Il Colloquio sul canone romano che si sta svolgendo a Roma a cura del CIEL - Centro Internazionale di Studi Liturgici prosegue con don Gabriel Díaz Patri, il quale ha illustrato "alcune riflessioni a partire da una descrizione comparativa delle anafore del primo millennio".
Vi proponiamo i tratti più salienti del suo intervento.
Vi proponiamo i tratti più salienti del suo intervento.
Alcune riflessioni a partire da una descrizione comparativa delle anafore del primo millennio
Rev. Gabriel Díaz Patri
Secondo autori come Bouyer, la preghiera sinagogale ebraica sarebbe già fissata nel primo secolo e il rito eucaristico dei primi cristiani avrebbe semplicemente mutuato la sua prima parte da un servizio di tipo sinagogale.
Tuttavia, verso la metà del XX secolo sono stati iniziati per la prima volta dei studi scientifici sulla storia della liturgia sinagogale e questo ad opera di studiosi ebrei, tra cui spunta soprattutto Joseph Heinemann, in ampie pubblicazioni, ma in particolare al suo volume fondamentale Prayer in the Talmud: Forms and Patterns e nel suo insegnamento.
Questi studi hanno messo in luce l'eccessiva semplicità della fondazione delle teorie che presupponevano che la preghiera ebraica fosse rimasta immutata per otto o nove secoli dato che il più antico rituale ebraico completo conosciuto è la compilazione di Amram Gaon, che risale solo al IX secolo, cioè un secolo dopo il più antico manoscritto del Sacramentario Gelasiano e diversi secoli dopo le anafore cristiane attestate in papiri come quelli di Strasburgo, Barcellona o Manchester. Di un periodo precedente abbiamo alcuni manoscritti trovati per caso nel 1896 nella genizah di una sinagoga del Cairo, un'antica chiesa cristiana che era stata convertita in sinagoga nell'882, quindi alcuni di quelli manoscritti potrebbero risalire all'VIII secolo. Per quanto riguarda Amram Gaon (il capo della yeshiva di Sura, in Mesopotamia) avrebbe ricevuto l’incarico dagli ebrei di Spagna di documentare l'ordine delle preghiere e le loro leggi ma non disponiamo di un manoscritto con la versione originale del siddur, ma solo di versioni vive filtrate dalle tradizioni dei suoi utilizzatori. Per questo motivo, è impossibile sapere quali parole Amram abbia effettivamente scritto.
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Al contempo, però a volte quella influenza non consisteva nel fatto che i cristiani adottassero le stesse usanze degli ebrei, ma che facessero il contrario per distinguersi dagli ebrei, mentre altre volte potevano essere gli ebrei a dover differenziare le loro pratiche da quelle dei cristiani. Non possiamo comunque scartare del tutto la possibilità che tanti siano semplicemente casi di sviluppi paralleli del tutto indipendenti piuttosto che la reazione di uno all'altro. Oggi se vede infatti che il cristianesimo primitivo e il giudaismo tannaitico sono due religioni che si sono formate nello stesso periodo e nelle stesse condizioni. Non c'è motivo per non ipotizzare uno sviluppo parallelo e reciproco delle due religioni, durante il quale talvolta il giudaismo ha interiorizzato le idee del suo rivale piuttosto che il contrario.
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Inoltre, i cristiani moderni che vogliono studiare la liturgia dei primi secoli devono fare una vera e propria acrobazia mentale. Sono talmente abituati a rituali scritti, completi e obbligatori, che rischiano di proiettare il modo di funzionamento attuale della liturgia sui primi secoli della Chiesa.
La verità è che per il primo millennio la liturgia è stata organizzata secondo pratiche molto diverse dalle nostre: tradizione orale e autonomia istituzionale erano la regola.
Per questo motivo, la documentazione disponibile sui primi secoli è per forza di cose limitata, e la sua interpretazione è tanto più difficile in quanto ci si chiede continuamente se si tratti di un campione sufficientemente rappresentativo.”
La cultura orale è infatti un aspetto fondamentale per comprendere la liturgia del primo millennio. Ma concetti come apprendimento e trasmissione “a memoria”, ad essa strettamente legati, non hanno in questo caso il significato che evocano per noi, cioè un testo fisso che si impara memorizzando fedelmente e poi si ripete tale e quale. Infatti, la cultura orale include sempre in qualche misura un elemento di “improvvisazione” che porta a un'inevitabile variabilità del testo, che pur conservando la sua identità essenziale è “incarnato” in formulazioni diverse. Riproduzione fedele in queste culture non è sinonimo di “letteralità” (che, come lo dice il nome stesso, presuppone l'esistenza di “lettere”, che però per definizione qui non ci sono, visto che si parla proprio di trasmissione “orale”).
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È urgente una seria revisione della metodologia utilizzata per lo studio dello sviluppo della liturgia nel primo millennio, e in particolare dell'anafora. La metodologia solitamente utilizzata, che cerca di ripristinare un ipotetico “urtext” applicando i principi sviluppati nel XIX secolo per realizzare una “edizione critica” di un testo classico, presuppone l'esistenza, a un certo punto, di un testo unico prodotto da un Virgilio, un Cicerone o un Orazio. Tuttavia, questo metodo, applicato a testi liturgici (sia cristiani che ebraici) nati in un contesto totalmente diverso, è chiaramente inadeguato. Diventa dunque necessaria una revisione della visione abituale, che tenga conto delle caratteristiche della cultura orale in cui sono nati e che è stata presente in qualche forma fino all'epoca carolingia e anche dopo (sarebbe interessante applicarla, per essempio, allo studio delle abbondanti varianti di testi più recenti come le “apologie” e altri corrispondenti alle chiamate “parti molli” della liturgia). Una lettura alla luce della cultura orale, che, per quanto più limitata nel corso del tempo, era ancora predominante, e del suo correlato, l'improvvisazione sulla base di schemi prefissati, potrebbe far luce su aspetti in cui l'identità essenziale e allo stesso tempo l'aggiunta o la sottrazione di elementi, così come le variazioni di vocaboli ed espressioni non si spiegano a sufficienza se viste come varianti testuali dovute all'intervento di un copista in un contesto di cultura scritta.
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