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giovedì 23 giugno 2016

Deus sabaoth. L’aspetto bellico della liturgia


 Alcuni amici ci segnalano questo interessante articolo (vedi QUI) di un giovane liturgista.
L

di don Emanuele Borserini
– Sin dal primo giorno della Quaresima, il Mercoledì delle Ceneri, la Chiesa parla di questo tempo liturgico evocando il “combattimento contro lo spirito del male” che avviene impiegando “le armi della penitenza” (Colletta). Questo linguaggio militaresco, apparentemente estraneo al cristianesimo, è una categoria tipica della liturgia e possiamo ricercarne il senso profondo a partire da una preghiera della Messa che tutti conosciamo certamente a memoria ma il cui significato non è poi così immediato: il Sanctus. Si tratta di un testo squisitamente liturgico che fa da collegamento tra due parti dell’anafora eucaristica: il prefazio e le prime invocazioni consacratorie. Essa è in uso in tutte le liturgie cattoliche e ortodosse ed è rimasta anche in alcune di quelle protestanti.

Dietro il rito cristiano del Sanctus c’è la liturgia ebraica e precisamente le preghiere dello Shema Israel e della Tefillà, che ogni pio israelita recita ogni giorno più volte al giorno per lodare il Signore. con questa introduzione alla preghiera, la liturgia ebraica si unisce alla preghiera degli angeli trasmessa da due profeti: il Sacnctus dei serafini udito da Isaia (Is 6,3) e il Benedictus riconosciuto nel rumore prodotto dalle ali dei cherubini da Ezechiele (Ez 3,12). La ricerca di questa unità con la preghiera angelica è dovuta alla consapevolezza che la nostra condizione di esistenza frammentata nel tempo e nello spazio rende la nostra povera preghiera inadeguata a lodare Dio come egli merita. Ecco, dunque, che l’orante chiede aiuto e conforto a coloro che sono stati creati appositamente per tessere la sua lode in modo perfetto. Per noi il riferimento è, ovviamente, anche al Nuovo Testamento, in particolare ad Ap 4,8 dove gli esseri viventi cantano Sanctus e Benedictus e Mt 21,9 dove Benedictus è il grido dei bambini all’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Anche la parte centrale del Sanctus, l’Osanna, era presente nella liturgia antico testamentaria prima di essere accolto nella nostra: è l’invocazione del dono del salvezza che troviamo nella preghiera codificata della Bibbia, cioè i Salmi. Questi pochi riferimenti biblici ci forniscono il contesto per comprendere adeguatamente una preghiera alquanto complessa: il contesto è sin dall’inizio quello liturgico espresso da elementi come il tempio, gli angeli, l’Apocalisse, la Gerusalemme celeste, l’assoluta trascendenza di Dio espressa dalla sua definizione di “tre volte santo” che però si rende raggiungibile e conoscibile proprio attraverso il suo Cristo che viene …
In tutti i testi, se escludiamo quello del vangelo, queste formule sono legate agli angeli: la loro presenza nella liturgia è fondamentale anche se con l’ultima riforma liturgica essi sono stati molto emarginati. Per secoli le nostre aule liturgiche erano cosparse di immagini di angeli, non solo come soggetto delle raffigurazioni ma anche e soprattutto come elemento decorativo degli spazi tra le raffigurazioni vere e proprie, degli elementi architettonici e di tutte le parti funzionali delle suppellettili liturgiche; oggi, purtroppo, l’iconoclastia dell’arte contemporanea non aiuta a vedere gli angeli attorno a noi. Dobbiamo riscoprire una sana teologia delle gerarchie celesti che ci appartiene da sempre, altrimenti è fatale che se ne impossessino sempre di più i ciarlatani che propongono esoterismo, magia, new age e molto altro come alternativa, a loro dire più “razionale”, alla religione. Poiché l’esistenza degli angeli è una verità, non si può eliminare e, se non ne parliamo noi che abbiamo la possibilità di farlo secondo verità, ne parlano altri in modo sbagliato e pericoloso. Pensiamo, per esempio, a quante ne sono enumerate nell’inno Te Deum che si proclama nelle domeniche e nelle solennità al termine dell’Ufficio delle Letture, un testo che riprende e amplia quello del Sanctus:

Tibi omnes ángeli, tibi cæli et univérsæ potestátes:
tibi chérubim et séraphim incessábili voce proclamant:
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus Deus Sábaoth.
Pleni sunt cæli et terra maiestátis glóriæ tuae.
Te gloriósus Apostolórum chorus,
te prophetárum laudábilis númerus,
te mártyrum candidátus laudat exércitus.
Te per orbem terrárum sancta confitétur Ecclésia.

Interpretando un po’ il linguaggio poetico, lo si può tradurre, senza allontanarsi troppo dal testo, in questo modo: “come in cielo tutti gli angeli, le potestà, i cherubini, i serafini, la gloriosa schiera degli apostoli, il grande distaccamento dei profeti e l’esercito dei martiri ti acclamano tre volte santo, così in tutta la terra anche la Chiesa ti riconosce tale”. È interessante che i tre termini usati per descrivere l’assemblea degli apostoli, dei martiri e dei profeti abbiano tutti anche un significato bellico: chorus significa anche schiera, numerus anche distaccamento militare, infine exercitus è evidente. Peraltro, anche osanna, la seconda parte del Sanctus che proviene dal Sal 118, il salmo di Pasqua, ha uno sfondo bellico: esso, infatti, dice “dona Signore la salvezza, dona Signore la tua vittoria”, questa vittoria è la vittoria della battaglia decisiva della storia tra Gesù e la morte, ed è presente nella liturgia fin dalla Didachè, il più antico testo liturgico cristiano. Del resto, anche “Dio dell’Universo” non è la traduzione ottimale di sabaoth, che, infatti, prudentemente, in latino era stata solo traslitterata, perché essa significa in realtà “Dio degli eserciti”. Sabaoth è uno dei tanti attributi di Dio che troviamo nella Scrittura e nasce proprio nell’ambito della liturgia dove questi eserciti rappresentano l’assemblea liturgica celeste fatta di angeli che si coordinano con un preciso ordine che non è soltanto quello dell’universo ben proporzionato, il cosmos, ma è un ordine di azione e gerarchico come quello militare. Poiché sono come i ministranti della liturgia celeste, anche tra gli angeli c’è un preciso ordine, l’ordine che si riflette sempre in modo imperfetto nella nostra liturgia terrena. Per questo la parola sabaoth dovrebbe essere ripresa nella sua forma originale come amen, osanna, alleluia, kyrie eleison e maranathà: sono parole difficilmente traducibili e per secoli sono state lasciate nel loro linguaggio originale nel quale hanno una pregnanza di significato ineguagliabile da qualsiasi traduzione. Queste difficoltà di traduzione ci insegnano ad avere grande rispetto per la parola liturgica: pronunciarla bene quando ci è consegnata e non cambiarla mai secondo il nostro gusto. Essa è la parola della Chiesa che risponde, traducendola nel suo linguaggio, alla Parola di Dio; è il dialogo tra lo Sposo e la sua Sposa, per usare il linguaggio dell’Apocalisse; non è roba nostra! L’attenzione alla parola liturgica non riguarda solo la sua formulazione letterale ma anche il modo di proclamarla; per esempio, nel corso della Messa, si incontrano due momenti rituali che per loro natura vanno eseguiti in canto: uno è l’Alleluia, l’altro proprio il Sanctus. Sono due riti importantissimi: il primo è il canto della gioia pasquale che, premesso alla proclamazione del Vangelo, ci attesta che quella non è lettera morta ma parola del risorto cioè di un vivente, il secondo perché è lo stesso canto che gi angeli eseguono durante la liturgia celeste. Il vero nome del primo è “canto al Vangelo” e se si chiama canto un motivo ci dev’essere. Il secondo è invece introdotto dal rito meraviglioso del prefazio il quale sempre conclude con parole che ricordano il canto degli angeli e invitano l’assemblea al canto; si percepisce dunque a orecchio che qualcosa stona se a questo invito segue una recitazione. Anche l’Ordinamento generale del Messale Romano non lascia spazio a dubbi: altrove riporta varie modalità per cantare o recitare i testi ma quando parla di questi due dice soltanto canitur (IGMR, 62) e cantat (idem, 79). Non così, per esempio, per il Pater: rimane cosa lodevole cantarlo, ma la sua formula introduttiva è “osiamo dire” e l’Ordinamento dice infatti dicunt (idem, 81). Recitarli è un errore, soprattutto quando si cantano altre parti della Messa. Dunque, prima si deve esser certi di poter cantare Alleluia e Sanctus, poi si può procedere ad aggiungere gradualmente tutto il resto, a partire, ovviamente, dall’Ordinario della Messa che ne è come l’ossatura. Inoltre, il retroterra biblico del Sanctus che abbiamo accennato ci fornisce una precisa indicazione anche sul modo di cantarlo: si tratta di un grido-proclamazione, addirittura un fragore di ali secondo Ezechiele,  un canto innalzato da schiere militari, deve quindi essere un canto vigoroso e virile!
Il significato militare di sabaoth, mentre ci fa cantare con gli angeli, ci riporta anche alla dura realtà: la vita cristiana è una battaglia e la liturgia, fonte e culmine della vita cristiana, non è e non può essere da meno. Il linguaggio bellico appartiene alla nostra fede sin dalla Sacra Scrittura. Basti pensare che il primo annuncio della salvezza è l’annuncio di un’ostilità: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gen 3,15). Si tratta di una lotta senza quartiere, perché il termine ebraico tradotto con “inimicizia” indica un’ostilità radicale, uno scontro all’ultimo sangue. Non ci meravigliamo più allora che tra le immagini che la Bibbia usa con più frequenza ci sia proprio quella bellica. Tutta la storia di Israele è costellata di battaglie e ostilità che sono l’occasione per la dimostrazione agli occhi degli altri popoli e di Israele stesso che essere il popolo di Dio significa avere con sé una forza invincibile che non dipende dalla sua bravura militare ma dalla presenza di Dio. E così, alla fine della Bibbia, nell’Apocalisse, la fine dei tempi è descritta esattamente come una guerra cosmica. La liturgia celebra la vita cristiana e la storia della salvezza che sono una vera e propria battaglia, la perenne battaglia tra il Bene e il Male. Questo linguaggio è mitologico, ma proprio per questo profondamente vero. Una battaglia che “non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6, 12), ma noi sappiamo di avere dalla nostra parte gli angeli rimasti fedeli che nella liturgia sono accanto a noi e noi usiamo le loro stesse preghiere.
Questa connotazione militare deve dare uno stile a tutto il nostro modo di partecipare alla liturgia, a partire dal modo di entrare in chiesa, di stare seduti, di muoverci quando ci è richiesto un servizio: vedere i soldati che durate la battaglia si muovo senza la gravità che la serietà del momento comporta è poco rassicurante … Sin dall’inizio della celebrazione siamo in attesa che compaia il Generale per combattere al suo fianco: la parola tabernacolo deriva dal termine latino per indicare la tenda militare, in particolare la tenda del comandante che sta al centro dell’accampamento. Finalmente, quando il sacerdote e i ministri si recano processionalmente all’altare, ecco il Generale che sfila con i suoi ufficiali, Cristo e gli angeli. Poi inizierà una conversazione perché il Generale vorrà parlare con ognuno di noi. Quando si va incontrare qualcuno di importante ci si prepara per non fare una figuraccia, così anche quando andiamo a parlare con la Persona più importante di tutte. Il sacerdote indossa degli abiti particolari proprio perché in quel momento non agisce per se stesso ma in nome di Dio e della Chiesa e, attraverso le preghiere di vestizione che il sacerdote può ed è invitato a recitare mentre assume i paramenti per la Messa, possiamo vedere ancora una volta come la connotazione militare sia presente nella liturgia. L’amitto, che si appoggia al collo ed è più alto nella parte posteriore della testa, è come un elmo, l’elmo della salvezza secondo san Paolo (cfr. 1Tes 5, 8 e Ef 6, 17). La somiglianza dell’amitto con l’elmo è più evidente in quegli ordini religiosi che prevedono un abito con il cappuccio perché da essi il cappuccio viene utilizzato come la berretta dai preti secolari e ricoperto interamente dall’amitto, sicché quando se ne coprono la testa portano su di essa anche l’amitto stesso. Il camice è la veste bianca lavata dal sangue dell’agnello (cfr. Ap 7, 14): la nostra forza. La vestizione della tunica fa riferimento al mondo romano in cui questo gesto segnava il passaggio all’età adulta; con esso il bambino diventato adulto assumeva i diritti e i doveri civili a partire dal servizio militare. Il cingolo, come ogni cosa che cinge una parte del corpo, rappresenta la purezza che si custodisce tra gli altri modi specialmente nella castità; una purezza non tanto sessuale quanto piuttosto d’intenzione per comprendere ed eseguire prontamente gli ordini del comandante. Il manipolo il segno della fatica e del dolore del soldato perché deriva dal fazzoletto che i romani usavano per detergere il sudore e le lacrime; il manipolo si porta al polso perché, essendo state le tasche inventate solo nel “buio” Medioevo, i romani portavano il fazzoletto legato al polso. La stola è la veste dell’immortalità (cfr. 1Cor 15, 53), ciò che ogni guerriero, sin dalla mitologia più antica, desidera; inoltre è il paramento identificativo del ministero ordinato per cui sbagliano profondamente i sacerdoti che giustificano il loro non usare la stola sotto la casula dicendo che non si vede. La pianeta o la casula insistendo sul collo e sulle spalle sono il giogo leggero di Gesù (cfr. Mt 11, 30), la corazza contro i colpi del maligno. Le armi che abbiamo a disposizione sono quelle della luce (cfr. Rm 13, 12), la luce della fede. Davanti a questo guerriero così armato, sventola il vessillo della croce, come poeticamente lo presenta l’inno quaresimale Vexilla Regis di Venanzio Fortunato e il vessillo è la bandiera che segnala dove si trova il re sul campo di battaglia. Il sacerdote con tutti i paramenti per la Messa è una catechesi visibile della vita cristiana che è una lotta contro il male: Dio che lo ha già vinto ci da l’elmo della sua grazia e noi, indossata la veste bianca del battesimo, se la conserviamo pura con la penitenza, abbiamo in noi il germe della vita immortale che possiamo portare a compimento assumendo il giogo leggero di Cristo. Non dimentichiamo inoltre che accanto a noi abbiamo continuamente a disposizione un valoroso scudiero: l’angelo custode. Gli angeli servono continuamente Dio, sono i suoi messaggeri e mandatari; così per ognuno di noi è stabilito da Dio che ci sia un angelo che ci consigli sulla strategia bellica, ci aiuti a interpretare bene la volontà del Generale e a pulire e mantenere in buono stato le armi. Con questo buon equipaggiamento possiamo anche noi, con il sacerdote, salire i gradini dell’altare e presentarci davanti a Dio per partecipare alla sua “buona battaglia” (2Tm 4, 7). E non è stolto ardimento, ma è Dio stesso che vuole vincere la sua guerra attraverso di noi, non da solo ma con coloro che ha creato e amato: “il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi” (Rm 16, 20). È Dio che ha già schiacciato il nemico con la morte e risurrezione di Gesù ma nel suo eterno presente egli continua a farlo attraverso i nostri combattimenti perché si riveli al mondo e risplenda sempre di più la sua vittoria. Ogni volta che vengono celebrati i misteri del Signore l’inferno trema perché si affretta la sua sconfitta definitiva, quando Egli tornerà nella gloria e tutto gli sarà definitivamente sottomesso e regnerà davvero la pace, quella vera e non quella che da il mondo (cfr. Gv 14,27).