Continuiamo le analisi sul nuovo pontificato di Leone XIV.
"È in questo senso che mi azzarderei a prevedere che lo stile del suo pontificato sarà ratzingeriano e patristico".
Monday Vatican – Andrea Gagliarducci: Leone XIV: Come comporrà la sua squadra? “…Leone XIV non compirà mosse avventate perché non è nella sua natura. Tuttavia, vale la pena notare la fretta con cui alcuni ai margini della Chiesa sembrano desiderare che Leone attui delle riforme. Il vescovo di Charlotte, negli Stati Uniti, ha fatto notizia con il suo brutale piano per l'attuazione della Traditio Custodes nella sua diocesi, che di fatto vieta la Messa tradizionale in latino. Il piano è stato bloccato, per ora, ma il danno alla credibilità del vescovo Michael Martin sulla scena statunitense, così come alla sua reputazione a Roma e presso il proprio clero e i fedeli, è fatto. (...) Anche la questione cinese è stata determinante nell'orientare i voti dei cardinali nel Conclave verso il cardinale Prevost. I cardinali asiatici non potevano accettare un candidato come il cardinale Erdo, la cui nazione, l'Ungheria, è considerata vicina alla Cina. Per lo stesso motivo, non potevano votare per il cardinale Pietro Parolin, che era uno dei sostenitori dell'accordo con la Cina…”
Luigi C.
Sandro Magister, 2-6-25
(s.m.) Il professor Leonardo Lugaresi, autore della nota pubblicata in questa pagina, è un eccellente studioso dei Padri della Chiesa.
Come lo è anche papa Leone XIV, che nel citare i Padri come fa di frequente, a cominciare dal “suo” Agostino, mostra di coglierne il pensiero con rara profondità.
E proprio questa familiarità del nuovo papa con la grande “tradizione” cristiana è una chiave decisiva – a giudizio di Lugaresi – per capire come egli intenda svolgere il suo servizio di successore di Pietro, nel solco non solo dei suoi ultimi predecessori ma dell’intera storia della Chiesa, riconducendo “ogni cosa alla verità originaria”.
La nota che segue è un estratto da un testo più ampio, che può essere letto integralmente nel blog “Vanitas ludus omnis” del professor Lugaresi.
Nell’illustrazione, la Cattedra di San Pietro attorniata dai Padri della Chiesa Ambrogio, Agostino, Atanasio e Giovanni Crisostomo, nell’abside della basilica di San Pietro, opera di Gian Lorenzo Bernini.
Tradizione e giusto uso. Una nota sullo “stile” di Leone XIV
di Leonardo Lugaresi
Nelle analisi che molti osservatori stanno facendo dei primi passi del pontificato di Leone XIV, pare che prevalga finora l’uso della categoria di continuità e discontinuità, applicata al confronto con il pontificato precedente.
Tale criterio, tuttavia, risulta largamente inadeguato a comprendere il senso di ciò che sta accadendo nella Chiesa, e in particolare non aiuta a cogliere un aspetto dello stile di pensiero e di governo di papa Leone XIV, che pare stia invece già emergendo con nettezza, soprattutto sul piano del metodo.
Colpisce, in tutti i primi interventi del nuovo papa, la felice naturalezza con cui egli fa continuamente appello alla tradizione della Chiesa attraverso grandi autori che ne sono testimoni: da Ignazio di Antiochia a Efrem il Siro, Isacco di Ninive, Simeone il Nuovo Teologo, Benedetto da Norcia, Leone Magno e più volte al “suo” Agostino. Riferimenti brevi, ma non di maniera, bensì tutti rilevanti per la pertinenza ai temi che il papa stava toccando. A questi riscontri patristici si accompagna quello costante al magistero dei papi moderni, in particolare Leone XIII e Francesco.
È proprio su quest’ultimo dato che vorrei attirare l’attenzione. Esso potrebbe facilmente venire interpretato o come una prova della sostanziale continuità del nuovo papa con il predecessore, dal quale si distinguerebbe solo in superficie, per ovvie e scontate differenze di temperamento; oppure, al contrario, come un mero accorgimento tattico e strumentale, volto a prevenire e lenire possibili reazioni ostili nei confronti di un papato che starebbe operando con discrezione una sostanziale rottura con la cosiddetta “Chiesa di Francesco”.
Credo che entrambi gli approcci siano sbagliati. Ciò che papa Leone ha espresso, in ogni suo atto e parola durante queste prime settimane di pontificato, non è altro che la concezione autenticamente cattolica di tradizione.
Sul modo di intendere tale concetto pare che sia molto diffuso oggi tra i cattolici un equivoco che paradossalmente accomuna in larga misura i fronti opposti dei “tradizionalisti” e dei “progressisti”: quello di legare la tradizione al passato, poco importa se con l’intento di preservare e riproporre tale passato, o al contrario per rifiutarlo e superarlo definitivamente.
Tradizione, infatti, in senso autenticamente cattolico non indica un oggetto, bensì un processo, anzi una relazione. Si riferisce a un rapporto di trasmissione, o meglio di donazione, che implica essenzialmente degli attori viventi (donatore e donatario) e delle interazioni reciproche che vanno al di là del tempo.
In questo senso, la tradizione è sempre vivente: appartiene al presente, non al passato, perché avviene ora. E proprio in quanto è vivente ha l’autorità e la forza di esigere un’obbedienza nel presente. Essa sta al cuore della fede, apportandovi un aspetto essenziale, senza il quale semplicemente non c’è più il cristianesimo. La fede cristiana, infatti, è per sua natura sempre e solo una risposta a un appello che spetta solo a Dio il quale, per primo, si rivela a noi. Tale è la fede di Abramo, di Mosè, dei profeti e la fede degli apostoli, su cui la nostra si fonda.
Ne deriva che, in questo senso, la parola della Chiesa è sempre e solo parola ricevuta, perciò intrinsecamente “tradizionale”. In quanto ricevuta, tale parola va custodita e trasmessa agli altri fedelmente, secondo la modalità limpidamente dichiarata da Paolo sin dai primordi della storia cristiana: “Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto” (1Cor 15, 3). Definire la parola ecclesiale come parola ricevuta significa anche affermare che la Chiesa, papa compreso, non ha alcuna potestà su di essa: la serve, non se ne serve. Non può dunque disporne come vuole, ad esempio per renderla più idonea a incontrare la mentalità e le attese della società contemporanea, così come noi le intendiamo.
C’è però ancora un aspetto che bisogna mettere in luce, per cogliere adeguatamente il carattere cattolico di tale concezione: la parola di Dio, a cui ciascuno di noi risponde personalmente, non viene a noi per una rivelazione diretta e personale (come nell’illuminazione interiore, “sola Scriptura”, della concezione protestante), ma ci viene trasmessa da un’ininterrotta catena “martiriale” di testimoni autorevoli, e dunque ci arriva arricchita, anzi vissuta da tutte le risposte che ha ricevuto nel corso della storia cristiana. Come ha scritto splendidamente Joseph Ratzinger, riferendosi al ruolo dei Padri della Chiesa nella teologia contemporanea: “Solo perché la parola ha trovato risposta è rimasta tale ed effettiva. La natura della parola è una realtà di rapporto, cessa di esistere non solo quando nessuno la pronuncia, ma anche quando nessuno l’ascolta”. Per questo “non possiamo leggere e ascoltare la parola prescindendo dalla risposta che prima l’ha recepita ed è diventata costitutiva della sua permanenza”.
Ecco perché la Chiesa non può mai, in nessun caso, rompere con la tradizione o trascurarla: è sempre “sulla scorta dei Padri” e di tutti coloro che ci hanno preceduto nella fede e ce l’hanno consegnata che essa legge la Scrittura e comprende la Rivelazione. La tradizione ha dunque un’autorità a cui nessuno nella Chiesa può sottrarsi: meno di tutti il papa. L’unica Chiesa che noi conosciamo, infatti, è di Cristo, e l’unica qualifica che le appartiene, con riferimento a una funzione umana di custodia e di governo, è di essere “apostolica”, cioè incardinata sul fondamento stesso della tradizione, che va accolta e compresa nella sua integralità.
Questo significa che – piaccia o meno ai tradizionalisti – di essa oggi fanno parte anche il Concilio Vaticano II e i pontificati che lo hanno seguito, compreso quello che è terminato lo scorso aprile. Nei confronti del quale, dunque, per quante critiche si possano muovere, non avrebbe alcun senso cattolico invocare una “damnatio memoriae”.
Naturalmente la storia della Chiesa nel suo versante umano è piena di errori e persino di malefatte, e sotto questo profilo va esercitato nei suoi confronti un discernimento senza sconti. E qui acquista rilievo un altro aspetto che mi ha molto colpito nei primi atti del nuovo papa, ed è la pratica del “giusto uso”, la “chrêsis” di cui parlano i Padri della Chiesa.
È merito di un grande studioso recentemente scomparso, Christian Gnilka (1936–2025), avere attirato l’attenzione sulla centralità di tale concetto nell’approccio che i Padri hanno verso la cultura profana e, in generale verso tutti i beni mondani. La “chrêsis” è un atteggiamento che sfugge alla dicotomia, oggi imperante, di inclusione ed esclusione, perché si tiene lontano sia dalla accettazione acritica (che poi degenera in sottomissione), sia dal rifiuto pregiudiziale (di cui è figlio il settarismo), ma è proteso a incontrare l’altro in ogni occasione, “vagliando tutto e trattenendo ciò che vale”, secondo la formula paolina di 1Ts 5, 21, cioè operando una “krisis”, il giudizio che “entra e separa”: è interessato a ogni cosa, si coinvolge con chiunque, ma in tutto ciò che incontra distingue ciò che è buono, bello e vero da ciò che non lo è. Con quale criterio? L’unico possibile per il cristiano: quello che, sempre Paolo, con un’espressione folgorante chiama il “nous” – il pensiero, la mente – di Cristo (cfr. 1Cor 2, 16).
Ricondurre ogni cosa alla sua verità originaria: questo è il “giusto uso”, la “chrêsis” di cui parlano i Padri della Chiesa, che si compendia nel modo più sintetico nella dichiarazione di Paolo agli Ateniesi: “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annuncio” (At 17, 23). Tale pretesa cristiana, in cui si concretizza il compito di essere “sale della terra e luce del mondo” assegnato da Cristo ai suoi, vale però non solo verso il mondo, ma anche, in un certo senso, verso la Chiesa stessa nella sua componente umana. Ogni cosa umana, infatti, ha bisogno di essere continuamente purificata, corretta e rimessa a posto: in una parola, riconsegnata alla verità del progetto divino. Qui sta l’origine del principio “ecclesia semper reformanda”, non in un’istanza di aggiornamento alle vicende del mondo.
Il compito di Pietro è essenzialmente preservare la verità della fede e l’unità del popolo di Dio. Un equivoco degli ultimi anni è stato quello di pensare invece che spettasse al papa “avviare i processi” di un cambiamento senza che fosse chiaro in quale direzione andare: si pensi ad esempio a tutto il confuso discorrere di “sinodalità”. Ma oggi sarebbe altrettanto sbagliato pretendere che spetti al papa compiere una sorta di “controriforma”. Se posso azzardare una previsione, credo che questo comunque non accadrà. Penso invece che da Leone XIV possiamo attenderci non tanto delle correzioni esplicite o delle formali ritrattazioni di certi aspetti ambigui, confusi e in qualche caso problematici del precedente pontificato, quanto un loro “giusto uso” che, se così posso esprimermi, li “rimetta al loro posto”.
Un fattore fondamentale di sicurezza, nel nuovo pontificato, sembra che in ogni caso si possa già dare per acquisito, sulla base dell’esperienza di queste prime settimane. A differenza del suo predecessore, Leone non ci darà da temere che faccia il papa “di testa sua”. Lo ha chiarito sin dall’inizio, quando, richiamandosi a una frase di Ignazio di Antiochia (ma riecheggiando riflessioni che a suo tempo aveva fatto anche Benedetto XVI), ha definito “un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo”. È in questo senso che mi azzarderei a prevedere che lo stile del suo pontificato sarà ratzingeriano e patristico.