Una bella notizia in questi tempi malvagi (grazie a Giovanni per la traduzione).
Da leggere anche questa interessante intervista ad Avvenire di Di Nardo (vedi QUI) dove il neo presidente risponde in maniera netta sui valori della tutela della vita nascente e non cade nella trappola dell'intervistatore del quotidiano CEI.
Da leggere anche questa interessante intervista ad Avvenire di Di Nardo (vedi QUI) dove il neo presidente risponde in maniera netta sui valori della tutela della vita nascente e non cade nella trappola dell'intervistatore del quotidiano CEI.
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Ultim’ora da LifeSiteNews: il
cardinale DiNardo eletto presidente della Conferenza Episcopale Americana
(USCCB); l’arcivescovo Gomez eletto vicepresidente
Baltimora, Maryland, 15 novembre 2016: martedì mattina i vescovi
degli Stati Uniti hanno eletto il cardinale Daniel DiNardo, di
Galveston-Houston in Texas, come loro presidente e l'arcivescovo Jose Gomez di
Los Angeles come vice presidente; essi rimarranno in carica per un periodo di
tre anni.
DiNardo ha vinto facilmente al primo scrutinio con 113 voti
mentre per l'elezione di Gomez ci sono volute diverse votazione al termine
delle quali egli ha superato con largo vantaggio l’arcivescovo Gregory Aymond
di New Orleans: Gomez ha ricevuto 131 voti contro gli 84 di Aymond.
Alla riunione dei vescovi dello scorso anno, DiNardo si era
scontrato con i vescovi progressisti come il mons. Robert McElroy, che cercava
di minimizzare gli insegnamenti morali della Chiesa sulla vita e sulla
famiglia; inoltre DiNardo aveva difeso “Faithful Citizenship”, la guida alle votazioni pubblicata
dalla Conferenza Episcopale Americana.
DiNardo ha difeso l'insegnamento della Chiesa sul matrimonio e
ha fortemente sostenuto la causa pro-life:
ha detto che sperava che Papa Francesco usasse il suo discorso al Congresso per
parlare della famiglia e della difesa dei non nati.
Il cardinale DiNardo era in precedenza vice presidente della
USCCB; il suo mandato si è concluso con la riunione della USCCB del novembre
2016. DiNardo ha anche ricoperto il ruolo di presidente del Comitato delle
Attività Pro-life della USCCB; è membro del Pontificio Consiglio della Cultura,
del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, del
Pontificio Consiglio per l'Economia, infine fa parte del
consiglio di amministrazione della Catholic
University of America di Washington
Da parte sua anche mons. Gomez si è espresso a sostegno della
causa pro-life, dicendo ai fedeli che l'aborto e l'eutanasia “primeggiano” tra
le ingiustizie di oggi negli Stati Uniti; egli parla spesso anche a favore
degli immigrati, un tema su cui è stato esplicito durante e dopo le elezioni
presidenziali 2016.
Da segnalare anche:
Matteo Matzuzzi
Roma. Gli esperti di chiesa americana suggerivano di tenere gli occhi aperti sul nome del vicepresidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti che sarebbe uscito premiato dall’urna, nel corso dell’Assemblea generale in corso a Baltimora. Da lì, dicevano, si sarebbe capito l’orientamento delle centinaia di vescovi d’oltreoceano, investiti dalla profonda rivoluzione che il Papa ha avviato sul loro terreno: nomine che rappresentano una cesura netta rispetto al passato, nuove priorità (più attenzione al sociale e meno battaglie in strada rivendicando i cosiddetti princìpi non negoziabili) e auspicio d’un generale ravvedimento rispetto alle linee di quel conservatorismo muscolare che per lustri ha dominato la scena. Il vicepresidente eletto – e in teoria, almeno secondo la prassi, destinato a divenire presidente fra tre anni – è mons. José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles, la più grande diocesi statunitense. Nato a Monterrey, in Messico, è sacerdote dell’Opus Dei.
Pur avendo richiamato anche in questi giorni la necessità di integrare gli immigrati anziché di costruire muri lungo il confine, come del resto hanno fatto i suoi colleghi, se non altro per richiamo allo spirito evangelico – “Vi prometto che non vi lasceremo mai soli”, ha detto pochi giorni dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – Gómez è considerato tra i presuli più conservatori degli Stati Uniti, in totale discontinuità con il predecessore, il cardinale Roger Mahony. Non pochi interrogativi aveva suscitato la scelta del Papa di non includerlo nella lista dei futuri cardinali che otterranno la porpora sabato prossimo in San Pietro, considerato anche il rilievo della diocesi di cui è pastore.
Scelta la continuità
Il presidente eletto è il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e anch’egli con un solido profilo conservatore (è tra i firmatari della lettera inviata al Papa durante il Sinodo per lamentare procedure non corrette). La sua elezione era quasi scontata, essendo il vicepresidente uscente – solo nel 2010 il vice uscente, mons. Gerald Kicanas, vescovo di Tucson dal profilo progressista, fu beffato nel segreto dell’urna, quando si vide superato da mons. Timothy Dolan. “Non sono sorpreso che i vescovi americani abbiano proseguito sulla linea corrente”, dice al Foglio Robert Royal, direttore del Catholic Thing: “Si vedeva all’ultimo Sinodo che gli statunitensi erano più vicini agli africani che agli europei per quanto riguarda le questioni più calde. L’unica eccezione è mons. Cupich, di Chicago, che però non ha molta influenza all’interno della nostra conferenza episcopale. Di misericordia si parla nella chiesa americana, ma non nel senso che intende Francesco”.
L’elemento da rilevare è che al ballottaggio per la vicepresidenza contro Gómez – indizio per comprendere la linea politica futura dell’episcopato – non è andato un presule di vedute opposte o un vescovo dal profilo più pastorale (i nomi c’erano, da mons. Thomas Wenski, arcivescovo di Miami attento alle questioni del cambiamento climatico – ha dedicato un ciclo di omelie domenicali all’enciclica Laudato si’, a mons. John Wester, arcivescovo di Santa Fe), bensì mons. Gregory Aymond, di New Orleans, “un tradizionalista, punto e basta”, dice Royal. Tra le altre cose, fu tra i firmatari di una lettera di protesta inviata alla Notre Dame University di South Bend, in Indiana, contro la decisione di conferire a Barack Obama una laurea honoris causa, considerate le sue posizioni favorevoli all’aborto e alla ricerca sulle cellule staminali. Una linea che, aggiunge il direttore del Catholic Thing, è quella di mons. Charles Chaput, arcivescovo di Philadelphia.
di Matteo Matzuzzi | 15 Novembre 2016
Di Nardo e Gómez, chi sono i nuovi vertici (conservatori) della Conferenza episcopale Usa
La Chiesa cattolica americana ha scelto il suo nuovo vertice. Si tratta del nuovo presidente della Conferenza episcopale americana, il cardinale di Galverston-Houston, Daniel Di Nardo (nella foto), 67 anni, per tre anni vicepresidente (eletto alla prima votazione) e del nuovo numero due, l’arcivescovo di Los Angeles, José Horacio Gómez, 65 anni (eletto alla terza votazione).
Di Nardo è figlio di un immigrato italiano dall’Abruzzo e Gomez è nato in Messico. È la prima volta che un ispanico arriva così in alto nelle gerarchie cattoliche in Usa. Quindi entrambi conoscono per esperienza diretta quanto sia necessaria l’integrazione dei migranti in una nazione in cui lo stesso stemma presidenziale contiene il motto “E pluribus unum”.
Questo non fa di loro, e nemmeno di Gomez, una scelta che si possa semplicisticamente definire come “contraria” al presidente eletto Donald Trump. Semmai, una scelta bilanciata e insieme di pungolo alla nuova amministrazione.
Dal punto di vista ecclesiale sia Di Nardo che Gómez sono teologicamente “conservatori”. Di Nardo è uno dei tredici cardinali che nel 2015 ha firmato una lettera al Papa per ‘contestare’ i lavori del Sinodo sulla famiglia, è un esponente pro-life. Di Nardo è stato fatto cardinale da Benedetto XVI, ed è stato sempre Benedetto XVI che ha nominato nel 2010 Gómez coadiutore e, l’anno successivo, arcivescovo di Los Angeles (più a destra del suo predecessore, Roger Mahony). Gomez inoltre proviene dalle fila dell’Opus Dei (ordinato prete dell’Opera, nel 1978).
Ma sull’immigrazione Gomez, che nei tre anni passati, è stato il presidente del relativo Comitato dei vescovi, è completamente sulla stessa lunghezza d’onda del Papa. Lo ha ripetuto più volte, anche il 4 ottobre alla Radio Vaticana.
Nell’elezione di Trump il voto cattolico è stato importantissimo. Circa 68 milioni negli Usa, i cattolici costituiscono un quarto dell’elettorato e il tycoon ne ha conquistato il 52 per cento (contro il 45 per cento di Hillary Clinton), compresi i latinos della Florida che sono stati essenziali per la vittoria del candidato repubblicano. Quindi adesso il nuovo vertice della Conferenza episcopale americana dovrà interfacciarsi sia con i propri fedeli e il loro odore di pecore, che con il nuovo Presidente.
Il sito ufficioso vaticano, Il Sismografo, a firma del direttore editoriale Luis Badilla, ha illustrato il videomessaggio inviato martedì 15 novembre da Papa Francesco ai vescovi statunitensi riuniti nella loro plenaria d’autunno a Baltimora, con un titolo significativo: “Francesco e il ‘volto mutevole della Chiesa americana’” (espressione, quest’ultima, tratta dal videomessaggio) e con un’illustrazione che lo è ancora di più: l’immagine di un ponte fatto con i lego, ma un ponte accidentato e spezzato.
Il Papa ha detto: “Durante tutta la sua storia, la Chiesa nel vostro Paese ha accolto e integrato nuove ondate di immigrati. Nella ricca varietà delle loro lingue e tradizioni culturali, essi hanno forgiato il volto mutevole della Chiesa americana”. E ha esortato a tenere conto “del contributo che la comunità ispanica dà alla vita della nazione”. Il Papa delinea un orizzonte pastorale: “La nostra grande sfida – dice – è creare una cultura dell’incontro, che incoraggi gli individui e i gruppi a condividere la ricchezza delle loro tradizioni ed esperienze, ad abbattere muri e a costruire ponti. La Chiesa in America, come altrove, è chiamata ad “uscire” dal suo ambiente sicuro e ad essere un fermento di comunione. Comunione tra noi, con gli altri cristiani e con tutti coloro che cercano un futuro di speranza”.