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martedì 3 settembre 2013

Due forme del rito romano possono convivere? Risposta a P. Matias Augé

di don Alfredo Morselli

Lo scorso 19 agosto, il Rev. Padre Matias Augé ha pubblicato sul suo blog Liturgia Opus Trinitatis un post intitolato Due forme del rito romano possono convivere?
P. Augé ha, a suo dire, voluto “sottolineare le “oggettive difficoltà” che… comporta una lunga coabitazione delle due forme rituali”, opinando che la normativa del Motu proprio Summorum Pontificum introdurrebbe “una situazione inedita storicamente e problematica pastoralmente per diverse ragioni”.

Mi soffermo qui, in particolare, sulla prima e principale delle suddette ragioni che il P. Augé adduce; ritengo infatti alcune affermazioni del caro confratello nel sacerdozio errate e fuorvianti rispetto a una corretta impostazione del problema.

Scrive il P. Augé:
“In primo luogo, c’è la Costituzione Sacrosanctum Concilium che prescrive una riforma della liturgia romana “tridentina”, quella che i Padri conciliari conoscevano e celebravano. Conservare l’uso dei libri liturgici che sono stati “presi di mira” (passi l’espressione) dai Padri conciliari è un fenomeno quanto mai anomalo, anzi per certi versi patologico. Il Concilio Vaticano II, pur avendo uno spiccato carattere pastorale, è un’espressione solenne del Magistero ecclesiale, che non può essere disattesa”. 
Ecco la riproposizione dell’errore secondo il quale la forma extra-ordinaria del rito romano si opporrebbe al Vaticano II, per cui – conclusione erronea – l’amore per l’antica liturgia sarebbe una disobbedienza al Concilio, le cui espressioni non “possono essere disattese”.

In realtà è la riforma liturgica, così come si è realizzata (per non dire poi come in plurisbus viene attuata) che disattende le indicazioni dei Padri conciliari:

Il Concilio afferma: “…non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti. (Sacrosanctum Concilium, 23).

In maniera in qualche modo organica significa che non ci sarebbe dovuta essere una radicale diversità tra il nuovo rito e la forma più antica, come invece c’è stata: gli stessi oppositori del motu proprio, quando dichiarano inconciliabili i due riti, confessano con questo loro atteggiamento la disobbedienza al Concilio: se il Novus Ordo è uno sviluppo organico rispetto al vetus, perché non sarebbero conciliabili le due forme?

Il Concilio afferma: “L'uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti latini… Si abbia cura però che i fedeli possano recitare o cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano ad essi”. (Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).

Chi è chi “disattende” il Concilio?

Il Concilio afferma: “La chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale.
Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonica, non si escludono affatto nella celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica, a norma dell'art. 30”. (Sacrosanctum Concilium, 116).

Ripeto: chi è chi “disattende” il Concilio?

Il Concilio non ha detto di celebrare rivolti al popolo; il Concilio non ha detto di distribuire in mano la S. Comunione. Il Concilio non ha detto di buttare via migliaia di inni, preghiere, sequenze, tutte preghiere recitate e cantate per secoli in tutto il mondo, da migliaia di santi e di martiri, separando così il popolo di Dio da espressioni culturali secolari se non bimillenarie: tesori liturgici buttati via, anziché, proprio quando l’evoluzione culturale avrebbe permesso una spiegazione a tanta gente comune,  sbriciolare ai piccoli tanti tesori. Una vera e propria forma di comunismo liturgico: il comunismo economico vuole portare tutti al reddito del più povero, l’attuazione della riforma liturgica al livello del più ignorante (anziché portare l’incolto ad assaporare i grandi tesori della tradizione liturgica).

Ancora chiedo: chi è che disattende il Concilio e si inventa un altro Concilio che non è mai esistito nei documenti?

Il Concilio ha detto che i riti della Messa devono esser tali che il sacro sia espresso più esplicitamente (cf. Sacrosanctum Concilium, 21), e che durante la celebrazione liturgica, si deve incoraggiare la presa di coscienza che la liturgia terrestre partecipa della liturgia celeste (cf. Sacrosanctum Concilium, 8).

Ma dov’è il Concilio? Dove abita? Quando e dove si realizzano queste cose? Me lo dica, caro Padre: dove non si realizzano, non occorre che me lo dica, perché lo sappiamo in molti, in troppi.

L’organismo preposto alla riforma liturgica si chiamava Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, che si traduce "Consiglio per l’esecuzione della costituzione sulla Sacra liturgia"; permettetemi una battuta: non avranno mica inteso, i membri del Consilium, con il termine esecuzione, l’esecuzione capitale della costituzione stessa?

Il Padre Augé conclude:
Se qualcuno ha altre soluzioni da proporre si faccia avanti… con argomenti!
Caro Padre, la soluzione che propongo è il ressourcement; torniamo a studiare, in un clima di pace liturgica, i testi conciliari, e cerchiamo di metterne in pratica i principi, senza contraddirne la lettera, nelle celebrazioni di entrambe le forme. E pratichiamo un autentico ecumenismo non solo con i lontani, ma anche con i vicini. In questo clima lo Spirito Santo ci guiderà a realizzare, anzi ad accogliere, quella Liturgia Opus Trinitatis, per la quale entrambi lavoriamo.

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