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martedì 4 gennaio 2022

Mons. Negri e la liturgia

Qualche giorno fa, gli amici di
Campari & deMaistre hanno pubblicato un ricordo di Mons. Luigi Negri, scomparso lo scorso 31 dicembre; ricordo che merita di essere letto e che ben volentieri Vi proponiamo qui di seguito. Vorremmo anzi aggiungervi qualche parola. Come a molti sarà già sovvenuto in questi momenti di lutto, Mons. Negri partecipò al IV Pellegrinaggio Internazionale Summorum Pontificum, e il 24 ottobre 2015 tenne l’omelia della Messa Pontificale in S. Pietro, che pure trascriviamo in calce. Era il periodo infuocato del Sinodo straordinario sulla Famiglia, che si concludeva proprio in quei giorni, e ben si sapeva che cosa stesse bollendo in pentola. Mons. Negri disse parole chiaramente riferibili a quel difficile frangente, presagendo che il peggio dovesse ancora arrivare. È dunque doveroso commemorare un presule così coraggioso anche come testimone del legame indissolubile che unisce liturgia tradizionale, saldezza nella fede e nella verità, carità ecclesiale, parresia, obbedienza incrollabile al deposito della Rivelazione e santa resistenza agli attacchi che vengono sferrati contro la Tradizione. Un legame di cui sembrano assai consapevoli i nostri stessi avversari, talora addirittura più di noi, e che forse spiega la ragione profonda della guerra che è stata scatenata contro la liturgia di sempre in questi ultimi mesi.

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Mons. Negri e la liturgia

Come è noto, Monsignor Luigi Negri è stato un grande fautore della corretta liturgia e un promotore, dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum, della liturgia tridentina. Ciò gli ha procurato numerose antipatie nella diocesi di Ferrara-Comacchio, dove fu vescovo. Eppure il pensiero di questo mirabile successore degli apostoli riguardo la Messa era perfettamente allineato con il pensiero storico della Chiesa, forse per questo ha avuto così tanti nemici.

Al riguardo, riportiamo alcuni passaggi di un'intervista, consultabile per intero sul sito luiginegri.it.

La Liturgia non è prodotto degli uomini:

Il primo delitto è pensare che la liturgia è qualcosa che gli uomini, i cristiani fanno per Dio. Allora se la Liturgia vale perché è bella, perchè esprime a sufficienza il sentimento dei fedeli allora, per esempio, se ci metto una chitarrina la gente si sente più sollecitata, più contenta. Ma la Liturgia non consiste in ciò che piace. Quando nel venerdì santo si sta un’ora è mezza o due ore ad adorare la Croce e si ripete con la Chiesa: “regnavit a ligno Deus” non si prova certo piacere. Nel venirci incontro della Liturgia è Dio che ci viene incontro e noi non la costruiamo, essa è la storia di Dio con noi. Con la Liturgia ci mettiamo in condizioni di capire sempre di più ciò che è già accaduto. Don Giussani quante volte ci ha ricordato Laurentius Eremita e la sua frase: “Pensai che tutta la vita sarebbe passata nella memoria di quello che era accaduto e questo pensiero mi riempie di pace”. La Liturgia, dunque, non si fa, la si accoglie come la tradizione della Chiesa ce la consegna. Non si cambia secondo le fogge del tempo quello che è l’estremo gesto della misericordia di Dio che ci viene incontro e ci viene incontro per restare con noi.

La Liturgia, il dogma e l'impostazione personale della propria vita:

Fra le conseguenze del riconoscere che Cristo è presente v’è anche il riconoscimento del Suo Mistero come dogma e morale perché un Cristo senza dogma e morale sarebbe solo un’opinione. La coscienza della Sua presenza diventa anche discorso teologico. Il cristiano è colui che, in forza del riconoscimento di Cristo, imposta la sua vita come un continuo passaggio dalla fede alle opere.

La Liturgia segue delle regole:

La Liturgia è il punto più profondo della presenza carnale di Cristo. La Chiesa ha stabilito le modalità concrete di questa presenza. Si può usare un’altra bevanda o un altro cibo diverso dal pane? Forse che, se è più dietetica la soia, si può consacrare la soia? No se non uso la cosa indicata da Cristo e dalla Chiesa, questo si chiama sacrilegio. La Chiesa, fortunatamente per noi, ha stretto sulla verità. La Liturgia ci dice che la Chiesa non è luogo di opinioni. La Chiesa ha ricevuto un mandato: testimoniare Cristo come l’unica possibilità di salvezza. Questo è il mandato. Tanto era il desiderio di Cristo nelle primissime generazioni cristiane che l’unica preghiera che dicevano era: “Vieni Signore Gesù”. È preciso il mandato della Chiesa. Nella Diocesi di Ferrara ho dovuto insistere perché i sacerdoti dicessero il Credo nella sua formula integrale e cattolica. Le variazioni spontanee delle parti essenziali della Liturgia possono avvenire perché la Liturgia è concepita come una cosa dell’uomo anziché come obbedienza. La Messa cattolica è tale perché è celebrata in comunione col Vescovo. Anche nella società civile possono avvenire cose simili. Il Parlamento italiano ha per esempio certamente un suo mandato. Non fa parte però di quel mandato riunirsi addirittura in seduta comune per sentire una ragazzina, Greta, che parla del clima.

Nella Liturgia incontriamo Gesù:

Il sacrificio di Cristo (la Sua morte) e la Sua Resurrezione sono avvenimenti unici. La novità di Cristo ci viene incontro nella sua presenza storica e nella sua eternità soprastorica. L’Incarnazione e quindi l’Eucarestia cioè diventano principio di una storia attuale.
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Omelia 24 ottobre 2015 – Pellegrinaggio Summorum Pontificum
Basilica di San Pietro in Vaticano

Sia lodato Gesù Cristo

La parola della liturgia richiama la grande attesa della salvezza dell’intera umanità e, in particolare, l’attesa dei poveri, degli umili, dei disperati. Quella stessa attesa che ad un certo punto si muovesse l’acqua della piscina, perché qualcuno potesse entrare in essa e così partecipare della novità di vita identificata nel Messia d’Israele.
Ecco! Ora l’attesa è finita. L’attesa è finita perché l’avvenimento di Cristo ha squarciato definitivamente i cieli ed è penetrato dentro lo spessore della storia – dell’intera Storia – con tutte le sue grandezze e le sue povertà, con tutti i suoi limiti e le sue tentazioni, ma anche con l’immensa capacità dell’uomo, di affrontare responsabilmente, di generazione in generazione, il problema del destino della sua vita, del fine a cui è chiamato, del Regno di Dio cui tendiamo e che è in mezzo a noi.
È Cristo la vita nuova in mezzo a noi: la vita è pienamente realizzata in Lui, nel mistero della Sua Morte e Resurrezione e della Sua Ascensione, mistero comunicato a ciascuno nella profondità della nostra fede e nell’intensità della nostra carità.
Vita nuova perché la salvezza è una. E’ una nuova dilatazione dell’intelligenza e del cuore che si traduce poi in una nuova sensibilità verso sé stessi, verso gli altri, verso la realtà. Questa umanità nuova è dentro di noi come grazia, come dono della fede. Come verità non meritata ma offerta gratuitamente a quell’attesa profonda che anima la nostra esistenza.
Di fronte a questa grazia noi non siamo e non possiamo rimanere inerti come abbandonandoci ad una sorta di fatalismo che non è cristiano. Noi dobbiamo assumerci la nostra responsabilità, perché la grazia, principio di vita nuova in noi, sede di vita nuova in noi, possa maturare, possa investire e realizzarsi nella nostra umanità, ma soprattutto, realizzandosi nella nostra umanità, possa diventare principio di missione, principio di comunicazione. La fede ci è data per comunicare.
Nella Redentoris Missio, San Giovanni Paolo II diceva: la fede si irrobustisce donando. Dunque, la gratitudine per la grazia che ci è stata data, diviene, nella profondità della nostra coscienza e del nostro vivere quotidiano, l’intendimento a offrire il nostro contributo alla grande missione di Cristo e della Chiesa. Un impegno a cui dobbiamo collaborare con tutte le nostre forze, quali siano gli ambiti del quotidiano, le circostanze che affrontiamo, i luoghi e le funzioni che abbiamo.
Una sola grande vocazione appartiene al popolo cristiano: comunicare la vita nuova di Cristo ad ogni uomo perché ogni uomo possa, investito di questa grazia, se vuole, corrispondere e fare anch’egli, a sua volta, esperienza di questa novità. Dunque la responsabilità cristiana è la missione, e questa è stata la grande e straordinaria, lezione della Chiesa nella sua storia bimillenaria, variegata faticosa, talora segnata da tanti limiti, ma segnata anche da tanta gloria.
La Chiesa è questa presenza inesorabile della vita di Cristo che viene offerta a tutti coloro che qualche volta non la desiderano neppure, ma dalla nostra presenza di testimoni vengono sollecitati a guardare Cristo, magari per la prima volta, in un mondo come quello in cui viviamo, così lontano dalla presenza del Signore.
Questa missione ha visto la sua identità, la sua moralità scandita da due grandi parole che nella sua storia la Chiesa ha spesso potuto e dovuto dire: la prima parola è la parola POSSIAMO, POSSUMUS, e in questa parola, in questo atteggiamento la Chiesa ha, di generazione in generazione, incontrato l’umanità; la fede ha incontrato la ragione; la libertà cristiana ha incontrato la legge umana; le vicende della vita, dei popoli e delle nazioni sono state inculturate dalla fede cattolica, così che, in più di un caso, questa fede cattolica ha saputo dare un contributo significativo a forme di cultura e di civiltà.
Nel possumus la Chiesa e il mondo si sono incontrati. L’umanità in ricerca si è incontrata con la Chiesa che porta il Dio che si rivela. L’esistenza umana, personale e sociale, questa grande storia di cultura e di civiltà, è significata dalla grande cultura cattolica che non è ancora finita e che ci parla attraverso le più diverse forme di espressione culturale. La missione ha avuto certamente nell’orizzonte del possumus la capacità di dare un contributo significativo all’incremento della vita umana, personale e sociale.
Ma la Chiesa ha potuto e dovuto dire, in modo inesorabile, anche un’altra parola: NON POSSIAMO NON POSSUMUS. La Chiesa in molte occasioni ha dovuto dire che non era lecito non denunciare il tentativo di eliminare la presenza della Chiesa dalla vita della società, ridurre i diritti di Dio, i diritti della Chiesa, e quindi inesorabilmente contribuire al degrado della vita umana e sociale. Non possiamo. Non c’è stato nessun momento della storia per quanto drammatica, soprattutto dell’occidente europeo, in cui la Chiesa non si sia, talvolta anche da sola, assunta la responsabilità di negare la legittimità di certe ideologie, la legittimità di certe impostazioni culturali, sociali e politiche.
La Chiesa, nel suo non possumus, non ha chiuso il dialogo con gli uomini, ma ha negato che le ideologie potessero essere un avvenimento significativo per la sua vita. La denuncia di ciò che contrastando la Chiesa avvilisce l’uomo, il mistero della vita, il mistero dell’amore. La sacralità della paternità e della maternità, gli avvenimenti più significativi della vita umana, stravolti, abbattuti, sostituiti da forme assolutamente inaccettabili di convivenze personali, familiari o sociali.
La Chiesa non potrà mai dire solo possumus, come non potrà mai dire soltanto non possumus, Dovrà, nella responsabilità missionaria, rendere possibile l’incontro fra Cristo e il cuore dell’uomo, dovrà sapere ritmare le aperture e le chiusure, le accoglienze intellettuali e morali e la negazione per tutto ciò che va contro i diritti di Dio. E andando contro i diritti di Dio mette le condizioni per un degrado, per una disumanizzazione della vita umana e sociale di cui è terribile esperienza la società in cui la Chiesa vive oggi.
Guai a noi dunque fratelli, se sostituiamo al binomio possumus – non possumus, un possumus a senso unico che consegna la cristianità alla mentalità dominante, che fa diventare obbiettivo della nostra vita ciò che è perseguito dal mondo nel suo aspetto negativo e diabolico: l’eliminazione di Cristo e della Chiesa. Noi non possiamo accettare che troppi avvenimenti o iniziative o tentativi in questo variegato mondo cattolico, siano fortemente condizionati da una volontà di piacere al mondo e di riceverne il suo appoggio.
Noi vogliamo vedere il volto di Cristo. Questo volto di Cristo che sfolgora nella bellezza della liturgia, e, come accennava il Santo Padre nel suo messaggio, ci introduce alla gloria definitiva del Suo volto. Il volto che è al tempo stesso di Risorto e di Giudice. Noi vogliamo solo mettere ogni giorno gli occhi della nostra intelligenza e del nostro cuore nel volto amatissimo del Signore. Perché da lì nasca un’intelligenza nuova, di noi e del mondo. Un cuore nuovo che ci fa amare ogni uomo che viene in questo mondo come parte del mistero di Cristo che ci si rivela. Che ci faccia sentire l’utilità del nostro tempo e della nostra vita soltanto come affermazione di Cristo e non come affermazione del nostro potere. Questo vogliamo.
Affidiamo alla Vergine la Santa Chiesa di Dio perché la letizia che scaturisce dalla fede sappia portare anche il peso del sacrificio della nostra vita quotidiana – della vita di tutta la Chiesa come di quella di ciascuno di noi – così da rendere inscindibile un binomio, che per la mentalità mondana sembra impossibile: letizia e sacrificio.
E così sia.

+ Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Abate di Pomposa