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giovedì 19 gennaio 2012

Quello che abbiamo dentro

A questo punto, alla fine di questo studio, mi sembra opportuno concludere prendendo spunto da quanto scrissi in un lungo articolo che elaborai su richiesta di Giuliano Ferrara per il quotidiano «Il Foglio», e che riporta in qualche modo alla dimensione personale, e non solo storica, della fede in Cristo. «Che cosa abbiamo dentro di noi» esordivo, rispondendo all’invito del famoso giornalista a guardare dentro di me «non è facile capirlo. Quando andavo a scuola la filosofia cristiana e medievale, al liceo classico, si riduceva a poche frasi di sant’Agostino. Alcune le ricordo sempre, forse perché il mio professore le pronunciava in latino: in interiore homine habitat Veritas e in teispum redi. Suonavano un po’ come il motto delfico e socratico, “conosci te stesso” (“e conoscerai l’universo e gli dèi”), ma con qualcosa in più. Ad esempio la parola Veritas, una certezza data a priori che la ricerca non è vana. Un invito non facile, quello di fermarsi, stare ad ascoltare il proprio cuore, cercare di capire per cosa siamo fatti e dove andiamo. Un invito, soprattutto, a non dissiparsi. Perché una cosa è certa: che quello che ho dentro, soprattutto, è una mancanza, un desiderio, una tensione, una domanda. Conoscersi è soprattutto conoscere il proprio limite, il proprio bisogno, il proprio essere medicanti di verità, di bene, di giustizia, di perdono. Proprio per questo non c’è tentazione più facile di quella di gettarsi disperatamente fuori, alla ricerca rabbiosa di qualcosa, nel mondo, nella speranza di saziarsi. “Fame di mondo”, la chiama sempre padre Livio a Radio Maria: fame di mondo che il mondo non sa né può saziare. Fame di qualcosa che ci soddisfi e ci quieti. “Ci hai fatto per Te, e il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in Te” (cor nostrum inquietum, donec requiescat in Te): è un’altra delle po­che frasi di Agostino che ricordo letteralmente, metà in italiano e metà in latino. Me la ripeteva spesso mio padre, e la parte in latino, con la bellezza e la solennità di questa lin­gua che fu della Chiesa, mi affascina sempre e mi sembra tuttora che valga cento milioni di libri e di filosofi. Dice che l’inquietudine ha un significato: che è un metodo di conoscenza; che se compresa porta al riposo; che il nostro cuore può raggiungere un momento, nell’aldilà, ma anche nell’al di qua, in cui l’inquietudine si ferma, l’agitazione scompare, il senso di fa­me e di sete si placa, e tutto appare improvvisamente chiaro, comprensibile, come per un lampo che illumini la notte. C’è Qualcuno capace di rendere pieno il vuoto che ho dentro. C’è il vuoto, sì, è vero, ma perché c’è Chi lo può col­mare. C’è chi può liberarmi dalla mia miseria e dalla mia povertà, chi può saziare la mia sete! Questa semplice verità mi è sempre sembrata di una forza inaudita. Se la meditassimo tutti i giorni sarebbe sufficiente a non farci smarrire così spesso dietro gli inganni, gli abbagli, i beni transeunti ed effimeri che spesso eleggiamo a idoli.»
Una mia cara alunna, alcuni anni fa, mi disse che sarebbe partita per il Brasile, in missione, al seguito di alcuni bravi sacerdoti, i Francescani dell’Immacolata, perché aveva un “buco” nell’anima. Le dissi che ero molto contento, e che quell’ordine, così tradizionale, era il più adatto allo scopo. Non dissi, invece, che quel buco ce lo abbiamo tutti, lo sento anch’io, che in Brasile, almeno per ora, non ho nessuna in­tenzione di andare.
Quel buco mi sembra di intravederlo, molto grande, quando osservo alcuni giovani che gironzolano persi, alle due di pomeriggio, con le birre in mano: possono bere sinché vo­gliono, ma la birra uscirà dal buco e continueranno a bere senza mai riempirsi. Il guaio è che lo sanno bene anche loro, ma oggi è difficile che trovino qualcuno che gli indichi qualche bevanda meno vaporosa, e più sostanziosa. Qualcuno che dica ad esempio loro di provare a pregare, perché quel buco è dello spirito, e non del corpo.
Quel buco lo hanno quei giovani che, come insegnante, vedo sempre appesi a una radio, o un mp3, con le cuffie negli orecchi, ogni momento della giornata; o quelli che vagano la sera del sabato, di discoteca in discoteca, di pub in pub, con l’ansia e l’irrequietudine nel cuore, sempre alla ricerca di qualcosa che non arriva; quelli che cercano nel sesso disperato e contorto il gusto della vita che non trovano... «Ho visto la gente della mia età andare via, nella ricerca di qualcosa che non trovano», cantava Francesco Guccini, che pure il buco ha cercato per anni di colmarlo con la stoppa dell’ideologia...
Quel buco lo hanno sempre avuto gli uomini, dal primo, forse appena un po’ più peloso di me, ma non poi troppo, all’ultimo figlio della civiltà tecnologica.
Il grande Seneca ne parla nel suo bellissimo De brevitate vitae. La vita è breve, dice il grande filosofo romano, per coloro che non sanno viverla, per coloro che tentano disperatamente di tappare il foro della loro anima affaccendandosi dietro le cose che non contano. «Uno» scrive Seneca «è in preda a un’avidità insaziabile, uno alle vane occupazioni di una faticosa attività; uno è fradicio di vino, uno è abbruttito dall’ozio; uno è stressato dall’ambizione, che dipende sempre dai giudizi altrui, uno dalla frenesia del commercio è condotto col miraggio di guadagni di terra in terra, di mare in mare; alcuni, smaniosi di guerra, sono continuamente oc­cupati a creare pericoli agli altri o preoccupati dei propri; c’è chi si logora in una volontaria schiavitù, all’ingrato servizio dei potenti; molti non pensano che a emulare l’altrui bellezza o a curare la propria; i più, privi di bussola, cambiano sempre idea, in balìa di una leggerezza volubile e instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nessuna meta, a cui dirigere la rotta, ma sono sorpresi dalla morte tra il torpore e gli sbadigli, sicché non dubito sia vero ciò che in forma di oracolo si dice nel più grande dei poeti: “piccola è la parte di vita che viviamo”». E poi Seneca conclude rimproverando coloro che non hanno mai «tempo per sé», che non si degnano «di guardare dentro», di «rifugiarsi in se stessi»; coloro la cui «vita affaccendata è in verità brevissima» perché non sanno «alzare gli occhi a discernere il vero, ma col loro peso li tengono sommersi e inchiodati al piacere».
Dentro di noi, e in alto, dice Seneca, un pagano. Qualche secolo più tardi Agostino definirà il peccato aversio a Deo, conversio ad creaturas: distogliere gli occhi dal Dio che abita dentro di noi, e in cielo – Dio che è la Verità che ci illumina come il sole, e alla luce della quale comprendiamo noi stessi –, per rivolgerli solamente, unicamente, pesantemente, alle cose che periscono, che muoiono, che non saziano, che non possono riempire alcun buco. La mia anima «inferma e piagata», continua Agostino, si è per anni gettata «al di fuori, miseramente avida di sfregarsi al contatto delle creature sensibili», mentre Dio mi stava accanto, misericordiosamente «cospargendo di amarissimo disgusto tutti i miei illeciti piaceri».
Insomma, che sia Seneca o Agostino, la mia alunna o Ligabue quando canta «Hai un momento Dio... ho un po’ di traffico nell’anima», tutti abbiamo un buco, e spesso cerchiamo di riempirlo, con del traffico, caotico, di cose, avvenimenti, onori, piaceri, impegni, vizi, passatempi, per uccidere la noia, lo spleen, il vuoto...
E poi c’è chi il buco lo ha visto crescere così tanto, consapevolmente, che vorrebbe esserne risucchiato, sparire completamente, annullarsi, morire. «Viviamo in una società» scriveva Andrea Muccioli «in cui un numero enorme di giovani vuole essere altro da sé, o non vuole essere nulla»: sono i giovani che si drogano, ma anche quelli che si suicidano, oppure quelli che di fronte a un impegno, che potrebbe riempire almeno in parte il senso di vuoto – un matrimonio, un figlio, un lavoro –, vengono divorati dalla loro paura, dall’assenza, per se stessi, di un perché, e finiscono per mandare tutto a rotoli. Un buco tale che diventa desiderio di annullarsi: anche questa esperienza, chi più chi meno, in certi momenti la viviamo tutti.
Dentro, però, non abbiamo solo questo buco, più o meno ampio, ma anche un’altra cosa: un’idea strana, che gli evoluzionisti materialisti si affannano a spiegare con le teorie più peregrine, senza riuscirci: il senso religioso, cioè l’idea che quel vuoto che ci distingue, possa avere a che fare con qualcosa che ci supera, che ci trascende, con qualche entità superiore. Che non sia senza scopo.
Che si possa anelare al Bene, alla Giustizia, alla Bellezza, a Dio. Mi viene in mente ancora Ligabue, quando spiega che ha traffico nell’anima, ma anche un buco «nello stomaco», e chiede: «Perché ci dovrà essere un motivo, no? Perché forse la vita la capisce chi è più pratico. Hai un momento, Dio? No, perché sono qua, insomma ci sarei anch’io. Hai un momento Dio?».


(fine prima parte - continua)

da: Francesco Agnoli, Indagine sul Cristianesimo. Come si costruisce una civiltà, ultimo capitolo, Piemme, 2010.

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