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sabato 21 gennaio 2017

Francesco secondo Valli, vaticanista inquieto

Da leggere anche l'articolo di Roberto Cascioli su La Bussola (VEDI QUI).
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La Croce
Si fa presto a dire “misericordia”. Sicuramente devono dirlo tutti, almeno per ora. Ma è una parola. Appunto: che vuol dire? Sono andato a parlarne con Aldo Maria Valli, il cui ultimo libro – 266. Jorge Mario Bergoglio, Franciscus P.P. – mi ha inquietato come neanche It di Stephen King.
Cos’è dunque la misericordia? E in che rapporto sta con la giustizia? È possibile rimaneggiare oggi l’equilibrio eterno di queste due prerogative divine? Il vaticanista Rai ci fa rotolare tra le labbra, in esergo al suo 266., una massima di Sant’Alfonso (principe e patrono dei moralisti) tratta dal suo Apparecchio alla morte: «Dio usa misericordia con chi lo teme, non con chi si serve di essa per non temerlo». Ed è questa l’antifona più autorevole e suggestiva per un testo che cerca di riflettere senza giri di parole su alcune perplessità vieppiù diffuse tra i cattolici, che vogliono amare cordialmente il Santo Padre per il suo ministero e che, ultimamente, fanno sempre più fatica a riconoscere la voce del Pastore in quella del suo Vicario.
Quando mi son trovato con questo libro davanti me lo son portato anche a letto dicendomi: non può essere che questo sia Aldo Maria Valli! Quell’Aldo Maria Valli di “Rivoluzione Francesco”? Da parte mia, nel mio piccolo lavoro quotidiano, ho cercato e cerco di essere un mediatore tra Francesco e i predecessori, così come abbiamo cercato di fare in tantissimi; però non posso negare che alcune cose – prima meno, poi un po’ di più – hanno cominciato a stridermi, e siccome non sono un “normalista” né voglio passare per tale, ma mi hanno insegnato a leggere la continuità nella Tradizione in un senso e nell’altro, arrivo a un punto in cui preferisco tacere e non prendere la parola sull’argomento, visto che mi ritrovo nell’impossibilità di dare un giudizio pacificato e coerente. Che cosa è successo, invece, ad Aldo Maria Valli?
Vorrei saperlo anch’io. Io ho nutrito molte speranze in Francesco, perché – ce lo siamo dimenticato in fretta – provenivamo da una situazione con una Chiesa Cattolica finita in un angolo come un pugile suonato, nell’ultima parte del pontificato di Benedetto XVI (non per colpa di Benedetto ma per una serie di operazioni contro di lui e contro la Chiesa), per cui la situazione era quasi disperata. E Benedetto, con la sua decisione di rinunciare al pontificato, ha sparigliato le carte e ha trovato una via d’uscita che, impersonata da Francesco, a me era sembrata un’ottima via d’uscita: ecco – mi dissi – il Papa di cui abbiamo bisogno in questo momento. Le perplessità si sono manifestate strada facendo: all’inizio ho notato una certa superficialità, l’uso di alcune parole generiche, di espressioni ambivalenti; ma sono sfociate essenzialmente in Amoris lætitia, documento che ho letto e riletto e meditato più volte, e nei confronti del quale alla fine non ho potuto nascondere tutte le mie riserve.
Si tratta di un documento lungo, complesso: ci si può trovare un po’ tutto e il contrario di tutto, a seconda di dove lo si prende. Per esempio, per quanto riguarda il matrimonio cristiano c’è sicuramente l’elogio dell’indissolubilità, dell’apertura alla vita; però d’altro canto ci sono anche parole che sembrano giustificare condotte che vanno in senso contrario. Adesso, senza fare l’esegesi capitolo per capitolo e andando al fondo della questione: ho avuto proprio l’impressione che legittimi, alla fin fine, il soggettivismo più spinto, cioè quell’etica della situazione in base alla quale non esiste tanto un bene oggettivo ma meramente un bene soggettivo, e tutto dipende dall’interpretazione personale circa la qualità della situazione che si vive in un dato momento. E mi dico: se questo non è soggettivismo io non so cosa sia. Da quel momento in poi le perplessità si sono addensate, e mi sembra proprio che il relativismo sia entrato nel Magistero della Chiesa. Quel relativismo contro il quale ci aveva messi in guardia con tanta attenzione, con tanta passione, Ratzinger… credo che adesso sia entrato. Non so con quanta consapevolezza da parte di Francesco, perché mi rendo conto che lui non è un pensatore sistematico. Mi rendo anche conto delle sue difficoltà di esprimersi in italiano… complice anche questo suo argomentare un po’ immaginifico. Però è difficile non rendersi conto che qualcosa non quadra, rispetto alla dottrina ma anche al senso comune dei fedeli cattolici.
Lei ha detto “relativismo” e ha richiamato la lezione di Benedetto XVI che comincia dall’omelia nella Missa pro eligendo Pontifice che suonava a un tempo come la diffida ai cardinali per la propria elezione e il discorso programmatico del futuribile pontificato ratzingeriano. Eppure mi ricorda anche un altro pastore che le è tanto caro, che è Carlo Maria Martini: ricordo che in più di una circostanza – tra cui spicca l’omelia per il XXV di episcopato – il Cardinale aveva parlato di “un relativismo cristiano”, che consisterebbe in soldoni nel riportare ogni realtà come “relativa a Gesù”. Era una citazione che stavo aspettando, nelle ultime pagine del suo libro, dove lei parla di “due relativismi”, di cui “uno buono” e “un altro cattivo”: invece la citazione non è arrivata. Tuttavia vorrei chiederle: il Cardinale cosa avrebbe detto di 266.?
Sinceramente non lo so. So solo che lui amava distinguere le persone tra pensanti e non pensanti, quindi credo che lo apprezzerebbe come apprezzava tutto ciò che può costituire un contributo al dibattito e all’inquietarsi a vicenda – “inquietare” era un verbo che gli stava molto a cuore. D’altra parte credo che quanti fanno un parallelo tra Francesco e Martini siano fuori strada. Incontro spesso persone che mi dicono: «Francesco sta forse portando a concretezza ciò che Martini aveva chiesto per la Chiesa». Io non penso che le cose stiano così. Intanto in Martini c’era un aggancio alla Scrittura, molto rigoroso, che non ritrovo in Francesco. E poi ci sono in Francesco accenti di “populismo” religioso – quando non in senso politico e sociale – che non ritrovo per nulla in Martini, il quale invece era sempre molto attento alle distinzioni e all’uso accorto delle parole. La nostra generazione, soprattutto di noi ambrosiani, è cresciuta con Martini nella dedizione a ogni parola nel suo significato preciso. Niente a che fare con certe superficialità che riscontro oggi con Papa Bergoglio.
Beh, c’è anche un differente pedigree accademico: entrambi sono stati docenti universitarî, ma Martini – che viene spesso riduttivamente passato per “biblista” – era più precisamente un editore, uno che conosceva a menadito non solo le Scritture, ma tutti i loro singoli testi in papiri e codici antichi, con le relative differenze. Quest’acribia era chiaramente diventata per lui metodo di vita.
E di analisi della realtà, con una precisione e un’accuratezza difficilmente riscontrabili in generale, ma soprattutto, direi, relativamente all’attuale pontefice.
Ma perché l’uno e l’altro, secondo lei, sono passati per “quelli delle aperture”?
Credo, per quanto riguarda Martini, perché c’era da parte sua lo sforzo di mettersi nei panni degli altri. Da buon gesuita, ci diceva: «A me piace la montagna perché, quando vado in cima, ho la possibilità di vedere i due versanti, e a noi gesuiti piace fare questo, osservare la realtà nella sua complessità». E anzi, cercava questo confronto: ricordiamo la Cattedra dei non credenti. Questo però non l’ha mai portato ad aperture incondizionate o ad annacquare il messaggio evangelico. È stato accusato anche di questo, ma secondo me ingiustamente: era invece una sua ricerca intellettuale e umana che lo conduceva a porre molte domande, consapevole della complessità dell’esistenza e della varietà delle situazioni. E per quanto riguarda Francesco, alcuni amici mi dicono: «Ma tu non lo capisci, quando chiede il discernimento, in Amoris lætitia, va incontro alle persone». Ecco, io trovo che ci sia una genericità, in questi messaggi, che non fa bene a noi, uomini e donne del nostro tempo. Non credo che oggi abbiamo bisogno di messaggi imprecisi, superficiali, ambivalenti… “Discernimento” per cosa, per chi, per arrivare dove? Nel libro mi spingo a dire: «È per la salvezza dell’anima o per un generico benessere psico-fisico?». Ecco, tutto questo non viene mai precisato. La stessa espressione “periferie esistenziali” è molto bella, come è bella “ospedale da campo”, ma chi dobbiamo guarire? Chi vuole lasciarsi guarire nell’ospedale da campo? Quale medicina diamo? Ecco, questa indeterminatezza la trovo perniciosa: noi viviamo già in questa postmodernità in cui non sappiamo più a che cosa agganciarci, soprattutto sotto il profilo morale. Io faccio il giornalista e quindi non vorrei sconfinare in campi squisitamente filosofici o teologici, che non sono i miei, però da uomo, da fedele, da persona che si guarda attorno, da marito, da padre, da nonno, mi accorgo che non ho bisogno di questa impalpabile consolazione generica, ho bisogno di verità a cui agganciarmi, e vorrei che qualcuno me le mostrasse, me le comunicasse.
Infatti nel libro c’è un passaggio in cui si legge: «Il ministero petrino è quello di confermare i fratelli nella fede, non quello di confonderli».
In un articolo, nel mio blog, ho scritto tempo fa che «il papa è forse fuori sincrono», un altro articolo che ha fatto scalpore e suscitato sconcerto in tanti miei amici. Forse sta applicando una ricetta, quella conciliare, che poteva andar bene cinquanta o sessant’anni fa, quando venivamo da una Chiesa magari troppo sganciata dalla realtà e troppo isolata, che rifiutava di fare i conti con ciò che le stava accanto; oggi il problema è probabilmente l’opposto – una Chiesa fin troppo immersa nel secolo, orizzontale, che non è più in grado di alzare lo sguardo a ciò che conta davvero e incapace di mostrarci una trascendenza. Quello che Benedetto ha cercato di fare, con grande fatica ed essendo sempre largamente incompreso. Pregiudizialmente, fra l’altro.
Verso la fine del libro lei dice: «Non rimpiango i papi che usavano il “noi”». Io invece, benché non rimpianga affatto il plurale majestatis, ho nostalgia di quella chirurgica precisione con cui Benedetto XVI alternava la prima persona singolare, che usava esclusivamente quando raccontava cose personali in senso stretto, la prima plurale, che suonava sempre come un plurale modestiæ in cui si ritrovava tutta la Chiesa, la terza singolare, con la quale esprimeva l’oggettività dell’ufficio petrino. Ci troviamo oggi al paradosso di diversi critici che accusano Francesco – il Papa umile, che non mette le scarpe rosse, compra gli occhiali da solo e telefona alla gente – di essere un autoritario e di “metterci troppo ego”, sia nella comunicazione sia nel governo in senso stretto.
Sì, questo mettersi molto in primo piano lo avverto anche io con una certa inquietudine: non riesco a capire fino a che punto sia una falsa modestia, da parte di Francesco. Per questo il famoso “chi sono io per giudicare?” – frase che intanto andrebbe sempre citata per intero – mi ha interrogato così tanto che alla fine mi sono deciso a scrivere questo libro: se pure il Papa, se perfino il capo della Chiesa cattolica, arriva a dire “chi sono io per giudicare?”, vuol dire che l’ultimo baluardo di chi aveva le carte in regola per proporci un bene oggettivo, una Verità con la v maiuscola, viene a cadere, e – lo ripeto, lo dico nuovamente da umile credente, uomo di questo mondo e di questa fase storica – che cosa ci resta, se anche il Papa dice “chi sono io per giudicare?”. Qualcuno dice: «Ma lui così si mette alla sequela di Gesù, che non ha giudicato». Però è anche vero che Gesù ha detto: «Va’ e non peccare più», non si limitava solo all’accoglienza. E poi è vero che il pastore dovrebbe avere questo fiuto – lui parla tanto di portare addosso l’odore delle pecore – e l’odore delle nostre pecore oggi qual è? È quello di un gregge sperduto in balia del soggettivismo e del relativismo più sfrenato, di mancanza totale di certezze a cui agganciarsi, di diseducazione morale: noi ci preoccupiamo tanto di accumulare esperienze, pare che tutto ciò che possiamo dare ai nostri figli –parlo adesso come padre – sia una serie di occasioni, di esperienze, e diciamo sempre “poi faranno le loro scelte”. Senza renderci conto che “poi” sarà troppo tardi, se non diamo loro oggettive ragioni per giudicare in base a criterî validi. Allora in questa situazione di liquidità – per usare un’espressione ormai famosa – abbiamo proprio bisogno di questo tipo di insegnamento, di Magistero, che introduce altre massicce dosi di liquidità? Non credo, ecco perché ho scritto “fuori sincrono”. Senza contare anche le modalità di espressione: siamo sicuri che l’intervista – e l’intervista a personaggi come Scalfari – sia la modalità comunicativa più appropriata, per il Papa? Io non lo credo. Ci sarà stato un motivo per cui un tempo i Papi si guardavano bene dallo scendere su questo livello, perché è un livello sdrucciolevole, soprattutto poi se non ti esprimi nella tua lingua madre. Occorrono attenzione e prudenza, se sei il Papa, e non puoi svendere questa autorità – che ti è stata data – e scioglierla a tua volta in un panorama già ampiamente imbevuto di superficialità.
Devo confessare che, nel corso della lettura del libro, mi è venuto un dubbio: non è che Valli sta diventando nostalgico? Perché vedo che si citano Burke e Sarah con una certa enfasi – soprattutto Sarah –: due “fondamentalisti”, lei scrive, riportando l’aneddoto con cui il primo si mise al petto il distintivo di “fondamentalista” e quello con cui il secondo, interrogato in merito, accettò con un sorriso di portarlo. Quindi abbiamo bisogno di fondamentalisti?
Ehm… sì. Ecco. Dobbiamo intenderci sulla parola “fondamentalista”: se fondamentalista è chi mi propone una dottrina chiara, certa, senza ambiguità, io penso di sì.
Come ha giudicato la vicenda dei Dubia?
Io trovo che sia legittimo, da parte di questi cardinali – che poi non sono quattro ma sei, due non hanno voluto apparire con il loro nome – anzi mi è parso l’esercizio del loro compito peculiare di aiuto al Papa, quindi hanno esercitato non solo un loro diritto ma un loro dovere. E credo che abbiano esercitato anche quella libertà cristiana che è fondamentale per tutti noi credenti.
Non dovevano limitarsi a spedire privatamente la lettera e rassegnarsi a non ricevere risposta, senza montare poi il caso nell’agorà mediatica?
No, io non sono di questo avviso, perché ciò significherebbe aver paura del confronto tra di noi, e anche questo non rientra nella libertà del cristiano. Io cerco sempre di esercitare il massimo di ossequio per la figura papale, ma questo non mi impedisce di interrogarmi come uomo, come credente, su ciò che lui propone, e credo che il confronto debba essere aperto. Nostro Signore ci ha regalato e comandato la parrhesía.
È accaduta un’altra cosa, in questo dicembre: oltre al suo libro è uscito – si parva licet… – anche un film con Claudio Bisio e Angela Finocchiaro. Si chiama “Non c’è più religione” e il dato più interessante, in un film non imperdibile, è lo sfottò continuato al “nuovo corso ecclesiale”: ecclesiastici di varie risme che alludono, senza fare mai il nome dell’attuale pontefice, a regole che non valgono più o che presto non varranno. E il tono è quello di una rassegnata stanchezza, come si farebbe coi capricci di un sovrano dalle volontà insondabili.
Ho visto il trailer ma non vado mai al cinema perché purtroppo non ho tempo. Certo che se i comici dell’establishment deridono la “Chiesa progressista”… [ride, N.d.R.] siamo già all’interpretazione ridicola? Il tempo passa in fretta, effettivamente. Non so che dire. Quello che posso vedere è che c’è grande confusione, nella Chiesa attuale. Io per forza di cose conosco tanti preti, tanti religiosi, e constato che sono in stato di confusione: non sanno, a loro volta, a che cosa agganciarsi. Ecco un altro sintomo preoccupante della liquidità di cui parlavamo prima: Amoris lætitia la si può interpretare in un modo o nell’altro, da destra o da sinistra, da sopra o da sotto, è difficile trovare una via univoca. Il concetto stesso di discernimento non si capisce dove debba portare e a che cosa.
In effetti lo stesso Ignazio, principe del discernimento, specifica con esattezza che il discernimento serve «per vincere sé stessi e per mettere ordine nella propria vita».
C’è grande sconcerto. Un parroco incontrato pochi giorni fa, ma anche un altro che mi ha scritto proprio ieri, mi chiede: «Che cosa devo fare? Il vescovo mi dice “Io me ne vado in pensione, saranno fatti vostri”». È una situazione abbastanza tragica, se mi si passa la parola. Se i pastori, quelli che sono col gregge tutti i giorni, non sanno dove condurlo, a che cosa agganciarsi?
Da una parte abbiamo i Dubia, dall’altra però abbiamo – più diffuso e costituzionalmente meno rumoroso – un atteggiamento curiale e di corte, per cui vuoi compiacere quelli sopra di te, e non sapendo esattamente come fare cerchi di non dare nell’occhio.
…Oppure ripeti alcune parole d’ordine che suonano bene, anche se non si capisce bene che cosa significhino. Io noto questo grande disagio. Sull’altro piatto della bilancia, poi, c’è la parola di Francesco che arriva alla gente – fra l’altro tagliuzzata e manipolata da noi dei massmedia –, la quale gente se ne impossessa e la utilizza pro domo sua in modi inconcepibili. Ho assistito a scene in parrocchia laddove arrivano persone dicendo: «Ormai tutto libero, divorziati risposati alla comunione, non ci sono più problemi, l’ha detto Francesco». Oppure persone che vogliono fare i testimoni a battesimi e cresime, pur non avendo le carte in regola, e dicono: «Signor parroco, lei non è aggiornato: se ci fosse Francesco, qui, lo farebbe subito». Perché poi bisogna fare i conti con la realtà che è questa: non tutti sono filosofi o teologi, sì da potersi porre grandi problemi. Alla fine, in spiccioli, quello che arriva è questo.
Ecco una cosa che io ho forse sottovalutato, almeno fino a questo punto: il mio tentativo di mediazione è stato sempre soprattutto sul piano dei documenti. Mi è suonato un campanello d’allarme durante il veglione di Capodanno, a casa di un amico, quando quest’ultimo – un uomo con anni di CLU [la sezione universitaria di Comunione e Liberazione, N.d.R.] alle spalle – mi diceva: «Ma sai, questa cosa del valutare caso per caso è proprio buona, alla fine viene incontro agli uomini del nostro tempo, e che vuoi fare?». E io pensavo: «Tu quoque!». Mi illudevo che quelle cose le avrei sentite solo al bar o chissà dove. Invece vuol dire che il problema della ricezione è più complesso e meno scontato di quanto si possa ritenere. Personalmente, davanti ad Amoris lætitia, ero arrivato a pensare che il Papa intendesse lasciare un vasto spettro di possibilità, tra cui anche qualcuna illecita, per vedere dove si sarebbe diretto il sensus fidei ecclesiæ, riservandosi al limite un ruolo arbitrale. Se però arrivano le richieste di chiarificazione dalla base, e dall’alto non corrispondono delle direttive ermeneutiche che accompagnino questa ricezione… che “sinodalità” ne può venir fuori? Quella, radicale, di “Noi siamo chiesa”? In realtà questo atteggiamento sta snervando anche loro, come lei riporta nel libro. Invece che mi dice della flessione degli ascolti durante la Messa di Natale? Quest’anno ci siamo attestati sui 2.900.000 telespettatori circa; solo l’anno scorso eravamo a 3.500.000.
Sì, è vero, è costantemente in flessione: cala continuamente tutti gli anni, ed è un trend specifico del pontificato di Francesco. Non saprei neanche dire se e come questo dato venga analizzato in Vaticano, ma avevo notato anch’io la flessione: lascio che la interpreti chi di dovere. Io, da parte mia, posso dire solo una cosa: quando il Papa attacca i preti, i vescovi, i curiali, e li accusa di tutte le nefandezze, le malattie e i peccati di questo mondo, non ci si deve poi stupire troppo se c’è un certo distacco da parte delle persone. Alla fin fine, a proposito di messaggi che arrivano, questi sono quelli che colpiscono di più: tu sei il Papa bravo, povero, simpatico, che esce da solo per comprarsi gli occhiali… due persone son venute qui ieri, a fare dei lavori nella stanza – due persone che potremmo prendere per campioni dell’uomo comune – e mi dicevano: «Oh, lei fa il vaticanista: com’è fortunato a stare in contatto con questo Papa tanto bravo perché esce e va al negozio da solo. Lui… ti telefona… è vero che le ha telefonato?». E no, non mi ha telefonato [ride, N.d.R.]. Capisce che, se sono queste le categorie di valutazione… non ci siamo. E alla fin fine che cosa resta? A che cosa ci agganciamo? Non si va oltre lo slogan.
A proposito di messaggi contraddittorî tra l’azione e la parola del Papa, c’è un argomento su cui il Pontefice regnante è stato duro come nessuno dei suoi predecessori, e penso al gender. Mai Benedetto XVI avrebbe osato paragonare quell’ideologia nefasta alla Hitlerische Jugend: Francesco lo ha fatto, e in più di un’occasione. Viceversa, in occasione dei Family Day del 2015 e del 2016… silenzio. E un silenzio non compiaciuto. Tra gli organizzatori era corsa voce che il Papa temesse un flop, ma perché allora non ha parlato neanche dopo? Neanche una parola… alla Marcia per la Vita, che era un’altra cosa e a cui partecipavano tra gli altri un cardinale e un paio di vescovi, appena un fugace cenno dal Palazzo Apostolico. C’era veramente un accordo col governo italiano per le unioni civili? Che partita s’è giocata?
Non lo so, purtroppo non ho elementi e riscontri per poter dare una risposta. L’unica cosa che mi viene in mente è quella frase che Francesco ha usato spesso parlando di sé stesso: «Sono un po’ ingenuo e un po’ furbo». Io credo che giochi anche con la politica, non volendo seguire strade che lo possano legare dal punto di vista politico, esporlo, costringerlo a percorsi… Bergoglio è molto furbo, da questo punto di vista. E lo è anche a prezzo di non appoggiare il popolo. Vedo una forte contraddizione, in lui che parla tanto di popolo, quasi fosse santo e infallibile in sé – quante volte ne ha parlato in questi termini, anche a partire dal proprio retaggio sudamericano e peronista – e poi quando ha avuto una così forte manifestazione di popolo non l’ha presa in considerazione? Allora c’è dell’opportunismo politico. Chiaramente. Adesso io non so analizzare in quale direzione vada questo interesse, non ho elementi, però in questo fatto c’è una contraddizione evidente rispetto a ciò che il Papa dice abitualmente.
Veniamo alla conclusione: dopo Francesco. Anzitutto: quando?
Come diceva Martini, nessuno è profeta. Io non lo so. Qualcuno dice che si dimetterà anche lui. Io non credo, vedo che gli piace molto fare il Papa. Sembra un’altra persona, rispetto al cardinale Bergoglio che abbiamo conosciuto in Argentina, che era un tipo abbastanza cupo, che rideva raramente; una persona quasi macerata nel proprio ruolo di comando. Qui invece vediamo un Papa felice, popolare, sorridente: il ruolo lo ha cambiato, ama molto quello che sta facendo. Credo che le difficoltà per chi verrà dopo di lui – non so quando – saranno enormi. Terribili. Perché questo Papa sta lasciando margini di incertezza talmente grandi per cui ricostruire sarà molto difficile.
Ne parlavo con una collega, l’altra sera, che mi diceva: «Col conclave che si annuncia, tutto “bergoglizzato” com’è, ci si deve aspettare un pontificato conforme». A me sembra che questo non si possa dire, e che l’unico modo che un Papa ha per essere sicuro del proprio successore sia il nominarlo direttamente (cosa già accaduta e sempre in potere del Santo Padre), ma è cosa che non credo che Francesco vorrà fare. Temo invece che ci sarà una reazione, verosimilmente anche molto dura.
Questo è storicamente dimostrato: i conclavi sono imprevedibili. Quanto alla restaurazione, è una possibilità concreta, un rischio attuale: a giudicare dallo sconcerto diffuso – anche fra gli stessi che hanno appoggiato Bergoglio e che si sono resi conto della situazione cui si è arrivati – credo sia una possibilità sulla quale occorra riflettere. Sembra che ora come ora non si sappia più bene che cosa sia il deposito della fede. Quando il 15 dicembre il Papa ha ricevuto in udienza la comunità del Bambin Gesù, e poi l’ha ripetuto nell’udienza generale del 4 gennaio, ha detto: «Di fronte al problema del dolore innocente io non ho risposte»… ha detto proprio così! E poi ha soggiunto: «Nel crocifisso c’è forse qualche strada di consolazione». Questi sono elementi sconcertanti, di fronte ai quali si resta basiti. Certe contorsioni sono sconcertanti, da parte di Pietro: «Tu sei Pietro», non puoi buttar via così la tua funzione

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