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sabato 17 aprile 2021

S. Padre Francesco, si ricordi che la povertà in salsa comunista non è cristianesimo!

Con dolore ricordiamo quando qualche piccolo imprenditore vedrà il proprio locale essere sequestrato dal tribunale ed andare all’asta durante questa epidemia, saranno parole azzeccate e di grande sollievo quelle del Papa sulla proprietà privata....
Ci permettiamo anche a segnalare la superficialità e il pericolo sociale di certe affermazioni di Francesco.
Il cattolicesimo, per fortuna, non è Che Guevara o Il Capitale di Carlo Marx.
Sarcasticamente un amico mi ha scritto: "La parola giusta al momento giusto...!"
Luigi 
La povertà in salsa comunista non è cristianesimo, Tommaso Scandroglio, 

I media hanno fatto un gran parlare dell’omelia del Santo Padre di domenica scorsa tenuta presso la Chiesa di Santo Spirito in Sassia. O meglio, hanno fatto un gran parlare solo di un frammento di questa omelia, quello riguardante il mettere in comune degli apostoli le proprie sostanze. La frase più citata, da cui spesso si è ricavato il titolo degli articoli pubblicati, è stata la seguente: «Gli Atti degli Apostoli raccontano che “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (4,32). Non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro». La lettura di questo passaggio dell’omelia offerta dai media è evidente: sei cristiano se condividi i tuoi averi con i poveri. L’essenza del cristianesimo sta in questo. Un vecchio stereotipo.

A tal proposito andiamo a leggere gli Atti
al capitolo 2: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (2, 44-45). Citiamo ora i versetti seguenti a quello appena menzionato: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (4, 34-35). Parrebbe proprio che per essere cristiani occorre spogliarsi dei propri beni e metterli in comune oppure darli ai poveri oppure consegnarli a chi annuncia il Vangelo. In breve: o ti fai povero come san Francesco oppure non dirti cristiano. Tutto il resto è un borghese compromesso.

La tesi pare suffragata da molti altri passi del Vangelo: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina» (Lc 12,33); «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi» (Mt 19,21). «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt 19,24); «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3); «Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione» (Lc 6,24); «Entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio» (Mc 11,15). Come poi non ricordare la parabola del ricco Epulone che finì all’inferno?

Diamo qualche risposta. Innanzitutto la povertà chiesta in modo esplicito da Gesù è quella spirituale, non materiale. Ossia il distacco del cuore dai beni materiali, o meglio: il giusto attaccamento verso di essi, dando la priorità a Dio. E lo smodato attaccamento affettivo alle proprie sostanze può interessare anche i poveri. Nemmeno loro sono immuni dall’errore in questo campo. Quando Gesù si scaglia contro la ricchezza e i ricchi lo fa non perché i beni materiali siano un male in sé, bensì perché possono diventare un ostacolo alla propria salvezza (vedi il ricco Epulone). Il possesso dei beni materiali è solo uno strumento, tra i tanti, per la propria ed altrui salvezza.

In secondo luogo, ogni credente deve vivere la povertà spirituale, ma la modalità attraverso cui parteciperà a questo consiglio evangelico sarà personalissima e non universalmente obbligatoria. Così ci sarà chi, a seconda di ciò che in coscienza Dio gli chiederà di fare, darà tutto ai poveri come fece san Francesco, chi invece solo una parte del suo patrimonio, chi invece, stretto da necessità, non potrà dare nulla ma, al pari di tutti, dovrà comunque vivere distaccato dai propri beni materiali. È dunque questione di vocazione personale. Parimenti: tutti sono chiamati alla purezza, ma i consacrati e i coniugi in modo diverso. Stessa meta, ma percorso differente per giungere alla medesima meta. Quindi, in merito agli apostoli, mettevano tutto in comune perché quello era il modo voluto da Dio per loro per usare dei propri beni. Parimenti per san Francesco e il giovane ricco: Dio chiede a loro di non possedere nulla di essenziale, ma è una richiesta ad personam, non rivolta all’universo mondo. E dunque il comunismo inteso come dovere morale (che un giorno diventerà gesto spontaneo) rivolto a tutti di mettere tutto in comunione con tutti non c’entra nulla con il cristianesimo.

Va da sé, poi, che è un obbligo morale aiutare i più bisognosi. Ma per farlo occorre privarsi del necessario? Lasciamo il lapis a Tommaso d’Aquino: «Il necessario può essere di due specie. Primo, può trattarsi di un bene, senza il quale un dato essere non può sussistere. Ebbene, dare l’elemosina con tale necessario è assolutamente proibito: e cioè, nel caso che uno, trovandosi in necessità, avesse appena di che sostentare se stesso e i propri figli, o altre persone a lui affidate. Infatti dare l’elemosina con questo necessario equivale a togliere la vita a se stesso e alla propria gente. […] Secondo, un bene può essere necessario nel senso che senza di esso non è possibile vivere secondo la condizione o lo stato della propria persona, o delle persone affidate alle proprie cure. […] Sarebbe un disordine […] se uno elargisse tanto dei suoi beni, da non poter vivere con ciò che rimane secondo il proprio stato, o da non poter compiere i propri doveri: infatti nessuno deve vivere in maniera indecorosa» (Summa Theologiae, II-II, q. 32, a. 6 c.). Dunque il necessario non è riferito solo alla mera esistenza in vita, ma anche alla vita dignitosa. Potremmo dunque spogliarci di tutto e vivere sotto i ponti, ma questo non sarebbe moralmente lecito e perciò non sarebbe cristiano. Inoltre, in tale stato di indigenza obbligheremmo altri ad aiutarci per uscire da simile condizione innescando un circolo perversamente vizioso e irragionevole.

Gesù non apprezza la miseria, ma vuole che i miseri ne escano, viene tra i poveri perché non rimangano tali. Se la miseria fosse una virtù, non si comprenderebbe il motivo per cui ci dovremmo affannare così tanto per sconfiggere la miseria materiale nel mondo. Se la povertà materiale fosse il biglietto di ingresso sicuro e certo per entrare nel Regno dei Cieli, sarebbe da insensati tentare di strappare qualcuno dalla povertà: meglio lasciarlo povero. Inoltre, sarebbe contraddittorio da una parte asserire che c’è l’obbligo di diventare poveri materialmente e dall’altra tentare di togliere dalla miseria i poveri.

Inoltre, se tutti fossero poveri materialmente non esisterebbero aziende, industrie, ospedali, forze dell’ordine, non sarebbe più possibile costruire strade e ponti, si bloccherebbe la ricerca scientifica, eccetera. In breve, sparirebbe tutto ciò che è necessario alla sopravvivenza di una nazione e alla vita quotidiana. Inoltre, la società civile cadrebbe nell’anarchia sociale.

Ma ai media questi distinguo non importano. L’importante è estrapolare un passaggio dell’omelia di Papa Francesco e cucinarlo - è proprio il caso di dirlo - in salsa comunista.