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sabato 4 febbraio 2012

Alcuni chiarimenti di Mons. Gherardini, su di sè, sul Concilio, sulla Tradizione e anche sulla F.S.S.P.X

La novella dello stento ovvero La disputa sull'interpretazionedel Vaticano II
di Mons. Gherardini, da RiscossaCristiana


"La novella dello stento ovvero la disputa sull'interpretazione del Vaticano II È probabile che i lettori più giovani mai prima d’ora si sian imbattuti nell’espressione la novella dello stento. Da ragazzo, la udivo quasi tutte le sere, al momento in cui, dette le preghierine ed ascoltata l’ultima fiaba prima che m’addormentassi, la nonna ricominciava la novella appena terminata, premettendo: “questa è la novella dello stento, che dura tanto tempo e che non finisce mai”. C’era anche un’altra espressione per indicare l’insopportabile ripetersi di qualcosa: lungo/a come la camicia di Meo. E’ mia impressione, soprattutto leggendo certi Autori, che anche l’interpretazione del Vaticano II sia diventata “lunga come la camicia di Meo”, ripetitiva cioè e superficiale, ed appunto per questo una vera “novella dello stento”. Alludo ad Autori nei quali mai si coglie un sia pur flebile tentativo d’approfondimento, uno sforzo di comprensione alla luce delle fonti, del Magistero e dei “probati Auctores”, un’analisi contenutistica e comparata dei documenti conciliari; mai una verifica fra il dettato conciliare e le note a piè di pagina che dovrebbero confermarlo e documentarlo, oppure fra questo dettato conciliare e quello dei precedenti Concili ai quali vien fatto appello. Si ripete fin alla stanchezza, proprio come quella prodotta dalla “novella dello stento”, che il Vaticano II è infallibile anche se non è dogmatico, perché – e qui sta l’unico immane erculeo sforzo di fondazione critica – è assistito dallo Spirito Santo.
1 - Ai sostenitori d’una tale giustificazione, dai medesimi ritenuta apodittica ed indiscutibile, non passa neanche per l’anticamera del cervello ch’essa sia aprioristica sul piano filosofico e fideistica su quello teologico. Dico aprioristica non nel senso scolastico della dimostrazione “a priori”, dalla causa ch’è prima all’effetto ch’è dopo – o dall’universale che logicamente è anteriore al particolare, il quale è quindi posteriore – ; bensì nel senso moderno e kantiano del termine, vale a dire di forme che, indipendenti dall’esperienza, la condizionano e quindi la precedono. In tal senso, infatti, il predetto unico immane erculeo sforzo di fondazione critica dichiara che prima di tutto, soprattutto e prescindendo da tutto sta l’assistenza dello Spirito Santo e che tutt’il resto (ogni documento conciliare) ne dipende. Potrà mai, allora, non esser infallibile ciò che dipende dallo Spirito Santo? Ovviamente no, ma il modo d’arrivare a codesto no è kantiano, indimostrato, pre-messo, a priori: val a dire privo di forza giustificativa.
Dico inoltre fideistica la giustificazione di chi sottopone il Vaticano II, il Magistero e la Chiesa stessa all’a priori dello Spirito Santo, dimenticando o volutamente rifiutando l’insegnamento del Vaticano I, il quale esclude che la verità possa cogliersi non anche secondo la ragione, ma solamente per fede (1).
I sostenitori della giustificazione aprioristica e fideistica, privi in assoluto d’autocritica perché altrettanto in assoluto sicuri di sé, s’ergon a giudici di chiunque la pensi un po’ diversamente e sentenziano contro chi valuti il Vaticano II sulla base non d’un aprioristico e fideistico ricorso allo Spirito Santo, ma del metodo rigorosamente critico - teologico: alla luce cioè della Fede rivelata e della sua presenza nell’ininterrotto Magistero ecclesiale dagli Apostoli ad oggi. Poiché codesta medesima luce evidenzia non pochi elementi del Vaticano II o discutibili o difficilmente collegabili con la continuità del detto Magistero, il rilevarlo è considerato un peccato mortale e vien investito da veementi accuse ai limiti del non-senso: “interpretazione modernista” è la più grave così come la più assurda, oppure “interpretazioine lefebvriana”, quasi un colpo di grazia contro la reazione in agguato, che osa sfidare il Papa, il Magistero e soprattutto loro, gli aprioristi e fideisti del momento. Mi nasce il sospetto che io stesso sia per loro un “modernista” ed un “lefebvriano”.
A dir il vero essi stessi mi combattono per ben altri motivi ed è quindi evidente il loro stato confusionale: non si rendon conto, infatti, che “modernista” e “lefebvriano” non stanno insieme: è modernista chi considera la Rivelazione non conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, ma tuttora in atto e riconoscibile nei movimenti del subcosciente e nell’evolversi della cultura, alla luce della quale, anzi, il modernista interpreta ed accomoda le verità del “Credo”; è “lefebvriano” chi appartiene alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dal ben noto Mons. M. Lefebvre, o anche chi, sia pur al di fuori della Fraternità, ne condivide le riserve sul Vaticano II, nonché sull’aperturismo del postconcilio e sulle avventure liturgico-teologiche degli ultimi cinquant’anni.
Non credo che i suddetti sostenitori, se pur in stato confusionale, ignorino la mia posizione teologica assolutamente antimodernista e la mia estraneità alla famiglia lefebvriana. È vero che qualche membro di essa, secondo quanto leggo in pubblicazioni ufficiali, ha detto di me: “Non è dei nostri, ma la pensa come noi”; ciò peraltro è del tutto insostenibile. Sulla prima affermazione non c’è né se né ma che tenga: anche se amico sincero d’alcuni membri della Fraternità, appartengo al clero secolare, son incardinato nella diocesi di Prato, in servizio presso la Santa Sede fino al 1995 e membro del Capitolo vaticano dal 1994. Sulla seconda affermazione i se ed i ma son d’obbligo. Condivido con la Fraternità alcune idee di fondo: il senso della Tradizione viva perché ininterrotta, la “romanità” del Fondatore, la critica all’attuale involuzione mondana, ed altro ancora. Non però l’autonomia con cui la Fraternità “conosce” cause matrimoniali, scioglie matrimoni, riduce allo stato laicale: queste son competenze della Chiesa e dei suoi tribunali, non d’una “società sacerdotale”, oltretutto non ancora canonicamente riconosciuta. Anche sul piano teologico, nel quale alcuni lefebvriani emergono per competenza e profondità, non proprio su tutto mi sento in sintonia: p. es., non su tutte le idee recentemente esposte, in tema di Magistero ecclesiastico, dal pur bravo ed a momenti anche ammirevole abbé J. M. Gleize. Un suo ampio scritto del 2009, concettualizzando Il Magistero vivente e la Tradizione, distingue il Magistero dal punto di vista del soggetto – il Papa ed i vescovi –, dell’atto magisteriale – la forma scritta o detta –, e dell’oggetto – l’insegnamento della verità rivelata – . Distinzioni e suddistinzioni s’incrociano e si moltiplicano soprattutto per spiegar il Magistero alla luce del secondo e del terzo punto di vista; alcuni accenni al primo non mancano, manca però la spiegazione del Magistero ordinario distinto – e perché ed in che senso – dal Magistero solenne e supremo. In tal modo l’esposto sembra allontanarsi da quella “romanità” che pur vorrebbe affermare e difendere. Né, infine, posso dirmi d’accordo sul giudizio della Fraternità circa il nuovo rito della Messa. Da quando il rito c. d. tridentino è stato ripristinato, celebro quotidianamente con esso, ma mi guardo bene dal demonizzar il nuovo, affermando che non soddisfa il precetto festivo e che la presenza alla “nuova” Messa è un sacrilegio. Bastan queste poche precisazioni per convincer ognuno - ovviamente non gli aprioristi ed i fideisti - di quanto aberranti sian le loro accuse di modernismo e di lefebvrismo contro chi, come il sottoscritto, non la pensa e si compiace di non pensarla come loro.
2 - Non contenti di ciò, con la sicumera della loro superficialità senza misura, insistono nel rimproverar a me e ad altri – p. es. al bravo prof. R. de Mattei – l’imperdonabile peccato di non aver riconosciuto e d’aver negato il raccordo tra Vaticano II e Tradizione, tra progresso e conservazione, d’aver anzi sostenuto il contrario, nonostante che lo stesso Vaticano II dichiari più volte d’avere stabilito un tale raccordo e che i Papi del postconcilio l’abbiano ininterrottamente riconosciuto. Al punto in cui stanno le cose, l’insistervi denota o un indizio di secondi fini o la presenza di limiti intellettivi. È evidente che un raccordo di tale natura ed importanza non può esser semplicemente declamato; va dimostrato. E dimostrato in modo tale da neutralizzare le prove della controparte relative all’inesistenza del raccordo stesso. Benedetto XVI – ma gli aprioristi ed i fideisti nemmeno se ne rendono conto – proprio questo tentò di fare con l’ormai nota allocuzione del 22 dicembre 2005, là dove parlò d’una continuità discontinua sull’asse portante, fisso, indefettibile, del soggetto Chiesa, nel quale la continuità dottrinale non viene interrotta dalla discontinuità d’atteggiamenti pratici e di scelte storiche, in risposta a determinate condizioni ed esigenze temporali. Per difender la tesi del raccordo tra Vaticano II e Tradizione, questa avrebbe potuto esser la strada maestra; ma sarebbe veramente troppo, se si chiedesse agli aprioristi ed ai fideisti di percorrerla. A loro interessa una sola cosa: che il Vaticano II sia detto un Concilio “infallibile anche se non dogmatico”, solo perché è un Concilio ed in quanto tale è garantito dall’assistenza dello Spirito Santo; donde l’infallibilità conciliare, anche in assenza di definizioni dogmatiche. Gl’ineffabili aprioristi e fideisti son ancor e sempre a questo punto. Parlan di progresso, ma son di fatto la conservazione, incapaci di muover un passo al di là della loro comoda ed acritica posizione: il Concilio è infallibile perché tale lo rende lo Spirito Santo ed è eretico – sì, anche questo han saputo dire senz’il minimo pudore – chi dichiari il contrario. Se movessero almeno una volta quel passo, se almeno una volta si preoccupassero di confrontare la loro convinzione soggettiva con l’oggettività documentata delle altrui obiezioni, stringerei loro la mano. Per ora le mani non s’incrociano, solo perché quel passo sembra di là da venire.
[continua qui]

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