
Riceviamo e pubblichiamo su "La Guerra demografica. Ci vogliono estinti?".
Luigi C.
Osservatorio Van Thuan, Maurizio Cariani, Nov 21, 2025
[“La guerra demografica. Ci vogliono estinti” è il titolo dell’ultimo Rapporto dell’Osservatorio. Vedi QUI).
Poiché riflettere significa “porre” ciò che è dato, ci chiediamo come possa essere posto teologicamente il dato della guerra in atto nei confronti del figlio documentata dal recente Rapporto dell’Osservatorio, vale a dire quali implicazioni teologiche esso possa comportare.
Anzitutto occorre osservare come nella Bibbia il figlio assuma un significato decisivo in relazione con la storia della rivelazione di Dio. La figura del figlio è infatti implicata, e non estrinsecamente, nelle grandi categorie bibliche della storia della salvezza: creazione, promessa, alleanza, prova, memoriale, messia, sapienza, peccato, salvezza, incarnazione, redenzione…
Nell’Antico testamento il figlio appare come la fondamentale immagine della “benedizione” che Dio dà alla vita umana rendendola buona e possibile. Attraverso tale benedizione, essere figlio significa essere collocato in un ambito salvifico, cioè nella condizione di poter essere salvato, sebbene essere “figli di Abramo” abbia finito coll’indicare una sorta di condizione garantita per poter affermare la certezza della propria salvezza. Anche Gesù qualificherà Zaccheo (Lc 19) o la donna curva liberata in sinagoga (Lc 13) con tale titolo, ma il preciso contesto di fede in cui Egli lo pronuncia, indica che per Lui sono figli di Abramo solo coloro che “credono” come Abramo, che “fanno le opere di Abramo”, come dirà altrove (Gv 8). E nella storia di Abramo il legame tra figlio e fede è, come sappiamo, particolarmente serrato. Soltanto la fede gli otterrà di avere e, attraverso la prova del monte, di riavere un figlio; e tutto ciò, annota la lettera agli Ebrei, “fu come un simbolo” (Ebr 11). Per cogliere in profondità la realtà del figlio come benedizione e l’autentica bontà dell’esperienza del generare, occorre pertanto abbracciare la prospettiva simbolica. Il figlio non è solo ciò che ci è “dato”, non è solo l’esaudimento del “desiderio”, ma attraverso di esso si dischiude una realtà eccedente, che rappresenta come una dilatazione ulteriore delle aspettative umane, una “promessa” inattesa, una “figura” che istruisce l’esistenza nella sua completezza, che definisce complessivamente l’identità dell’umano.
Che il figlio sia soprattutto altro e molto più di quanto il desiderio e la speranza umane possano eventualmente immaginare, è attestato ulteriormente dalla promessa del “figlio di Davide”. Se all’elementare speranza di Abramo che desidera un erede, Dio risponde “eccedendo” con la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo, attraverso la quale la Sua benedizione raggiungerà tutte le famiglie della terra (Gen 12), al desiderio di Davide di costruire una casa a Dio perché vi abiti, Egli, attraverso la predicazione profetica, rilancia con la promessa di un discendente dal ceppo davidico che darà inizio ad un tempo radicalmente nuovo. Pertanto sia per Abramo che per Davide, il figlio richiede una fede che implichi la sostituzione di una speranza più piccola e ben definita con una più grande e insieme più sfuggente e imprecisa a cui affidarsi, legata ad un futuro non immaginabile e custodita solo da Dio.
Il figlio dunque è “figura” poichè illustra quell’obbedienza da assumersi come forma di vita, come quella della donna da cui finalmente nascerà il perfetto figlio di Davide. E quel Figlio è tale eminentiori modo, poiché è “rivolto verso il Padre“ dall’eternità – così nell’esegesi contemporanea è stata tradotta l’espressione “pròs ton Theòn” dell’incipit del prologo di Giovanni (Gv 1), argomentando sul valore dinamico dalla preposizione “pròs” in quel contesto (la CEI traduce “presso Dio”). È questa condizione divina di intimità e dialogo tra Figlio e Padre fin dal principio che determina la realtà propria, la “verità” di ogni figlio di Adamo, presentata da Gesù attraverso l’appello a dar forma all’esistenza umana secondo la figura del “bambino”. Gesù ne raccomanda l’accoglienza perché i bambini rivelano la verità di ogni uomo, che in radice è appunto un “piccolo” bisognoso di stare rivolto al Padre nella confidente obbedienza. Tale invito ad un’infanzia spirituale ripropone una corrispondenza con la figura veterotestamentaria del “povero”, che Gesù pure riprende associandovi una beatitudine; i poveri in spirito sono quei “piccoli” che credono in Lui. Precisamente il rivolgersi a Dio, in relazione intima e personale con Lui, costituisce il profilo della povertà spirituale propria degli anawim dell’Antico testamento, di coloro che vivono di fede, come la vedova povera che nel Tempio offre tutto (Lc 21).
Sappiamo però come il nostro Occidente abbia culturalmente accreditato un’alternativa alla forma propria dell’essere umano davanti all’esistenza, preferendo la figura dell’”adulto” la cui vita risulti informata dall’obbedienza al comandamento illuminista del sapere aude; questi è il figlio finalmente cresciuto divenuto coraggioso protagonista dell’impresa individualistica di usare la propria ragione, emancipandola dallo stato di minorità infantile di cui egli stesso è colpevole. Escludendo qualsiasi “altro” (etero), l’adulto/individuo si pone egli stesso (auto) quale principio di legiferazione (nomia) per la propria esistenza, inganno antico segnalato dalla Bibbia fin dalle sue prime pagine. Solo nell’autonomia individualistica, pertanto, e non più nell’obbedienza relazionale, ci si può attendere un “tempo radicalmente nuovo” nella storia, connotazione, quest’ultima, che nel profetismo biblico abbiamo visto costituire la “verità trascendente” della figura del figlio e della sua attesa. In questo senso quella dell’adulto risulta essere “figura” di immanenza e secolarizzazione.
La guerra contro il figlio quale realtà biologica – come esito dell’atto del generare – documentata dal Rapporto, affonda pertanto le proprie radici nella censura civico-culturale verso il figlio quale “figura” del soggetto nell’atto del vivere di fede, più precisamente nella censura della forma generale della sua esistenza come obbedienza filiale. L’uomo moderno (e contemporaneo) però non solo non tollera più di essere figlio, ma dietro tutto ciò da cui intende affrancarsi per affermarsi integralmente come adulto, sospetta sempre ci sia l’autorità paterna. All’”uccisione del padre”, colto come “figura” di ogni insopportabile trascendenza normativa, corrisponde la propria convinta adesione agli intendimenti di liberazione espressi dalla moderna democrazia, che si presenta ai suoi occhi come dottrina di immanenza e civile via di emancipazione dall’indebita ingerenza di qualsivoglia paternitas: l’esito della messa in discussione della fede è la crisi dell’autorità.
Affermazione, quest’ultima, che constatiamo ormai abbia attualità anche ecclesiologica, visto il processo in corso di sinodale democratizzazione della realtà comunionale della Chiesa Cattolica a discapito della sua costitutiva strutturazione gerarchica, cui si associa l’insistenza nel prospettare un’altrettanta democratica ministerialità femminile.
Maurizio Cariani, Associazione Diogneto, Cremona