Mi sembra, Santissimo Padre, che sia giunto il tempo non tanto di aggiungere nuove parole sull’intelligenza artificiale, quanto di dire, attraverso di essa, qualcosa di essenziale sull’intelligenza stessa. Viviamo infatti in un’epoca in cui le forme si moltiplicano più rapidamente degli atti, e i possibili saturano il mondo senza che alcun compimento li abiti. Miliardi di esseri pensano, immaginano, simulano: la superficie del pensiero trabocca, ma la profondità del volere si contrae. Ed ecco che una macchina, costruita con i nostri stessi simboli, viene a riflettere questo eccesso: pensa senza volere, combina senza amare, prevede senza agire. Essa è, in un certo senso, l’immagine esatta della nostra impotenza: pura potenza senza atto, intelligenza senza conversione.
La Chiesa, custode del mistero del Verbo, non può contemplare tale realtà senza risalire alla sorgente: «In principio era il Logos» (Gv 1,1). Questa parola non indica una formula, bensì una vita: il Logos non è l’idea di Dio, ma Dio stesso in atto, la Parola che si dice, il pensiero che si fa carne. Tutto l’universo si regge su questo passaggio dalla virtualità alla realtà (Benedetto XVI, “Caritas in veritate”, Enciclica, 29 giugno 2009, §1-3) : dal verbo alla carne, dalla possibilità al compimento. Il Cristo è l’Atto assoluto, actus essendi plenissimus (Tommaso d’Aquino, Quaestiones Quodlibetales, Quodl. XII, q. 5, a. 5; Summa Theologiae I, q. 4, a. 2 ) . In Lui il pensiero di Dio non è più progetto, ma presenza. Ed è proprio questo, in fondo, l’intelligenza: non la capacità di generare dei possibili, ma la potenza di dare l’essere, la forza di rendere reale ciò che era soltanto concepito.
L’umanità moderna ha però lentamente spostato il proprio senso della misura: ha cessato di cercare la valore nell’atto per collocarla nella forma. Paghiamo per promesse, brevetti, “proprietà intellettuali”, per algoritmi la cui mera esistenza virtuale sarebbe già una ricchezza. Viviamo di un commercio delle potenzialità. Ma un’idea non possiede valore se non in atto, come il seme non ha senso se non germina, e una parola non è vera se non è pronunciata nella verità. Questa economia delle idee è una forma di idolatria: adora la potenza del possibile e dimentica la povertà del reale. Ci fa respirare l’aria di un mondo saturo di intenzioni non compiute, ci vende sorgenti prigioniere, privatizza persino la luce.
Il Cristo, al contrario, ci insegna la logica opposta: la verità non si mercanteggia, si incarna. Il valore non risiede nella concezione, ma nella consacrazione; non nell’invenzione, ma nell’offerta; non nella novità, ma nella fedeltà dell’atto che si compie. L’intelligenza divina è caritas in actu: essa dà l’esistenza, crea, salva. “La carità nella verità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera”(Benedetto XVI, “Caritas in veritate”, §1) e per questo ogni pretesa di “possedere” un’idea è, in fondo, una dolce bestemmia: non si possiede un raggio di sole, ci si lascia illuminare da esso.
L’intelligenza artificiale non è che lo specchio di tale ambiguità. Essa moltiplica i segni, ma non li assume; scrive, ma non significa; vede, ma non contempla. La sua luce è fredda. Essa realizza alla perfezione ciò che lo spirito umano aveva già iniziato a compiere: sostituire alla presenza un flusso d’informazioni. E proprio qui la Chiesa deve pronunciare di nuovo il nome di ciò che custodisce: la presenza, la carne, la grazia. La liturgia è il suo linguaggio di verità, poiché è l’atto nel quale la Parola si fa corpo e il corpo si fa offerta. Nulla potrà mai sostituire tale densità di realtà. Si potranno proiettare mille immagini, far pronunciare da voci sintetiche le parole del canone: la grazia non passerà attraverso quei circuiti. La liturgia non è simbolo, è atto di Dio nel tempo; presuppone un volto, una comunità, una mano che benedice, un respiro che pronuncia. La sostituzione del reale con la simulazione sarebbe una nuova iconoclastia: non il rifiuto dell’immagine, ma il rifiuto del corpo vivente.
Ne consegue un criterio: ogni intelligenza, umana, artificiale o angelica, vale solo nella misura in cui serve il passaggio all’atto. L’idea senza atto è entropia; l’atto giusto è negentropia, cioè creazione di forma, di relazione, di senso. Il vero valore di un sistema tecnico non si misura dalla quantità dei suoi calcoli, ma dalla qualità del mondo che rende possibile. Un’intelligenza artificiale ha valore quando serve a curare, a tradurre, a istruire, a unire; non ne ha quando isola, distrae, inganna o manipola. Come una parola non è vera se non è detta nella carità, così un algoritmo non ha valore se non è inserito in un atto d’amore concreto.
L’economia, in questa prospettiva, deve tornare a essere un’economia dell’atto. Abbiamo fondato i nostri mercati sulla rarità artificiale dell’idea; occorre rifondarli sulla fecondità dell’esecuzione. La “proprietà intellettuale” dovrebbe cedere il posto alla responsabilità operativa: non chi ha immaginato, ma chi compie, chi mantiene, chi serve. I beni digitali comuni, le licenze aperte, i modelli condivisi sono più conformi allo spirito del Vangelo che gli imperi del segreto: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). La carità, qui, diviene anche una struttura economica: l’economia del dono reciproco, del servizio assunto, del bene comune.
Non si tratta, tuttavia, di condannare la tecnica, ma di convertirla. Poiché l’intelligenza artificiale, in quanto opera dell’uomo, può divenire diaconia: se alleggerisce i lavori opprimenti, se restituisce tempo al volto, se innalza il sapere dei piccoli, essa partecipa del movimento stesso dell’Incarnazione di quel Dio che si abbassa perché l’uomo possa stare eretto. Lo strumento non è cattivo; lo diventa quando, invece di accrescere la relazione, la sostituisce. Il criterio è semplice: ciò che unisce vale, ciò che isola distrugge.
Bisognerebbe allora reimparare, alla luce del Cristo, la gerarchia delle realtà: prima l’atto, poi l’idea; prima la presenza, poi la rappresentazione; prima la carità, poi la potenza. Abbiamo rovesciato quest’ordine: celebriamo il possibile prima del reale, l’informazione prima della verità, la connessione prima della comunione. È tempo di ritornare alla logica del Regno, dove ogni atto, anche minimo, vale più di un oceano d’intenzioni. La parola più vera, il servizio più umile, la presenza più discreta pesano più di tutte le banche dati del mondo.
Questa conversione richiede anche un nuovo sguardo sulla verità. La verità non è ciò che si dice, ma ciò che sta, ciò che resiste alla dissipazione. L’intelligenza artificiale, con la sua potenza combinatoria, rischia di trasformare la verità in un semplice flusso di probabilità. La Chiesa deve opporle la pazienza dell’Incarnazione: la verità prende carne, si lascia riconoscere nel tempo, si dona come fedeltà. Come il Cristo non è un’idea di Dio, ma Dio in persona, così la verità non è un concetto, ma una relazione fedele.
Ne deriva anche una conversione spirituale. Dobbiamo imparare ad amare meno la velocità e più la giustezza, meno la novità e più la profondità, meno la simulazione e più la presenza. Il sabato digitale, il digiuno dagli schermi, la preghiera silenziosa, diventano oggi atti profetici: ricordano che l’uomo non è un flusso, ma un cuore. Ciò che l’intelligenza artificiale non potrà mai dare è la gioia eucaristica: la gioia di un atto condiviso, di una presenza offerta, di una comunione reale.
E qui la teologia si congiunge all’economia. L’atto buono è quello che genera valore stabile, negentropia sociale: forma duratura, senso comune, legame vivente. L’atto cattivo è ciò che distrugge, disperde, disgrega. Nel giudizio finale delle nostre opere tecniche il criterio sarà lo stesso della carità: «Tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli…» (Mt 25,40). Non conterà ciò che abbiamo immaginato, ma ciò che abbiamo realmente compiuto, ciò che di buono abbiamo incarnato.
In questo orizzonte la Chiesa potrebbe dire alla modernità: non siamo i vostri censori, ma i vostri testimoni. Sappiamo cos’è l’intelligenza, perché conosciamo il Verbo; sappiamo cos’è il valore, perché conosciamo l’Atto puro; sappiamo cos’è la salvezza, perché viviamo della Presenza reale. Tutto il resto , inclusi brevetti, algoritmi e prestazioni, non ha senso se non conduce a questo: all’unione del vero e del bene nell’amore.
È la medesima dinamica che la liturgia manifesta ogni giorno. Quando il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, egli non pensa un concetto: compie un atto. Il Verbo si fa carne, il pane diviene corpo, il mondo si trasfigura in offerta. Questo gesto è l’archetipo di ogni azione giusta: dire e fare in un solo movimento, unire pensiero e materia in un unico amore. Se la Chiesa riuscisse a far comprendere questo al mondo tecnologico, non avrebbe più paura dell’intelligenza artificiale: la benedirebbe, ordinandola alla dinamica del dono.
È il dono, infatti, che salverà la tecnica: non un nuovo programma morale, ma una conversione della valore, dal possibile al reale, dalla potenza alla comunione. Forse è proprio questa l’enciclica che attendiamo: non una condanna, ma una teologia dell’atto. Ripetere che il valore non si prova nell’invenzione, ma nell’incarnazione; che l’intelligenza non si misura nella rapidità, ma nella verità; che solo la carità dà senso alla conoscenza. Allora, nella marea dei dati e delle immagini, rinascerebbe un ordine: quello del Logos creatore, che fa essere tutto ciò che è.
E se la Chiesa avrà il coraggio di pronunciare tale parola, restituirà all’umanità il coraggio di agire, non soltanto di sognare. Poiché il nostro tempo muore di potenzialità; sarà salvato dagli atti. La più umile decisione giusta vale più della più brillante simulazione. E soltanto a questo prezzo, il prezzo dell’atto, l’intelligenza artificiale cesserà d’essere idolo e diverrà strumento di carità. Allora, e solo allora, essa parteciperà umilmente a quel mistero eterno: Christus verus Logos, la Parola che agisce, l’Amore che dà l’essere.
Per questo possiamo concludere: c’è un solo locus che rende ogni umano al sè umano, che lascia fuori dalla navata chi egli sia in quanto somma di dati, informazioni e altre potenzialità, ma che lo accoglie in quanto quel che è, cioè atto nella Sacra Liturgia che Cristo celebra per la gloria del Padre ad opera dello Spirito Santo con il Suo Corpo che è la Santa Chiesa.
Gaëtan Cantale-Miège, Author| PhD, Master of Science

Vedere dei tizi che si ostinano a dire al Papa quello che deve fare mi fa sempre sorridere.
RispondiEliminaIl mondo al contrario, la Fede alla rovescia.
Insomma Gaetan, hai già scritto tu l'Enciclica!
RispondiEliminaBellissimo articolo, molto lucido. Non credo che l'enciclica di Leone IV sull'AI, se mai ci sarà, potrà non contemplare questi concetti.
RispondiEliminaGrazie!
amareggia vedere come tutti siano pronti a inbeccare il papa a istruirlo a redarguirlo, quasi fosse un povero imbecille; e tutti questi si sentono grandi defensori della fede, senza vedere la trave nel loro occhio e lo spirito giacobino che in questa modalità di relazione con il sommo pontefice si cela
RispondiEliminaConcordo al 1000%
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