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sabato 21 gennaio 2012

Quello che abbiamo dentro - II parte

(segue dalla I parte)

Tutti, prima o poi, a parte qualche istante in cui ci crediamo onnipotenti, finiamo per rivolgerci a Lui. Anche dopo settant’anni di ateismo obbligatorio di stato, come è successo in Russia. Dinanzi a una gioia profonda, o a un grande dolore; davanti al bene che esiste, o al male che sperimentiamo; da­vanti al sorriso di un figlio o al suo dolore inconsolabile; nel­la serenità della salute e nella prostrazione della malattia; davanti alla vita che nasce o alla morte che carpisce, alziamo lo sguardo a Dio, con un atto di affidamento o un’imprecazione; con un urlo di speranza o di smarrimento; con la richiesta fiduciosa di aiuto o con un pensiero di ribellione.Ecco, io dentro ho quest’idea di Dio, esattamente come gli altri. La sento dentro quando mia figlia mi sorride; quando osservo con gratitudine una persona cara; quando cammino in montagna, su una vetta impervia, e scorgo l’immensità del paesaggio che si distende sotto di me; quando sono sconsolato per la mia incapacità di essere ciò che vorrei...Certo, mi sembra di aver avuto una fortuna, che non è di tutti: un’educazione in cui mi è stato insegnato a stare con me stesso, come volevano Seneca e Agostino, per comprendere meglio, per quello che si può, ciò che sta fuori. Perché il segreto è tutto lì. L’equilibrio tra il dentro e il fuori, tra Creatore e creature, tra l’io e gli altri; tra il buco e ciò che cerchiamo per riempirlo.Ricordo quando mio padre mi richiamava, la sera: «Hai fatto l’esame di coscienza?». Farlo, non sempre, ma almeno ogni tanto, certamente è servito a costruire le certezze su cui fondo la mia vita, forse anche una certa tranquillità interiore, una serenità di fondo. L’esame di coscienza era il preludio al sacramento della confessione: una palestra per l’anima di cui ormai non si sa quasi più nulla, nell’epoca in cui la coscienza è divenuta un idolo personale, sinonimo di istintività, di opinabile, di vaghe percezioni ed emozioni non sottoponibili ad alcun giudizio. Una palestra per la coscienza che deve lottare con se stessa, deve indagarsi, auto-giudicarsi, perché c’è qualcosa dentro che non vuole uscire allo scoperto.Ricordo quando dovevo confessare dei peccati gravi (una volta si diceva “mortali”, che danno morte all’anima, che generano, dentro, il deserto): la mia coscienza li riconosceva e il senso di vergogna cercava di bloccarmi, mi invitava a tacerli, al confessore, e quindi, in verità, anche a me stesso. Dire dinanzi a un uomo, che pure in quel momento impersonifica Cristo misericordioso, la propria miseria, significa porsela davanti, osservarla finalmente bene, nel modo più completo possibile, senza inganni, alla luce del sole. Confessare al sacerdote è anche confessarsi veramente a se stessi, a quel Dio che abita in noi. È fare violenza su se stessi, un pas­so nella direzione della saggezza socratica e agostiniana.Confessare i propri peccati è anche un gesto di umiltà, che solo permette di mettere a fuoco l’entità del buco che abbiamo dentro, la sua ampiezza e profondità. E mentre temporeggiavo, sapevo, dal catechismo, che è il Signore del male, il Nemico, che cerca di far sì che l’uomo nasconda a se stesso la sua miseria, che creda di poterla guarire, ignorandola, che ne abbia una vergogna malsana, perché superba. Umiltà è in­vece presentarsi dinanzi al tribunale della misericordia, quello da cui, se veramente pentiti, si esce perdonati, e riconciliati con se stessi e col proprio limite.«Il mio peccato mi sta sempre dinanzi», dice il salmista: anche il peccato centra col buco. Guardarlo e riconoscerlo, significa affrontarlo da uomini liberi, senza sfuggirlo. Dal quel buco si può anche vedere il mondo: lo si capisce, lo si giudica, gli si dà il giusto peso, si mettono le cose in ordine, secondo l’importanza che hanno.Veramente, ora che scrivo, mi rendo conto di quanto sia libero il cristiano. Capisco perché i Padri parlavano della libertà che gli era stata donata da Cristo: libertà di osservarsi per quello che si è; libertà di essere giudicati alla fine, da uno solo; libertà di chiedere perdono; libertà di rialzarsi, tendendo sempre, verso una meta.Come scrive Eliot: «Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce; spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, eppure mai seguendo un’altra via».Anche Seneca faceva l’esame di coscienza ogni sera, come racconta nel De ira, e anche allora vi erano gli ipocriti, che non avevano mai guardato dentro se stessi, il buco nella loro anima, la trave dentro il loro occhio, e che gli dicevano: «Ma tu, perché parli da persona virtuosa, quando la tua vita non lo è?». E poi gli elencavano le sue miserie, le sue debolezze, i suoi errori. «Non sono saggio» rispondeva il filosofo «e per dare ancora più esca alla vostra malignità, aggiungo che non lo sarò mai... è già un passo avanti se riesco a togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e a biasimare i miei errori. Non sono guarito e non guarirò: per la mia gotta più che dei toccasana preparo dei calmanti, accontentandomi di ridurre il numero degli attacchi e l’intensità del dolore...» Io so­no «un oceano di vizi», continuava Seneca, ma voi siete ipo­criti: «La verità è che a voi fa comodo che nessuno risulti virtuoso, perché la virtù degli altri suona come un rimprovero alle vostre malefatte... perché se gli uomini virtuosi sono degli avari, dei dissoluti e degli ambiziosi, cosa sarete voi, che avete in odio persino il nome di virtù?» (De vita beata).Anch’io sono un «oceano di vizi», e non riempirò mai il mio buco, né pulirò a perfezione la mia coscienza. Ma non ho l’illusione che si possa veramente mettere in soffitta, co­me facevano gli ipocriti accusatori di Seneca, come fanno i relativisti di oggi, o come provò a fare Dorian Gray. Perché poi la sua voce torna fuori: «Non è per questo, non è per questo, che sei stato creato».E allora, quando questa voce, dopo mille dissipazioni, di­venta inequivocabile, ci sono solo la disperazione di Giuda, o il pentimento dell’Innominato. Dorian Gray che uccide il suo ritratto, per eliminare la propria coscienza, finisce per uccidere se stesso. Come aveva fatto Wilde durante una vita in cui il richiamo interiore alla virtù, al bene, voce potente di Dio, era stato messo a tacere, per lunghi anni, ma invano. Mi ero lasciato sedurre, scriverà alla fine della vita, «dal mon­do delle passioni rozze e incomplete, dell’appetito che non fa distinzioni, del desiderio che non ha limiti, della bramosia che non ha forma»: dalla fame di mondo che non riempie il buco.Della mia infanzia ricordo anche una lettura importante, Apparecchio alla morte di sant’Alfonso de’ Liguori. Essere sempre pronti, come se la morte dovesse arrivare, all’improvviso: questo era in sintesi il succo di tutto il discorso. Aver chiaro che siamo mortali, nel corpo, anche se spesso viviamo come fossimo immortali; immortali nell’anima, an­che se, spesso, al contrario, viviamo come se essa dovesse, un giorno, morire. Ricordo che dopo queste letture non andavo mai a letto senza aver chiesto perdono per le mie colpe. E mai quell’umiliazione portava tristezza, anzi, la gioia: la stessa che oggi provo quando dopo aver litigato con mia mo­glie ricordo Alfonso e san Paolo («non tramonti il sole sopra la propria ira»), e mi impongo di far pace, di andare a dormire leggero, riconciliato.Accanto ad Alfonso de’ Liguori, amavo e amo tuttora sant’Ignazio, i suoi esercizi spirituali di cinque giorni, tutti di assoluto silenzio. Ruvidi e veri come quel santo. Di Ignazio ricordo sempre quell’episodio in cui il vecchio combattente si rivolge a Saverio, il giovane compagno di studi della Sorbona che gli racconta il suo successo negli esami, il suo desiderio di far carriera: Quid hoc ad aeternitatem? Cosa serve tutto ciò, per l’eternità?, gli chiede Ignazio, facendo improvvisamente balenare in Saverio la possibilità di una strada diversa, di una vita nuova, di una possibilità di compimento più grande e più vero.Se il buco, allora, serve a capire che non sono le cose di questo mondo a poterlo riempire, non rimane che guardare a esse, a ogni cosa, sub specie aeternitatis: non con distacco, ma neppure con un attaccamento eccessivo, smodato. Con quella che sempre sant’Ignazio chiamava “indifferenza”, san Francesco “letizia” e Aelredo di Rievaulx “leggerezza”.Cosa intendevano costoro? Volevano dire che una volta compreso il perché del nostro esistere, il fine ultimo della nostra vita, povertà o ricchezza, salute o malattia, onore o disonore, fortuna o sfortuna, tutto può essere vissuto, portato, con animo tranquillo, mansueto, con leggerezza di cuo­re, con letizia, senza che il turbamento finisca per sopraffarci, senza che i pesi della vita appaiano più così gravi.Ecco, il buco nero che tutto mangia e inghiotte, se lo lasciamo espandere, vorrei riempirlo con questa leggerezza, questa letizia, questa presenza rasserenante di Cristo, che rimargina ogni ferita, con il suo Amore, la sua Misericordia, la sua Mitezza: quando litigo, quando mi accorgo delle mie mancanze, quando le circostanze sono avverse, quando la realtà mi contraddice e mi turba, a «ogni gesto o parola in contrario», come recita una preghiera della mia infanzia...
Con l’aiuto di quella Chiesa, che è fatta di peccatori, come me, ma che è anche l’unico luogo in cui può fiorire, ed è fiorita in tutti i secoli, la santità.
da: Francesco Agnoli, Indagine sul Cristianesimo. Come si costruisce una civiltà, ultimo capitolo, Piemme, 2010.

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