La Tradizione secondo il grande pensatore don Divo Barsotti.
Luigi C.
Serafino Tognetti, Aurelio Porfiri, 2-9-25
Il concetto di “Tradizione” saltò prepotentemente alla ribalta negli scritti di don Divo Barsotti (Palaia 1914 – Firenze 2006) quando si trattò di specificare – e anche di difendere – il fatto della “continuità” tra la Chiesa del presente e quella del passato. Egli non pensò mai negli anni giovanili di “difendere” la Tradizione, perché essa era un fatto acquisito, scontato, ovvio, lineare e pacifico. Fu quando, soprattutto nei tempi dell’immediato post-Concilio, si sentì da più parti parlare di rinnovamento radicale, di epoca nuova, di qualcosa che era finalmente iniziato nel tempo del Concilio Vaticano II, come un soffio dello Spirito che aveva rinnovato tutto, come se tutto il precedente nella Chiesa fosse sbagliato o, per lo meno, da svecchiare, che egli insorse. “Se tra il Sillabo e il Concilio Vaticano II vi fosse opposizione – scrisse - e non potessero conciliarsi, non so come potrei accettare l’infallibilità della Chiesa”. Il discorso non fa una grinza: non può la dottrina di oggi annullare o contraddire quella di ieri. Ribadendo questo concetto, nel 1987 replicò: “Se il Concilio rompesse con la Chiesa di sempre, allora si dovrebbe pensare davvero che la Chiesa conciliare è una Chiesa scismatica”. La provocazione qui è febbrile. Nel Diario “Fissi gli occhi nel sole” (1988) egli affermò che il rifiuto della Tradizione dopo il Concilio fu “una malattia mortale”, da cui si può guarire solo ritrovando il contatto con la Tradizione. Non era possibile per Barsotti negare la grandezza della Chiesa italiana preconciliare che aveva dato all’Italia grandi figure come il Cardinal Ferrari, don Orione e Pio XI; al contrario la Chiesa del post-Concilio non gli sembrava ancora “aver dato al mondo figure così eminenti”.
Ma il suo collegamento con la Tradizione non si fermava al Magistero; egli vedeva soprattutto nei santi lo sviluppo dell’unità della Chiesa. Rompere con la Chiesa (o svilirla, diminuirla, deriderla, ecc.) significava rompere anche con san Francesco d’Assisi, sant’Agostino, san Bernardo, santa Teresa d’Avila, i martiri;
in sostanza, si trattava di cancellare la comunione con tutti quelli che avevano creduto, amato, pregato con le preghiere di sempre, e avevano anche dato la vita per il Signore Gesù. La continuità dunque era sia dottrinale che morale che carismatica, perché i santi del passato avevano creduto a certe cose, e negare ora quelle cosesignificava azzerare anche la vita di quei santi. Cosa impossibile, per Barsotti. Usando la famosa parafrasi del nano sulle spalle dei giganti, affermava: “Noi vediamo perché c’è un Padre che ci porta, perché c’è tutta la Comunità cristiana che ci sostiene sulle sue spalle. Non per nulla coloro che ci portano si chiamano i Padri della Chiesa”.
Non si deve mai parlare quindi, nella Chiesa, di qualcosa di nuovo che debba accadere. Non c’è nulla di sostanzialmente nuovo, dopo la Resurrezione del Signore. Nemmeno il giudizio universale sarà qualcosa di nuovo – esso sarà soltanto il compimento e lo sviluppo finale di tutto il precedente – figuriamoci se può esserlo un evento di Chiesa nella storia, importante quanto si voglia, fosse pure un Concilio o un Sinodo. No, niente di nuovo, perché tutto è già stato detto. In questo Barsotti era decisamente in linea con San Giovanni della Croce: “Nel Verbo del Padre Dio ha già detto tutto”. Si tratta allora per noi di approfondire, generazione per generazione, l’Atto del Cristo, e viverlo fino alle estreme conseguenze nella nostra singola vita di battezzati. L’Atto del Cristo, per Barsotti, altro non è che la morte e Resurrezione del Cristo, ossia la S.Messa. La S.Messa è l’evento escatologico e soteriologico definitivo, oltre il quale non si va. Vi si entra dentro, e lo si vive, ma “oltre” non si va.
Fu proprio in quegli anni che tale difesa della Chiesa di sempre emerse con prepotenza negli scritti - nei diari soprattutto – del mistico toscano, la cui causa di beatificazione si è aperta proprio in questi mesi. Riportiamo una pagina di diario che ci dà l’idea di quanto egli sentisse questo problema, scritta nel 1967 e pubblicata nel Diario “Battesimo di fuoco”: “Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti il Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, un’orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico. Tutto il cristiano deve compiere in trepidatione et timore; al contrario qui il trionfalismo, che si accusava come stile della Curia, diviene l’unico carattere di ogni celebrazione, di ogni interpretazione dell’avvenimento. Del resto io sono perplesso nei riguardi del Concilio medesimo: la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento di molti teologi. Crederò a questi teologi quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo, quando saprò che non mangiano, non bevono, non dormono ossessionati dal peccato o, se non si deve credere più al peccato, impegnati fino all’esaurimento per il servizio di Dio.
Tutto il resto è retorica. Si passa da un trionfalismo all’altro, e tutto rimane lo stesso. Una verità che serve all’orgoglio di chi la proclama e crede difenderla, è una verità impazzita. Soltanto la santità salva la Chiesa, salva la verità. Solo i santi salvano il mondo e salvano la Chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più”.
Trapela una certa amarezza, in questa pagina… sentimento che sarà stemperato più avanti negli anni, senza per altro che egli cambiasse idea nemmeno di una virgola. I santi sono gli uomini che “salvano” la Chiesa perché sono gli uomini della Tradizione, sono uomini “che sanno abbandonarsi con tranquilla fiducia all’onnipotenza di Dio che li sceglie per operare attraverso di loro”.
