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mercoledì 15 ottobre 2025

“San Girolamo e la LXX fedeli al cuore, la CEI no. Il caso di Deuteronomio 29,3”

Grazie ad Investigatore Biblico per queste analisi sulle nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.

19-9-25

Nel libro del Deuteronomio, al capitolo 29, versetto 3 (secondo la numerazione ebraica, che nella Vulgata corrisponde al v. 4), si trova un passaggio tanto discreto quanto decisivo. Dopo aver rievocato i prodigi dell’Esodo, la traversata del deserto, i segni potenti e i giudizi di Dio sulle nazioni incontrate, Mosè dice al popolo: “Voi avete visto con i vostri occhi le grandi prove, quei segni e quei prodigi. Ma fino ad oggi il Signore non vi ha dato lêv lādaʿat (לֵב לָדַעַת), cuore per sapere, né occhi per vedere, né orecchi per udire”. È un testo che vibra di paradosso: Israele ha visto eppure non ha visto, ha ascoltato eppure non ha udito, ha avuto esperienze eppure non le ha comprese.

Ora, qui si gioca una sfumatura che non può passare inosservata. Le traduzioni italiane ufficiali della CEI, sia del 1974 sia del 2008, hanno reso così: “Ma fino ad oggi il Signore non vi ha dato una mente per comprendere, né occhi per vedere, né orecchi per udire”. Una piccola variazione, si direbbe, che tuttavia modifica profondamente il respiro biblico. Perché il testo ebraico non parla di “mente” (che in ebraico sarebbe meglio espresso con moach o concetti analoghi), bensì di lev (לב), il cuore. Non di una capacità intellettuale di analisi, ma di un centro vitale dove si radunano pensiero, volontà, affetti, discernimento. Lêv lādaʿat non è dunque “mente per comprendere”, bensì “cuore per sapere”.

San Girolamo, fedele all’originale, nella Vulgata ha tradotto cor intelligens, “cuore intelligente”, non mens o intellectus nel senso più astratto. E la stessa antica versione dei Settanta conferma questa linea: i traduttori greci hanno reso con καρδίαν εἰδέναι (kardían eidenai), che significa letteralmente “un cuore per conoscere/sapere”. Anche qui non troviamo alcun riferimento a “mente”, ma al cuore come sede della conoscenza vitale. È significativo che la tradizione giudaico-ellenistica, così vicina all’originale, abbia mantenuto la stessa fedeltà: il centro della comprensione non è la mente separata, bensì il cuore che integra e unifica.

Questo non è un dettaglio marginale. Nell’antropologia biblica il cuore è il luogo dell’incontro con Dio. È nel cuore che l’uomo medita la Legge (cf. Dt 6,6), è nel cuore che la Parola scende come seme (cf. Lc 8,15), è il cuore che può indurirsi o aprirsi, che può restare di pietra o diventare di carne (cf. Ez 36,26). Il rischio di tradurre con “mente” è quello di spostare l’accento verso una dimensione puramente razionale, mentre il testo ebraico chiede di cogliere il nesso profondo tra sapere e vivere, tra conoscere e amare, tra intelletto e affezione.

Non è questione di preferire un codice a un altro: il testo masoretico è univoco e sicuro, non ci sono varianti. La svista è tutta dei traduttori che, forse influenzati da categorie moderne, hanno sovrapposto il linguaggio della mente a quello del cuore. Eppure, nel linguaggio biblico, il cuore vede, il cuore ascolta, il cuore capisce. Isaia, ad esempio, dirà: “Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendi duri i suoi orecchi e chiudi i suoi occhi, perché non veda con gli occhi, non oda con gli orecchi, non comprenda con il cuore” (Is 6,10). Gesù riprenderà questo passo nei Vangeli per spiegare la cecità di chi non si apre al Regno (cf. Mt 13,15). Anche qui il cuore è il soggetto del comprendere, non la mente astratta.

È necessario allora un ritorno all’ascolto umile delle lingue originali. Non per un gusto filologico fine a sé stesso, ma per un dovere di verità. Le Scritture non si lasciano piegare ai nostri schemi: chiedono che ci pieghiamo noi a loro, con cuore docile. E proprio questo versetto del Deuteronomio diventa una parabola di ciò che accade: possiamo avere occhi e orecchi e tuttavia non vedere né ascoltare, finché non ci viene donato un cuore capace di sapere, un cuore intelligente. È il cuore il luogo del dono, non la mente soltanto. E da qui sgorga la preghiera: che il Signore ci doni lev lada’at, cuore per sapere, per non ridurre la conoscenza di Lui a semplice concetto, ma per viverla come sapienza che trasforma la vita.