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giovedì 1 giugno 2017

1516-1520. Lutero, dalla crisi spirituale alla Riforma

Approfondito saggio su  Martin Lutero, lontano dalla agiografia corrente, di moda oggi anche dalle parti di S. Marta.
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(Articolo tratto da Cultura&Identità.
Rivista di studi conservatori
, anno IX, n. 15, Roma 25 marzo 2017, pp. 3-8)

Ermanno Pavesi

È un luogo comune attribuire le cause della Riforma, o per lo meno assegnare una grande importanza alla pubblicazione delle novantacinque tesi sulle indulgenze che, secondo una leggenda senza fondamento storico, Martin Lutero (1483-1546) stesso avrebbe affisso alla porta della Chiesa di Wittenberg, in Sassonia, il 31 ottobre 1517. In realtà Lutero avrebbe inviato una copia delle sue tesi ad alcune personalità.
La responsabilità per la rottura con la Chiesa cattolica viene spesso attribuita a quest’ultima per non aver accolto le critiche di Lutero al modo con cui venivano predicate le indulgenze e al fatto che le offerte raccolte sarebbero state utilizzate per mantenere lo sfarzo della Chiesa rinascimentale a Roma.
È però difficile sostenere che lintento di Lutero fosse solamente la moralizzazione della Chiesa, se si tiene conto delle sue richieste, formulate già agli inizi della Riforma, come l’introduzione del sacerdozio universale di tutti i credenti; l’eliminazione degli ordini religiosi, in particolare degli ordini mendicanti; la proibizione dei pellegrinaggi; l’abolizione del codice di diritto canonico; la riduzione da sette a due del numero dei sacramenti e così via.


Le Novantacinque Tesi rappresentano un passaggio importante per l’eco che hanno avuto e per le discussioni che ne sono seguite con le autorità ecclesiastiche e con altri teologi: però la questione delle indulgenze ha avuto un ruolo marginale nel pensiero del riformatore e nel conflitto con la gerarchia: «Significherebbe fraintendere completamente Lutero, se si pensasse che per lui si fosse trattato solamente, o in primo luogo, di eliminare la proliferazione della pratica delle indulgenze. Il commercio con le indulgenze è per lui solamente un sintomo di una dottrina penitenziale sbagliata che presuppone che l’uomo, che si trova sotto il potere del peccato, quando fa quello che può con le proprie forze sarebbe in grado di fare il primo passo verso la salvezza e quindi di ottenere la grazia di Dio»[1]. Effettivamente già prima delle Novantacinque Tesi Lutero si era mostrato sempre più critico nei confronti di principi fondamentali della teologia cattolica, come la questione se l’uomo con le sue forze può acquisire meriti, ovvero il ruolo della grazia per la propria salvezza, ciò che rimanda al problema di fondo se l’uomo è dotato di libero arbitrio, una questione della quale Lutero si era occupato già da anni e che lo aveva portato su posizioni di critica radicale alla teologia cattolica.

1. La crisi spirituale di Lutero monaco

Lutero ha iniziato la sua carriera accademica nel 1508 tenendo un corso alla facoltà delle arti dell’Università di Wittemberg sull’Etica nicomachea di Aristotele (384/383-322/321 a.C.). I suoi studi successivi possono avere avuto un ruolo nella formazione del suo pensiero, che troverà una prima formulazione sistematica nella Disputa sulla teologia scolastica, del settembre 1517, nella quale critica la ricezione del pensiero aristotelico nella teologia cattolica.
D’altra parte non si può trascurare la crisi spirituale di Lutero, una crisi che era iniziata già anni prima delle Novantacinque Tesi e che può spiegare l’atteggiamento sempre più critico nei confronti della teologia e della dottrina cattoliche fino alla rottura definitiva.
Lutero stesso ricorda di essere stato un monaco zelante con un atteggiamento positivo nei confronti del Papa e della gerarchia. Ancora nell’omelia del 1° agosto 1516, festa di san Pietro in Vincoli, commentando il brano del vangelo di Matteo «In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo, e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo» (Mt 18, 18), Lutero sostiene il primato del papa.
«Tutto quello che legherete sopra la terra, ecc. Se Cristo non avesse affidato tutto il suo potere a un uomo, la Chiesa non sarebbe perfetta. Perché non ci sarebbe nessun ordine, poiché chiunque pretenderebbe di essere ispirato dallo Spirito Santo. Così hanno fatto gli eretici. Se chiunque facesse valere il proprio principio, ci sarebbero altrettante Chiese quante teste. Così [Cristo] non vuole esercitare alcun potere se non per mezzo di un uomo e con il potere affidato a un solo uomo, perché tutti siano riuniti per diventare una sola cosa. Ha rafforzato, poi, questo potere, tanto da suscitargli contro ogni potere del mondo e degli inferi, e dice: le porte degli inferi non prevarranno contro di essa (Mt. 16,18)[[2]]. Quasi come se dicesse: “combatteranno e saranno incitati, ma non prevarranno” in modo che si riconosca che questo potere proviene da Dio e non da uomini. […] È meglio obbedire che essere vittima di stolti che non sanno quanto male fanno» (Schriften 1512/18, einschließlich Predigten, Disputationen, WA 1, p. 69).
Al tempo di questa omelia l’atteggiamento sempre più critico nei confronti della teologia cattolica non aveva ancora intaccato la fede nel primato petrino.
Lutero dichiara di aver osservato scrupolosamente la legge, come i farisei, e di avere celebrato con devozione la liturgia: «Io ho difeso con maggior forza e maggior costanza il fariseismo e il giudaismo di voi e dei vostri maestri. Se la giustizia della legge fosse qualcosa, allora sarei rimasto nel fariseismo. Infatti io sono stato un fariseo e ho rivaleggiato con maggior zelo nelle tradizioni dei padri di quanto non facciano oggi gli pseudoapostoli. E tuttavia le ho abbandonate con tutto il giudaismo. E come monaco ho sopportato cose molto più dure nelle veglie e nei digiuni di tutti quelli che oggi mi perseguitano. Io sono stato superstizioso fino al delirio e alla pazzia, anche a scapito del mio corpo e della mia salute. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto con zelo e per Dio. Ho adorato pure il papa e non cercavo prebende o ricchezze» e «Noi eravamo stati papisti migliori di loro: abbiamo pregato e celebrato messa scrupolosamente» (2. Galatervorlesung [Seconda lezione sull’“Epistola ai Galati”] (cap. 1-4), 1531, WA 40/I, p. 134).
Lutero descrive il suo percorso spirituale anche per affermare che, se criticava la teologia e la devozione cattoliche, lo faceva con cognizione di causa: «In verità, avversari ciechi e induriti non credono che io e altri siamo ugualmente esperti di fariseismo» (ibid., p. 134).
Ripensando alla sua religiosità di monaco ritiene di aver avuto un atteggiamento non del tutto sincero e autentico: «Noi pensavamo così: se mi confessavo e pregavo i salmi, allora cominciavo a dire “Dio sii propizio a me peccatore”, in verità non mi consideravo un peccatore» (ibid., p. 87).
Ma, ancor peggio, riteneva di aver agito sotto il dominio del diavolo: «Fino a quando ero un monaco, ero doppiamente cattivo. Stavamo tutti sotto la paternità del diavolo. […] Noi non ci possiamo aiutare, se siamo in potere di un altro, né possiamo torcere un capello al diavolo. Per questo sputa su tutta la forza del libero arbitrio, delle messe e dell’astinenza. Tu devi dire questo: tu sei il povero diavolo» (ibid., pp. 96-97).
Lutero si mostra riconoscente a Dio per averlo illuminato nonostante la sua condotta: «Dio ha avuto pietà di me e mi ha perdonato tali blasfemie e mi ha dato la sua grazia per questi meriti, che io ritenevo ottimi. Così ho acquisito meriti, io che l’ho crocifisso[[3]] non solo una volta, che oltraggiavo la fede, vivevo esteriormente bene e casto, povero non mi curavo delle cose del mondo. Intanto con questa santità e con la fiducia in me provavo sfiducia in Dio e ansia, ed ero blasfemo. Io ero la latrina del diavolo e lui preferisce quei santi che perdono la loro anima. Allora lui se la ride. Mentre lui regna nel disprezzo e nell’oltraggio di Cristo e nell’abuso di tutti i beni di Dio. Di questi peccati non mi sono accorto allora. Se fosse venuto Hus [Jan (1371-1415), riformatore boemo, condannato al rogo durante il Concilio di Costanza del 1414-1418], io avrei procurato legno e paglia, se non materialmente, almeno con il consenso del cuore. Niente in confronto a meretrici e ladri, perché questi provano rimorsi di coscienza. Noi invece ci volevamo giustificare. Noi siamo arrivati alla grazia di Dio in questo modo, per questa via, oltraggiando la grazia, la maestà, la fede e il culto.  Allora io c’ero immerso» (ibid., pp. 137-138)
Dopo essersi reso conto dell’inutilità e addirittura della pericolosità delle opere, Lutero deve tirarne le conseguenze: abbandonare la regola del suo ordine e le forme tradizionali di religiosità. «Per venti anni ho avuto rimorsi per i miei peccati e volevo placare l’ira di Dio con i miei sforzi. Però, come si dice: tanto più a lungo, tanto peggio. Ma è necessario dimenticare tonaca, tonsura, messe e pellegrinaggi» (ibid., p. 85). La pratica delle virtù non lo aiutava a diminuire le tentazioni, anzi: «Bisogna castigare la carne perché non esaudisca i suoi desideri, anche quando è sobria, come è capitato a me: quando ero completamente sobrio, ho avuto le maggiori tentazioni» (2. Galatervorlesung [Seconda lezione sull’“Epistola ai Galati” (cap. 5-6), 1531, WA 40/II, p. 115) e per questo dubitava della propria salvezza: «In convento pensavo di essere dannato quando sentivo i desideri della carne» (ibid., p. 92).
Lutero descrive anche il suo travaglio interiore: «Così mi è successo, così l’ho provato. Quando un uomo vuole diventare pio per mezzo della legge, cerca di formarsi un habitus moltiplicando le sue azioni. Questo primo atto per placare l’ira di Dio. Con questa idea incomincio a fare delle opere; presto nasce il dubbio: ma hai pregato rettamente? Ti sei distratto. Così diventano cento carri di peccati e così i peccati crescono senza fine, fino a quando si acquisisce l’habitus della disperazione: ah se fossi un guardiano di bestiame, ah se fossi rimasto nel mio stato» (WA, 40/I, cit., p. 615). 
La sua sofferenza spirituale lo ha portato a separare nettamente Gesù da Mosè, la redenzione per fede dalla giustificazione per la legge, e rimprovera ai suoi superiori di una volta di averlo angustiato con le loro opinioni, mentre considera fortunati i suoi seguaci che sono stati risparmiati da un tale indottrinamento. Cristo «[…] quindi non è un Mosè, un legislatore, ma un elargitore, misericorde e salvatore; nient’altro che puro dono di misericordia ed elargitore. Così deve essere descritto Cristo, chi lo fa in modo diverso, angustierà la coscienza, come le dottrine dei miei superiori che sono entrate come olio nelle mie ossa. Voi dovete essere molto riconoscenti, che non siete stati indottrinati con opinioni pestifere. Io sono stato corrotto da tali opinioni e impallidivo quando sentivo il nome di Cristo. Ora io devo rivoltarmi, per dannare queste vecchie opinioni e assumerne nuove» (ibid., p. 298).

2. L’omelia sui vizi capitali

Temi che caratterizzeranno la Riforma protestante si incontrano già in testi degli anni precedenti. In una omelia sui peccati capitali del 3 agosto 1516[4], Lutero distingue due fasi nella vita del cristiano: dapprima l’uomo deve praticare opere buone e astenersi dalle cattive secondo l’uomo sensibile, cioè digiunare, vegliare, pregare, lavorare, avere compassione, servire e obbedire. Una volta vinta la lussuria della carne, deve stare attento a non insuperbirsi e a sopravvalutarsi nei confronti di Dio e degli altri. Così Lutero procede esaminando i possibili vizi capitali, come il compiacimento per le proprie opere, la sicurezza di sé senza più il timore di Dio, il sentirsi superiori agli altri dando giudizi severi sul prossimo. Nella parte finale dell’omelia, una metafora paragona l’uomo a un cavallo: come il cavallo va dove lo conduce il cavaliere, così gli uomini di Dio non devono curarsi delle opere esteriori se non come preliminari, ma devono piuttosto farsi guidare dallo Spirito di Dio. Non sarebbero loro, infatti, a decidere cosa fare, perché spesso finirebbero addirittura con il fare non quello che si erano proposti, ma, con una coscienza tranquilla, dovrebbero lasciare che sia Dio ad agire in loro, mentre quelli che cercano una giustizia a misura dell’uomo sensibile cadrebbero in disperazione.
In questa omelia incontriamo già alcune tesi che caratterizzeranno le concezioni della Riforma: con una lapidarietà che è difficile rendere in italiano Lutero afferma che, per lo meno gli uomini di Dio, sono guidati dallo Spirito, «Non agunt, sed aguntur» (WA 1, cit., p. 73), non agiscono, ma vengono mossi. Inoltre viene enfatizzata la contrapposizione tra lo stato d’animo di chi si sforza di essere giustificato per mezzo delle opere, un compito impossibile che porterebbe alla disperazione, e la “coscienza tranquilla” di chi affida a Dio la propria giustificazione. Questa affermazione acquista un significato particolare se la si confronta con le descrizioni che Lutero ci ha fornito delle sue condizioni spirituali come monaco, quando, cercando di giustificarsi con le opere, era diventato depresso e delirante.

3. La Questione sulle forze e la volontà dell’uomo senza grazia

Alla fine di settembre del 1516 Lutero presiede una disputa sulla Questione sulle forze e la volontà dell’uomo senza grazia[5].
Lutero riconosce la particolare dignità dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, ciò che lo rende atto a ricevere la grazia, ma che, di fatto, sarebbe solo chiuso in se stesso, e nei rapporti con le altre creature cercherebbe unicamente il proprio interesse, svilendole.
«L’uomo in ragione della sua anima [creata a] immagine di Dio è adatto alla grazia di Dio, con le sue sole forze sottomette alla vanità qualunque creatura di cui si serve, poiché ricerca solo se stesso e ciò che è della carne. […] Infatti, l’uomo senza la grazia, è un albero cattivo, che non può produrre nessun buon frutto, e che non può servirsi della creazione a lode e gloria di Dio, cioè per il fine per cui è stata creata. Ciò significa sottometterla alla vanità. Cerca solo il suo interesse e ciò che appartiene alla carne»[6].
L’uomo vecchio non sarebbe in grado di conoscere la propria vocazione più profonda e di amare Dio, sommo bene, ma si limiterebbe a beni parziali, che verrebbero snaturati e che non sarebbero neanche in grado di appagare le sue aspirazioni.
 «L’uomo vecchio è vanità delle vanità, completamente vanità e rende vane anche le altre creature, anche se sono buone. È chiaro che l’uomo vecchio è colui che non ama con totale purezza Dio, che non ha fame e sete [di Lui], ma con la ragione e con lo spirito presume di essere saziato dalle creature, anche se uno fatto per essere saziato solamente da Dio, solo da Dio può essere saziato»[7].
A causa delle ferite del peccato originale tutte le azioni umane sarebbero viziate da egoismo e autoreferenzialità, per questo anche quelle che sembrano giuste e oneste avrebbero motivazioni egoistiche: «L’uomo vecchio è chiamato carne non solo perché viene guidato dalla concupiscenza dei sensi, ma perché, anche se casto, sapiente e giusto, non è rinato nello spirito grazie a Dio»[8].  Senza la grazia di Dio la pratica delle virtù non farebbe acquisire meriti, ma se uno le praticasse otterrebbe solo una minore punizione, «non perché questi [Fabricius] è buono, ma solo perché è meno empio [di Catilina:] non perché [Fabricius] ha le vere virtù, ma perché si discosta meno dalle vere virtù»[9].
Il peccato originale renderebbe anche impossibile adempiere pienamente i comandamenti di Dio: «Senza la grazia di Dio l’uomo non è in grado di osservare in alcun modo i suoi precetti [di Dio] e prepararsi in senso proprio o improprio alla grazia, ma in verità rimane necessariamente sotto il peccato»[10].
La tesi che l’uomo senza la grazia non è in grado in alcun modo di osservare i comandamenti divini, lo pone di fronte a un compito impossibile: da una parte riceve da Dio i comandamenti, dall’altra non è in grado di osservarli. Lutero nega che l’uomo sia dotato di libero arbitrio e offre anche una sottile spiegazione per conciliare la sua critica del libero arbitrio con la percezione comune di essere padroni delle proprie azioni, una tesi che può apparire contraddittoria: «La volontà umana, senza la grazia, non è libera, ma è serva, per quanto non contro voglia»[11]. Come si può sostenere che la volontà umana non è libera, ma che le azioni non vengono compiute contro voglia? La volontà senza la grazia pecca, sarebbe schiava del peccato e non sarebbe libera di perseguire il bene, ma l’uomo «[...] ha un libero arbitrio per il male, per il piacere per le malvagità e o serve se tratto in inganno in modo occulto, oppure in modo manifesto, se lui stesso è persuaso»[12].
Questa tesi concorda in parte con la concezione della volontà come è stata formulata, per esempio, da san Tommaso d’Aquino (1225-1274): la volontà non dispone di una “libertà assoluta”. La volontarietà di un atto non viene compromessa dal fatto di essere “mossa” da uno stimolo interno del corpo o proveniente dall’esterno, ma consiste piuttosto nella facoltà di scegliere fra differenti possibili risposte allo stimolo: quando la volontà comincia a volere qualcosa, è necessario che ci sia qualcosa che ha iniziato il processo volitivo[13] e il fatto stesso che il primo inizio di un’azione volontaria si trovi al di fuori della volontà stessa non mette in discussione la libertà di questa azione[14].
Per Lutero, però, l’uomo decaduto a causa del peccato è solo carne, non è illuminato dallo spirito, non può orientarsi al bene, ma è totalmente soggetto a desideri e pulsioni della carne e a istinti egoistici. L’uomo sarebbe quindi limitato nelle sue scelte e, in questo senso, sarebbe schiavo, ma d’altra parte asseconderebbe l’inclinazione della concupiscenza e le pulsioni verso le cose malvage, ciò che non avverrebbe controvoglia.
Un atto umano sarebbe solo il prodotto finale di un processo o di un’attitudine che lo condizionerebbero. Utilizzando una terminologia moderna, si potrebbe dire che un atto volontario procede da una motivazione inconscia, e che l’uomo accondiscende consapevolmente a una pulsione inconscia.
Può sembrare un concetto complicato, ma si pensi alla persona con una dipendenza da alcol o da droga: la dipendenza lo costringe a bere alcol o a consumare una droga, ma la persona è spesso convinta di farlo liberamente, e di poter smettere quando lo volesse, ma la dipendenza non lo lascia agire altrimenti. 

4. La metafora dell’albero cattivo

Sempre nella Disputa sulle forze e la volontà dell’uomo senza grazia, per descrivere la condizione dell’uomo dopo il peccato originale Lutero ha utilizzato la metafora dell’albero cattivo che può produrre solamente frutti cattivi. Analogamente, le azioni dell’uomo decaduto sarebbero necessariamente cattive. Si tratta di una metafora molto importante che può aiutare a comprendere alcune tesi del Riformatore.
La metafora presuppone una radicale contrapposizione tra corpo e anima, tra carne e spirito. La psicologia antica e medievale distingueva nella parte passionale dell’anima due tendenze particolari, quella concupiscibile e quella irascibile: con la tendenza concupiscibile si desidera il bene, con quella irascibile si cerca di combattere gli ostacoli al raggiungimento del bene: Dante Alighieri (1265-1321) descrive nel Convivio come le due passioni dovrebbero esser cavalcate dalla ragione[15]. Per Lutero, però, senza l’aiuto della grazia l’uomo sarebbe solo carne e tutta l’attività umana sarebbe determinata da passioni e istinti, con la ricerca del proprio interesse e del proprio soddisfacimento[16]. Sarebbe la concupiscenza a guidare il comportamento dell’uomo incapace di superare il proprio egoismo. Questo porta a una valutazione negativa del sacramento della confessione come viene concepito dalla teologia cattolica. Con l’esame di coscienza si cerca di riconoscere i singoli peccati e, grazie alla confessione sacramentale, si può ottenerne l’assoluzione raggiungendo uno stato di grazia. Per Lutero si tratta di un errore, l’uomo decaduto non commette singoli peccati cedendo alla tentazione della concupiscenza, ma la concupiscenza in sé sarebbe peccaminosa, per questo sarebbe illusorio fare un esame di coscienza con l’intenzione di riconoscere comportamenti peccaminosi e quindi di confessarli allo scopo di sradicare ciò che c’è di male in noi.  Sarebbe come pretendere di sanare un albero cattivo solo eliminandone alcuni frutti cattivi, come se il resto fosse buono, mentre tutti frutti che verranno saranno necessariamente cattivi. La confessione sacramentale creerebbe quindi l’illusione di poter sradicare temporaneamente il male nell’uomo.
La metafora dell’albero cattivo rappresenta anche una critica radicale dell’etica e della teoria delle virtù, come sono state formulate per esempio da Platone (427-347 a. C.) e da Aristotele: l’uomo deve praticare le virtù per raggiungere il proprio fine, e l’esercizio delle virtù aiuta a migliorare moralmente l’uomo. Ma se l’albero è cattivo tutti gli sforzi per sanarlo sarebbero inutili. Anche cercando di praticare le virtù l’uomo sarebbe comunque mosso da motivazioni egoistiche, e il richiamo a valori morali sarebbe ipocrita.
Non sarebbe possibile un autentico amore né per Dio né per il prossimo, e non sarebbe neanche possibile acquisire dei meriti davanti a Dio. Le azioni che l’uomo compie senza l’aiuto della grazia non potrebbero essere distinte in cattive, e quindi peccaminose che devono essere confessate, e buone, le “opere” che invece farebbero acquisire dei meriti davanti a Dio, ma tutte sarebbero frutti dell’albero cattivo.  Questo principio mette in discussione radicalmente la visione cattolica: se tutte le azioni, le opere, non servono ad acquisire meriti, la pratica religiosa, le virtù, i voti religiosi e le opere di misericordia non contribuirebbero alla propria salvezza, anzi, proprio tale presunzione diminuirebbe la fede in Cristo, l’unico redentore.
La confessione sacramentale alimenterebbe poi la superbia, l’uomo si arrogherebbe la facoltà di contribuire attivamente, tra l’altro con la contrizione e successivamente con la penitenza, alla remissione dei peccati, ciò che sarebbe possibile unicamente per mezzo della grazia divina che viene concessa gratuitamente. L’uomo quindi vorrebbe mettersi al posto di Dio e sminuire l’opera redentrice di Gesù Cristo, come se l’agnello di Dio non fosse stato in grado di togliere tutti i peccati del mondo, ma fosse ancora necessario un contributo del peccatore.

5. Crisi spirituale e Riforma

Lutero stesso descrive dettagliatamente la sua crisi spirituale, i suoi scrupoli, lo zelo che non gli dava pace nell’esame di coscienza per cercare tutti i possibili peccati e che lo spingeva a impegnarsi nelle opere di devozione, con digiuni e veglie, ma quanto più cercava di liberarsi dal peccato, tanto più se ne sentiva schiavo, quanto più si impegnava, tanto peggio si sentiva, arrivando alla disperazione. Lutero si è persuaso che tutti i suoi sforzi erano vani e che neanche i sacramenti lo aiutavano.  In questa condizione si è convinto, a causa delle conseguenze del peccato originale e senza l’aiuto della grazia, di non essere dotato di libero arbitrio, di non poter scegliere tra bene e male, e quindi se peccare o no, ma di non poter non peccare. Solo la grazia elargita gratuitamente da Dio lo avrebbe potuto giustificare, mentre tutte le opere, l’osservanza della Legge, tutte le cerimonie e la maggior parte dei sacramenti della Chiesa cattolica sarebbero non solo inutili per la giustificazione, ma distoglierebbero addirittura dalla vera fede. Lutero ha pensato di trovare in un’interpretazione radicale della contrapposizione tra carne e spirito, soprattutto nelle lettere di san Paolo, la giustificazione scritturale per il suo pensiero e, conseguentemente, anche il fondamento per la sua critica alla Chiesa cattolica.









N.B. Le citazioni di testi di Lutero sono da D. Martin Luthers Werke. Kritische Gasamtausgabe. Weimarer Ausgabe [in sigla WA + n. vol./tomo], 127 voll., Hermann Bohlaus Nachfolger, Weimar 1883-2009; per brevità sono riportate nel corpo del testo e non in  nota.

[1] Wilfried Härle, Einleitung [Introduzione], in Michael Bayer (a cura di), Martin Luther. Latein-deutsche Studienausgabe, 3 voll., 2a ed. riveduta, Evangelische Verlagsanstalt, Lipsia 2016, vol. I, Der Mensch vor Gott, pp. XI-XLII (p. XV).
[2] La citazione è la seconda parte del versetto che suona integralmente: «E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa».
[3] Cfr. «Chiunque cerca la grazia per mezzo delle opere crocifigge Cristo. Ogni monaco crocefigge Cristo re, non nella sua persona ma nel cuore suo e di altri» (WA 40/I, p. 326).
[4] Cfr. De vitiis capitalibus in merito operum et opinione sanctitatis se efferentibus (WA 1, cit., pp. 70-73).
[5] Cfr. Quaestio de ve viribus et voluntate hominis sine gratia, in M. Beyer (a cura di), op. cit., pp. 1-17.
[6] Ibid., p. 2.
[7] Ibidem.
[8] Ibid., p. 4.
[9] Ibid., p. 6.

[10] Ibidem.
[11] Ibid., p. 8.
[12] Ibidem.
[13] Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 9, a. 4 resp., Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 602.
[14] Cfr. ibid, q. 9, a. 4 ad 2.
[15] Cfr. «Veramente questo appetito conviene essere cavalcato dalla ragione; ché sì come uno sciolto cavallo, quanto ch’ello sia di natura nobile, per sé, sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile, alla ragione obedire conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere» (Dante Alighieri, Convivio, 4, 24, 6).
[16] Nelle opere di Lutero questa teoria della tendenza concupiscibile e di quella irascibile compare molto spesso per descrivere il disordine di queste tendenze tanto verso ciò che attrae quanto verso ciò che provoca istinti aggressivi. Con amore disordinato verso le cose e ira immotivata.

3 commenti:

  1. Dotta dissertazione sull'ideologia di uno psicopatico fobico, etilista, razzista, maniaco sessuale.....Va bene che siamo in regime di 'psichiatria democratica', ma vale proprio la pena di logorarsi il cervello per un soggetto simile con saggi dottrinali piuttosto che con una cartella clinica?

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  2. semmai Uno psicopatico guarito da un abietto moralismo che fa dell'uomo un essere spregevole non degno dell'amore di Dio.

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    1. Fratello, guarda che anche noi cattolici crediamo che l'uomo non è degno dell'amore di Dio, ma qualcosa di buono siamo pur capaci di farlo, non siamo proprio "spregevoli".... 😁

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