Cicerone alla corte di papa Francesco. La riflessione di un latinista
dal blog Settimo Cielo, di S. Magister (13.08.2013)
Caro Magister, essendo un docente di latino, ho ovviamente letto con particolare attenzione il post
sulla traduzione del “Summorum Pontificum”, che mi è parso solidamente
persuasivo da un punto di vita linguistico e filologico, anche
nell’analisi delle variazioni testuali del motu proprio.
Mi permetto solo di aggiungere una postilla e, in fondo, una
considerazione più generale e “attualizzante”, scusandomi in anticipo
per qualche riferimento “tecnico” alla grammatica latina.
Nel latino classico “possum”, da cui deriva la voce “potest”
(utilizzata nella prima stesura del motu proprio, prima di essere
modificata nel più efficace “vult”), indicava la possibilità (o
l’impossibilità al negativo) di compiere un’azione non tanto perché
circostanza oggettive e dirimenti ne consentivano (o meno) la
realizzazione (in questo caso il latino ricorreva al verbo “queo”,
presente nel latino arcaico, poi via via di uso più raro nel latino
ciceroniano e imperiale, dove rimane però ampiamente attestato il
negativo “nequeo”, che si traduce “non posso”), quanto per il fatto che
erano presenti (o meno, in forma negativa) i mezzi e le capacità per
realizzare l’azione e che ciò si ripercuoteva anche nella volontà di la
compiva (che pertanto poteva realizzarla o meno).
In altre parole, il verbo “possum” non solo esprime un dato oggettivo
(il mezzo o la capacità con cui posso compiere un’azione), ma anche un
elemento soggettivo, che coinvolge la scelta di chi compie o meno
l’azione. Di fatti non è casuale che il verbo, dal punto di vista
etimologico, derivi da “potis”, che indica non solo la possibilità, ma
anche l’autorità, il “potere” di compiere o meno una certa azione. E
“potere” è la parola più nota tra quelle derivate da “potis”.
Pertanto, se applichiamo il ragionamento al testo del “Summorum
Pontificum”, anche la voce “potest”, per quanto assai meno efficacemente
di “vult”, non escluderebbe del tutto la soggettività intenzionale del
vescovo che pone ostacolo alla celebrazione nel rito antico.
Un’obiezione possibile a questa analisi potrebbe essere il fatto che
il latino del motu proprio non ricalca esattamente il latino classico,
ma si muove nel solco del latino ecclesiastico. Ma a mio avviso tale
obiezione non è del tutto fondata.
In primo luogo è necessario distinguere il latino della curia da
quello della liturgia. Il fatto di essere utilizzati entrambi (anche se
sempre di meno) dalla Chiesa cattolica non li rende affatto
sovrapponibili. Il latino liturgico ammette una pluralità di registri
linguistici, che vanno dalle traduzioni di Girolamo (in cui permangono
ancora suggestioni ciceroniane, nonostante il celebre sogno in cui il
traduttore della Bibbia subì il rimprovero divino per essere ancora
troppo sensibile alle lusinghe dello stile classico) a forme popolari
che Cicerone avrebbe segnato con la matita blu. Ssi pensi alla
convivenza di “misereatur vestri”, in cui il verbo “misereor” è
regolarmente costruito col genitivo, come nel latino classico, col ben
noto “miserere nobis”, che invece rispecchia la forma delle litanie, con
la suggestione di “ora pro nobis”, a discapito di ogni regola
sintattica.
Il latino curiale è, al contrario, una lingua puramente artificiale,
che non dispone affatto degli innesti legati alle forme popolari, come
invece è accaduto al latino liturgico: è una lingua di cancelleria, con
formulari ricorrenti e con “stereotipi” dotati di un livello di
ufficialità che contribuisce a garantire e a “certificare” il valore
anche legale e giuridico di quanto è scritto.
Una lingua del genere deve, pertanto, guardare al latino classico
come modello di riferimento: anzi, non a caso il grande latinista Ettore
Paratore giustamente vedeva nella cancelleria papale e in quella
imperiale di Federico II, acerrimo nemico della Chiesa (ma che si dota
degli stessi strumenti), i primi antesignani di quella salvaguardia
umanistica del latino classico, che troverà poi più matura e completa
realizzazione nel Quattrocento.
Una considerazione finale sul latino oggi nella Chiesa di papa
Francesco. L’attuale pontefice sembra muoversi nella linea del latino
liturgico: lo dimostra il fatto che, nelle poche volte in cui ricorre a
questa lingua, compie spesso dei “lapsus” che ridanno vitalità alla
lingua latina e che sarebbe davvero ingeneroso catalogare come meri
“errori”. Penso all’“omnibus peccatibus” del giorno dell’elezione,
durante la benedizione, al posto del corretto “omnibus peccatis”. Ma
questo lapsus, dovuto al “trascinamento” nella parola successiva della
terminazione “ibus” di “omnibus”, non è in realtà un errore. La forma
“peccatus” della quarta declinazione (e quindi col dativo e ablativo
plurali nella forma “peccatibus”) è attestata addirittura nello stesso
sacrosanto Cicerone, sebbene largamente minoritaria rispetto a
“peccatum” (da cui “peccatis”).
Chissà! Forse a dispetto dei tanti detrattori del geniale motu
proprio di Benedetto XVI, papa Bergoglio potrebbe trovare anche nel
latino, come è sempre stato nella liturgia cattolica, la possibilità di
“sfuggire” ai mondani dettami curialeschi e di concepire, proprio come
voleva papa Joseph Ratzinger, la liturgia tridentina non come un museo
dell’antiquariato, limitato a una minoranza di intenditori, ma come un
tesoro che è derivato, a iniziare dalla preghiera, dal perenne contatto
della Chiesa col suo popolo e che, con una guida sapiente, è ancora
capace di fecondare l’intero popolo cristiano.
Sergio Audano
Chiavari, 13 agosto 2013
Gent.prof.,grazie del suo interessante contributo.Una piccola precisazione:la Chiesa non è in contatto col popolo,la Chiesa E' il popolo,la società dei battezzati,che hanno la stessa Fede,sono santificati dai sacramenti,e guidati dai legittimi Pastori.La S Messa chiamata tridentina è in realtà risalente ai tempi apostolici,e quindi allo stesso Gesù Cristo,sviluppatasi nel popolo,sotto la guida dei pastori in primis il Sommo Pontefice,,COME UN ORGANISMO VIVO,senza mai rotture,veicolando nei secoli Verità,Bellezza, Amore.Ora,non voglio smorzare il suo ottimismo,ma occorre attenersi ai fatti:che Francesco voglia inserirsi in questa vivificante corrente mi pare molto difficile a dirsi,basta guardare i suoi univoci gesti di rottura,(Giovedì Santo ecc), i video delle giornate brasiliane, la vicenda dei F .I...Certo , il miracolo è sempre possibile,ma per definizione è qualcosa che normalmente non accade
RispondiEliminaFantalinguistica: a Bergoglio non gliene po fregà de meno della liturgia, men che meno del latino, che odia di cuore.
RispondiEliminaSic transit gloria mundi....
RispondiEliminaIl post ha una sua logica e senz'altro il non potest può significare "non ha la possibilità di", "non è in grado di", "trova molti ostacoli per cui non può" ecc. ecc. Ma siccome Benedetto non è proprio un ingenuo matricolato, se ha cambiato il non potest in non vult, lo ha fatto a ragion veduta: sapeva bene a cosa andava incontro con la prima redazione. Poi si arzigogoli pure con indubbia sapienza linguistica, ma la sostanza è questa e non cambia.
RispondiElimina"Non posso far celebrare la Messa tradizionale della mia diocesi perché non ci sono preti che sappiano il latino". Bene, se proprio non hai (mirabile dictu!) nemmeno un prete che abbia fatto le magistrali o lo scientifico, basta che ti prendi un bravo professore che dia ripetizioni di latino e nel giro di qualche settimana hai il prete che sa abbastanza latino da dire messa. Se non lo fai, più che non potere non vuoi. "Non ho nessun prete che voglia celebrare la Messa tradizionale". Bene, allora ne prendi uno e invece di un corso accelerato di latino gli fai un corso accelerato di diritto canonico e gli fai capire che un prete non è ordinato per far quel cavolo che gli frulla in testa ma per obbedire ai suoi superiori. Se non lo fai, allora più che non potere non vuoi.
RispondiEliminaLa vexata quaestio fra "potere" e "volere" da un punto di vista pratico si risolve facilmente!
Oh! Un bell'articolo intelligente, ben fatto e sornionamente ironico! Grazie,
RispondiEliminaL. Moscardò