definito «anticomunista», come molti, invece, lo posizionano ancora oggi, perché essere anticomunista significava per lui essere anti-anti umano:

«C’è una parola che si usa molto oggi: “anticomunismo”. È una parola molto stupida e mal composta perché dà l’impressione che il comunismo sia qualche cosa di primitivo, di basico, di fondamentale. E così, prendendolo come punto di partenza, anticomunismo è definito in relazione a comunismo. Per questo affermo che la parola è stata mal scelta e fu composta da gente che non conosceva l’etimologia: il concetto primario, eterno, è Umanità. Ed il comunismo è anti-Umanità. Chi dice “anti-comunismo”, in realtà sta dicendo anti-anti-Umanità. Un costrutto molto misero. Sarebbe come dire: ciò che è contro il comunismo è a favore dell’Umanità. Non accettare, rifiutare questa ideologia comunista, inumana, è semplicemente essere un essere umano. Non è essere membro di un partito» (discorso pubblico tenuto a Washington il 30 giugno 1975).

Aleksandr crebbe in povertà con la madre e una zia a Rostov e negli anni della guerra civile russa. A causa del regime le proprietà di famiglia furono espropriate e trasformate in un kolchoz nel 1930. Il nonno materno fu arrestato quell’anno dalla polizia politica (GPU) e di lui non si seppe mai più nulla. La madre, Taisia, vedova di un militare dell’esercito imperiale, lavorava come dattilografa e vivevano nella periferia di Rostov in un locale di 9 m². Per sopravvivere non facevano sapere del loro passato: né del ruolo del marito, né del loro essere originariamente proprietari terrieri, in quanto sarebbero rientrati fra i nemici del popolo: kulaki. Taisia incoraggiò sempre il figlio nel proseguire gli studi scientifici e letterari.

Costretto ad abbandonare gli studi dopo l’invasione tedesca, partì volontario per la seconda guerra mondiale. Inizialmente, a causa della sua salute cagionevole, fu assegnato in un posto lontano dal fronte come conducente di carriaggi, ma poi venne trasferito su sua richiesta alla scuola per ufficiali, dove divenne tenente d’artiglieria. Combatté successivamente con valore nella battaglia del saliente di Kursk, sul Dnepr ed in Prussia Orientale, guadagnandosi sul campo il grado di capitano. Grazie alle conoscenze acquisite nella regione prussiana, pubblicò poi una delle sue opere più rilevanti: Agosto 1914. Fu decorato due volte e proposto per l’Ordine della Bandiera Rossa, per avere salvato i suoi uomini in una situazione disperata durante una controffensiva germanica il 27 gennaio 1945. Ma il 9 febbraio del 1945 fu arrestato per aver criticato Stalin in una lettera privata ad un amico. Qui ha inizio la sua epopea: fu condannato a otto anni di campo di lavoro nei gulag e, scontata la pena, al confino perpetuo.

Se dapprima era rimasto in silenzio, sia per sopravvivere, sia per osservare gli sviluppi politici, d’ora in poi il suo pensiero di religione e di politica diverrà estremamente lucido, critico e aperto. E nessuno più riuscirà a silenziarlo.

Nel 1950 venne trasferito in un campo speciale per i prigionieri politici, a seguito della sua rinuncia a collaborare ai progetti del NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni). Durante la sua permanenza nel campo speciale della città di Ekibastūz, in Kazakistan, lavorò come minatore, muratore e operaio in una fonderia e da questa condizione maturerà l’opera letteraria Una giornata di Ivan Denisovič. Alla fine del 1951 partecipò allo sciopero ed ai disordini scoppiati in quel campo di detenzione e di massacrante lavoro.

Solženicyn, non potendo scrivere negli anni di gulag, compose centinaia e centinaia di versi imparandoli a memoria e recitandoli con l’aiuto di un rosario fatto da alcuni prigionieri lituani con cento piccoli grani di pane ammollato e strizzato.

Il suo esilio ha inizio nel marzo del 1953 a Kok Terek, nella steppa del Kazakistan. È solo, abbandonato da tutti, in questo sperduto villaggio. Si ammala di tumore, ma non gli viene diagnosticato e alla fine dell’anno la morte è vicina. L’anno dopo gli viene permesso di essere curato nell’ospedale di Tashkent. Da questa vicenda nascerà il romanzo Padiglione cancro. Prigionia, esilio, cancro non lo distruggono, ma lo convertono radicalmente ad una fede sincera e profonda. Un travaglio che racconterà nell’ultima parte del suo capolavoro, mondialmente riconosciuto: Arcipelago Gulag.

Scritto fra il 1958 e il 1968, Arcipelago Gulag è un saggio di inchiesta narrativa, edito in tre volumi. Gulag è l’acronimo russo di «Direzione centrale dei lager», che dà il nome burocratico al sistema di coercizione atto a sopprimere la libertà di oppositori e critici del sistema, accusati di essere i nemici del comunismo, individui da “rieducare”. L’autore, usando fonti di prima mano, ovvero le vittime superstiti e se stesso, denunciato e castigato come prigioniero politico, nonché documentazione primaria, ripercorre tutto l’iter del carcerato: dall’istruttoria ai lager speciali, dall’arresto cagionato da una delazione, fino al termine della pena scontata.

Dirà, quando sarà insignito del Nobel: «Fino al 1961 non solo ero convinto che non avrei mai dovuto vedere una sola mia linea stampata nella mia vita, ma, anche, a stento osai permettere ad alcune delle mie più vicine conoscenze di leggere quello che scrissi perché temevo che si venisse a sapere»[1].

A quarantadue anni, Solženicyn avvicina il poeta e capo redattore del «Novyj Mir» Aleksandr Tvardovskij e gli presenta il manoscritto di Una giornata di Ivan Denisovič. Il romanzo viene pubblicato nel 1962 con l’approvazione di Nikita Chruščёv, poiché Tvardovskij comprese che era assolutamente necessaria per far uscire in Unione Sovietica quel libro: unico lavoro di Solženicyn pubblicato in patria, fino al 1990.

Dopo la perdita del potere di Chruščёv, nel 1964, Solženicyn tentò, ancora con il sostegno di Tvardovskij, di editare Padiglione cancro, ma la pubblicazione gli fu negata, non solo, nel 1965, il KGB sequestra molti dei suoi manoscritti. Nel 1968 sfugge miracolosamente da un tentativo di avvelenamento da parte degli organi di sicurezza. E nel 1974 ritira personalmente il Premio Nobel del 1970 perché espulso dall’Unione Sovietica.

Nonostante l’entusiasmo con cui fu accolto negli Stati Uniti, Solženicyn non si sentì mai a casa propria, nonostante i 20 anni che qui trascorse, fuori dalla sua madrepatria. La sua figura appare ancor più encomiabile per il fatto che sdegnò rigorosamente l’idea di diventare un mito, una star mediatica, un “testimonial” propagandistico e pubblicitario dell’Occidente… In più, sempre si negò alle richieste di attenuare le sue posizioni e il suo modo di esprimersi al fine di un adeguamento al linguaggio dei mezzi di comunicazione.

Così questo russo, dalla forte identità tradizionale russa, non si inchina né a liberali, né ai laicisti, sempre più critici nei suoi confronti che sprezzantemente lo considerano un reazionario per il suo patriottismo e per il suo essere ortodosso. I radical chic lo detestano, anche perché egli non fa sconti e denuncia la bruttezza e l’insipidità spirituale, il senz’anima, il senza calore e la purezza della dominante cultura pop che invade l’Occidente.

La più completa edizione, in 30 volumi, delle opere di Solženicyn è in corso di pubblicazione nella Russia di Vladimir Putin. Quel Putin che ebbe per maestro proprio lo scrittore. Ljudmila Saraskina, in una monumentale biografia, dal titolo Solženicyn, riporta i «frequenti, stretti, ma non sempre pubblicizzati» fra i due uomini, quindi fra il grande vecchio, l’eroe del popolo russo nemico del comunismo, cosciente dei nuovi politici «democratici» e il giovane uomo politico, colui che sembrava destinato ad essere una meteora, con molti nemici e in un Paese in decomposizione. Il loro primo incontro avviene il 20 settembre 2000 a Troice-Lykovo, quando i coniugi Putin si recano a casa dell’autore. Il giorno seguente Solženicyn, in un programma televisivo, dichiara di aver conosciuto un uomo dall’intelligenza vivace e pronta, «preoccupato del destino della Russia e non del potere personale». La notizia è mirabolante: l’ex agente del KGB va a trovare un’ex vittima del KGB. Gli incontri si susseguono, fino alla morte di Solženicyn, sopraggiunta all’età di 89 anni. Il solenne funerale di Stato si tiene nel Monastero Donskoy di Mosca il 6 agosto 2008 e viene sepolto dove desiderava, nel cimitero di quel Monastero.

Tre cose ha trasmesso, in sintesi, ai suoi connazionali e, dunque, all’attuale Zar Vladimir Putin: frenare la catastrofe demografica in Russia, erede del nichilismo comunista e di quello occidentale; rivedere le privatizzazioni selvagge realizzate nell’epoca di Eltsin, gestite a vantaggio di pochi, ai danni del popolo; impedire che il passaggio dal comunismo alla democrazia liberale segni la fine dell’anima religiosa russa, traghettando questo Paese di grande levatura e patrimonio tradizionale dal materialismo comunista al consumismo materialista di stampo occidentale.

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[1] Testimonianza raccolta e conservata alla Fondazione Nobel.

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Breve antologia delle riflessioni

di Aleksandr Isaevič Solženicyn

«Più di mezzo secolo fa, quando ancora ero un bambino, ricordo che un certo numero di anziani offriva questa spiegazione per i disastri che avevano devastato la Russia: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, perciò tutto questo è accaduto”. Da quel giorno, ho passato 50 anni a lavorare sulla storia della nostra rivoluzione (la rivoluzione russa); ho letto centinaia di libri, raccolto centinaia di testimonianze personali. Ma se mi fosse domandato di formulare in maniera più concisa possibile la principale causa della rovinosa rivoluzione che ha inghiottito quasi 60 milioni di russi, non potrei metterla in maniera più accurata che ripetendo: “Gli uomini hanno dimenticato Dio, perciò tutto questo è accaduto».

«Questa antica triunità della Verità, del Bene e della Bellezza non è semplicemente una caduca formula da parata, come ci era sembrato ai tempi della nostra presuntuosa giovinezza materialistica. Se, come dicevano i sapienti, le cime di questi tre alberi si riuniscono, mentre i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci e indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione, forse strani, imprevisti, inattesi saranno i germogli della Bellezza a spuntare e crescere nello stesso posto e saranno loro in tal modo a compiere il lavoro per tutti e tre».

«Sarebbe assolutamente vano sperare che la rivoluzione possa rigenerare la natura umana».

«La precipitazione e la superficialità sono le malattie croniche del secolo».

«Per noi in Russia, il comunismo è un cane morto, mentre, per molte persone in occidente è ancora un leone vivente».

«Lo scopo della vita è la maturazione dell’anima. Non rincorrere quello che è illusorio, come la proprietà o la posizione. Tutte cose che vengono ottenute a spese dei nervi, decennio dopo decennio, e sono confiscate nella notte della caduta».

«La fretta e la superficialità sono le malattie psichiche del ventesimo secolo, e più di ogni altro posto si riflettono nella stampa».

«Per fare del male un uomo deve prima di tutto credere che ciò che stia facendo sia bene».

«Si può avere potere sulle persone finché non gli si porta via qualcosa. Ma quando si è rubato tutto ad uomo, questi non sarà più soggetto ad alcun potere: sarà libero di nuovo».

«La giustizia è coscienza, non di un solo individuo, ma dell’umanità tutta. Coloro che sanno ascoltare la voce della coscienza sanno ascoltare anche la voce della giustizia».

«È lecito eseguire ordini affidando ad altri il peso della propria coscienza?».

«Per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione. La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che egli sente il bisogno di cercare una giustificazione delle proprie azioni…».

«Basta avere l’uomo… l’accusa la troveremo noi».

«Noi vogliamo rifiutarci di dire quello che non pensiamo».

«Non date la caccia all’illusorio, agli averi, al titolo: questi si acquistano con il logorio nervoso di decenni e sono confiscati in una notte. Fate vostra una continua superiorità nei riguardi della vita, non abbiate paura delle sciagure, non languite nell’attesa della felicità: l’amarezza non durerà per sempre, la dolcezza non sarà mai piena».

«Delle atrocità che ho subito io non accuso i miei carcerieri, ma solo me stesso perché quando c’era da parlare io ho taciuto».

«L’Occidente, che non ha una censura, opera tuttavia una selezione ostinata, separando le idee alla moda da quelle che non lo sono, e sebbene queste ultime non cadano sotto la mannaia di alcun divieto non possono esprimersi veramente».

«Per un paese, avere grandi scrittori è come avere un altro governo. Questo è il motivo per il quale nessun governo ha mai amato i grandi scrittori, ma solo quelli minori».

«Il popolo ha indubbiamente diritto al potere, ma quel che vuole il popolo non è il potere (solo un due per cento lo desidera), bensì, prima di tutto, un ordine stabile».

«La falsità può tenere testa a molte cose in questo mondo, ma non all’arte».

«La letteratura trasmette esperienze pregnanti… da generazione a generazione. In questo modo la letteratura diventa memoria vivente di una nazione intera».

«Gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un Paese».

«Nella vita sociale, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: infatti, la libertà distrugge l’uguaglianza sociale, è proprio questa una delle funzioni della libertà, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere».

3 commenti:

  1. «Sarebbe assolutamente vano sperare che la rivoluzione possa rigenerare la natura umana». Il Sessantotto ed il Concilio Vaticano II (il Sessantotto nella Chiesa) confermano in pieno l'affermazione di Solženicyn.
    Non la rigenerazione, bensì la degenerazione della natura umana è il risultato della rivoluzione sessantottino-vaticanosecondista.

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  2. Quel grande pensatore ha denunciato che i grandi mali del mondo moderno derivano da due ideologie complementari, mrksismo-leninismo e liberalismo massonico, che indicano la persona umana " forma del male" (Hegel). Ideologie imperanti ancora nel mondo e ormai accolte da quello che dovrebbe essere il loro grande nemico, il cattolicesimo, ormai apostata.

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