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martedì 21 aprile 2020

Francesco e i no global comunisti. Un grande amore. Noi diciamo NO

Ce lo ricordiamo ancora Luca Casarini con i black bloc a Genova e Venezia.
Violento e comunista.
Il "Caro Fratello" a cui si riferisce il S. Padre.
Vergogna.
QUI e sotto l'amico Giovanni Formicola.
QUI sull'argomento Rossoporpora e QUI  e QUI Tosatti.
Luigi

Settimo Cielo, 17.4-20
È stata una Pasqua molto “politica” quest’ultima di papa Francesco, che l’ha esplicitata con questi tre atti:

- il 12 aprile, nella domenica che celebra la risurrezione di Gesù, con il discorso “urbi et orbi” in cui ha richiamato l’Europa a dare “prova di solidarietà anche ricorrendo a soluzioni
innovative”;

- ancora nella domenica di Pasqua con l’invio di una lettera entusiastica a quei “movimenti popolari” che sono per lui l’avanguardia dell’umanità in rivolta contro il prepotere degli Stati e dei mercati;

- e due giorni prima, il 10 aprile, venerdì santo, con l’invio di un biglietto autografo a Luca Casarini, l’attivista no-global eletto dal papa ad eroe del soccorso ai migranti nel Mediterraneo.
La lettera ai “movimenti popolari” è stata riportata integralmente in un precedente post di Settimo Cielo, mentre il biglietto a Casarini è quello sopra riprodotto, con la seguente trascrizione testuale:

“Luca, caro fratello,
grazie tante per la tua lettera che mi ha portata Michel. Grazie per la pietà umana che hai davanti a tanti dolori. Grazie per la tua testimonianza, che a me fa tanto bene.
Sono vicino a te e ai tuoi compagni. Grazie per tutto quello che fate. Vorrei dirvi che sono a disposizione per dare una mano sempre. Contate su di me.
Ti auguro una santa Pasqua. Prego per voi, per favore, fatelo per me.
Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. Fraternamente,
Francesco”

Il “Michel” citato dal papa è il cardinale Michael Czerny, gesuita, sottosegretario della sezione migranti e rifugiati del dicastero vaticano per lo sviluppo umano integrale, mentre la lettera di Casarini è stata pubblicata da “Avvenire” assieme alla risposta del papa.

Ma come analizzare più a fondo questa esplicita, pubblica, quasi sfrontata esposizione politica di papa Francesco?

Il testo che segue, ricevuto in forma di lettera, è una colta risposta a questa domanda. L’autore è docente di storia contemporanea all’università di Bergamo e specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa.

*

PRIMATO DELLO SPIRITUALE O PRIMATO DELLA POLITICA?

di Roberto Pertici

Caro Magister,

la lettera di papa Francesco ai “movimenti popolari” e prima ancora il suo messaggio a Luca Casarini sono sembrati a molti la conferma del ruolo abnorme che la politica – e una politica di sinistra radicale – riveste nel suo magistero.

Anche lei ha parlato di “uno strano messaggio pasquale da parte di un papa, per una resurrezione tutta e solo politica”. Per molti aspetti è difficile darle torto: eppure si ha l’impressione che la vera novità di Francesco sia in definitiva un’altra. Cioè che egli faccia politica in modo esplicito e diretto, al di fuori delle consuete mediazioni teologiche o spirituali da lui evidentemente ritenute ormai superflue; e che la faccia con una cultura politica “periferica” rispetto alle grandi correnti della cultura contemporanea.

Lo so che può sembrare una tesi ardita, ma a ben vedere nel magistero pontificio, almeno dalla rivoluzione francese in avanti, la politica ha sempre avuto un peso altissimo, a tratti anche più del discorso meramente religioso. Certo non lo si ammetteva in passato così esplicitamente come fa oggi Francesco; certo l’argomentazione era spesso paludata in uno stile e in un tipo di argomentazione ereditati dai secoli precedenti, ma fra teologia e politica esisteva un rapporto diretto, e non è detto che fosse sempre la prima a condizionare la seconda.

Questo perché – dopo la rivoluzione – la Chiesa aveva cessato di essere il tutto, anche nelle società cattoliche europee. Era diventata una parte, anzi presto un partito: “le parti prêtre” di cui già parlavano i liberali francesi dopo il 1815. Era il tempo del “Rouge” e del “Noir”, per dirla con Stendhal, e la Chiesa era dalla parte del “Noir”.

Certo, la Chiesa aveva le sue buone ragioni. Il trauma rivoluzionario era stato immenso, aveva visto due volte soppresso il potere temporale dei papi, due volte i pontefici erano rimasti a lungo prigionieri; nel 1799, alla morte di Pio VI, in molti avevano sperato o temuto che s’interrompesse perfino la successione apostolica. Dopo il 1815, un’ansia di restaurazione spirava largamente nella società europea: la Chiesa se ne fece interprete e la promosse in un ambiguo rapporto col potere politico. Ambiguo perché nessun sovrano era veramente disposto a una restaurazione integrale della “societas christiana”, tanto che presto una serie di pensatori cattolici che l’avevano sognata cominciarono a dire: se le cose stanno così, allora è meglio che la Chiesa non si comprometta più con questi Stati, prenda il largo e cominci a pensare alla sua libertà. Ma introdurre il tema della libertà della Chiesa implicava, più o meno esplicitamente, più o meno strumentalmente, quello più ampio delle libertà “moderne”. Si aprì allora la grande stagione del cattolicesimo liberale, che con Lamennais cercò anche una sua nuova filosofia religiosa.

Da allora in poi, tutti i più interessanti movimenti culturali, teologici e filosofici di ambito cattolico sono stati intimamente “politici”: come le correnti ispirate da Vincenzo Gioberti e da Antonio Rosmini negli anni Trenta e Quaranta in Italia, e la rinascita del cattolicesimo inglese a metà dell’Ottocento. La genesi del “Sillabo” papale del 1864 non si comprende senza un altro choc, quello del 1848-49, un’altra caduta del potere temporale, con le bandiere rosse delle varie rivoluzioni europee, e con Giuseppe Mazzini a Roma a capo di una repubblica di “satanassi e massoni”, come si diceva allora. Lo aveva auspicato fin da subito Juan Donoso Cortés, che pure prima del 1848 era un cattolico liberale, ma che dopo avrebbe invece invocato nientemeno che la dittatura. Ma anche nella prima fase de “La Civiltà Cattolica”, quella degli anni Cinquanta dell’Ottocento, non prevaleva il discorso “politico”, o meglio non si sosteneva una religione che aveva una valenza esplicitamente politica?

Mezzo secolo dopo, il “modernismo” fu un movimento essenzialmente teologico e filosofico, sia pure con notevoli risvolti politici e sociali, ma certo l’antimodernismo fu anche un fatto politico. Non a caso un “ateo devoto” come Charles Maurras vi si impegnò con grande veemenza, polemizzando duramente contro Marc Sangnier e “Le Sillon” e riconoscendo sempre in Pio X il suo papa: avvertì che se saltava la diga anti-moderna costituita dalla Chiesa, il suo progetto di restaurazione politica e valoriale sarebbe stato compromesso. E nei grandi intellettuali cattolici che lo seguirono e che spesso provenivano, come Jacques Maritain, da un agnosticismo e da un laicismo ambientale da Terza Repubblica, quanto la conversione religiosa fu mossa anche da moventi politici e quanto le scelte politiche si sostanziarono di componenti religiose?

Lo stesso discorso vale per le decine di filosofi e scrittori di ogni parte d’Europa che costituiscono fra Ottocento e Novecento il cosiddetto “Renouveau catholique”, che resta l’ultimo grande movimento culturale cattolico, che sia stato capace di uscire fuori le mura. Chi può distinguere in Péguy e Bernanos, Claudel e Mauriac, Eliot e Chesterton, Graham Greene, Hilaire Belloc e Sigrid Undset, l’aspirazione di restaurazione religiosa dal progetto di una qualche restaurazione politica? E quanto nella condanna pontificia dell’”Action Française”, così lacerante nella coscienza di tanti cattolici francesi, pesò, accanto alla diffidenza per le posizioni “pagane” di Maurras, la volontà politica di Pio XI di gestire in proprio, anche politicamente, le forze cattoliche, senza appaltarle a poteri estranei: la stessa volontà che avrebbe portato agli scontri fra la Santa Sede e il regime fascista in Italia nel 1931 e nel 1938?

E a tutti è noto che è proprio dalla condanna pontificia del movimento di Maurras che nasce la lunga marcia del progressismo cattolico francese, che ha avuto un’importanza cruciale nelle vicende del cinquantennio successivo. Allora Maritain parlò di un “primato dello spirituale” da recuperare: ma dietro tali programmi “religiosi” – come dietro la famosa “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica italiana dei primi anni Settanta – stava emergendo in realtà un altro progetto politico, ben diverso da quello sostenuto precedentemente.

Caro Magister, si potrebbe continuare, ma non voglio annoiarla. A ben vedere, anche la diffusa ostilità mostrata verso Benedetto XVI da parte di larghi settori della cultura contemporanea e anche dell’establishment cattolico, è stata in primo luogo proprio politica. Poté sembrare che il suo magistero si inserisse in un clima segnato dalla decomposizione del marxismo, la fine del comunismo in Europa, la riflessione sul destino e l'identità dell'Occidente dopo l'attacco alle Torri Gemelle, la difesa e lo sviluppo della tradizione cattolica perseguiti già da Giovanni Paolo II; che potesse contribuire, insomma, al diffondersi di un nuovo “conservatorismo” filosofico-culturale, che allora sembrava potesse giocare le proprie carte. Per Henri Tincq, il vaticanista di “Le Monde” recentemente scomparso, si trattava di “una specie di glaciazione della Chiesa sul piano disciplinare, dottrinale e morale che la rendeva incapace di affrontare le vicende tumultuose del presente”. Per lui e per il suo giornale non c’erano dubbi: il centro di gravità della Chiesa si era riposizionato “a destra”.

Lei mi rimprovererà di guardare sempre e solo ai piani alti, ai dibattiti teologici e culturali. Lo ammetto: non è semplice definire la valenza politica insita nel vissuto religioso dei tanti “paysans de la Garonne” – per dirla ancora con Maritain – degli ultimi due secoli. Ma anche tra costoro, quelli che hanno scelto di restare all’interno del mondo cattolico lo hanno fatto per un intreccio di motivazioni, consce e inconsce, in cui politica e religione si corroboravano. Non dico nei contadini delle varie insorgenze otto-novecentesche, ma nel militante dei Comitati Civici nell’Italia del 1948, quanto l’appartenenza religiosa spingeva all’azione politica e quanto l’anticomunismo cementava la collocazione religiosa?

Restano da capire le ragioni di questo “primato della politica” nel discorso cattolico degli ultimi due secoli. Innanzitutto perché la “novella istoria” nata dalla rivoluzione francese poneva alla Chiesa nuovi interrogativi di natura eminentemente politica: quale atteggiamento assumere di fronte allo Stato costituzionale, alle libertà moderne, agli effetti della rivoluzione industriale, alla fine della società contadina, alla lotta di classe, al socialismo e al comunismo, alla scomparsa degli imperi, al formarsi degli Stati nazionali, ai nuovi e terribili conflitti che si aprivano fra loro, alle inedite forme di potere come i totalitarismi novecenteschi, alla fine della centralità europea, al processo di decolonizzazione, all’emergere del Terzo Mondo? E si potrebbe continuare.

Ma c’è qualcosa di meno scontato e di più profondo. E qui torna in ballo quel famoso processo di secolarizzazione, l’avvento di quell’“età secolare”, su cui mi è capitato spesso di parlare nei miei interventi ospitati da Settimo Cielo.

Si può dire che la tarda modernità abbia suscitato un intenso processo di politicizzazione delle società contemporanee e, nel contempo, una loro “de-spiritualizzazione”. Un grande e laicissimo storico italiano come Rosario Romeo diceva spesso che negli ultimi due secoli si era venuta affermando un’etica nuova che aveva sostituito la “vecchia morale cattolica”, quella basata sul peccato personale, l’inferno, il paradiso, ecc. Tale trapasso era confermato – secondo lui – dal “posto sempre più ampio [che nella società contemporanea] occupavano i valori politici”. Per cui gli uomini e le donne della tarda modernità si guardano perplessi quando sentono parlare della Chiesa come “corpo mistico di Cristo”, ma la capiscono benissimo quando si muove come un’agenzia etica o etico-politica.

La “svolta antropologica” di una parte consistente del cattolicesimo contemporaneo ha preso atto di questo processo, con la motivazione che accettarlo era l’unico modo per ritrovare uno spazio di rinnovata presenza cristiana. Ecco perché Francesco propone “una resurrezione tutta e solo politica” – per dirla con le sue parole a commento della lettera pasquale del papa ai “movimenti popolari” – e parla tanto spesso di ecologia o di Terzo Mondo. Ma credo che una tensione politica di segno opposto sia presente anche in molti degli avversari di Francesco interni alla Chiesa e che anche in loro il richiamarsi a un “primato dello spirituale” coincida con una politica diversa.

Il fatto è che la secolarizzazione – come avvertì Benedetto XVI a Verona il 19 ottobre 2006 – non si è svolta solo nel mondo in cui la Chiesa è inserita e si muove, ma ha investito la Chiesa stessa. “Impariamo – disse – a resistere a quella ‘secolarizzazione interna’ che insidia la Chiesa nel nostro tempo, in conseguenza dei processi di secolarizzazione che hanno profondamente segnato la civiltà europea”.

Di tale “secolarizzazione interna” alla Chiesa, il “primato della politica”, nelle varie e contrastanti forme del suo discorso pubblico, è una delle manifestazioni più eclatanti.
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Giovanni Formicola, 15-4-20

A Pasqua Jorge Mario Bergoglio ha inviato una lettera ai cosiddetti – meglio, sedicenti – Movimenti Popolari, che io ritengo la sentina in cui confluiscono tutti i liquami ideologici della peggiore modernità, dal comunismo vecchio stile, al radicalismo di massa, fino all’idolatria ecologista della madre-terra e al migrantismo sovversivo.

Jorge Mario Bergoglio non ha mai dato confidenza a chi si batte per il diritto alla vita, contro la nobilitazione (come diceva il compiantissimo card. Caffarra, un altro cui non ha voluto dare confidenza) e l’istituzionalizzazione della relazione omoerotica e l’indottrinamento di stato LGBT e gender. Confidenza che invece non ha lesinato, anzi, a questa gente, come emerge con assoluta chiarezza dall’insuperata sintesi di Sandro Magister, cui rimando.

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/12/03/un-papa-col-%e2%80%9cmito%e2%80%9d-del-popolo/

 E così, nel giorno di Pasqua, ha scritto a questi suoi  ” cari amici”, proponendo per l’ennesima volta un comune progetto di sviluppo umano integrale, basato sulle tre “T” (tali in spagnolo),  “terra, casa e lavoro” [ Tierra, techo, trabajo]. Ai fini di tale “sviluppo umano integrale”, evidentemente, Dio, Gesù Cristo – nemmeno nel giorno in cui si ricorda l’affermazione totale della sua divinità – e la Chiesa non hanno alcuna parte. Anche perché se li nominasse come costitutivi del loro orizzonte “movimentato”, forse la cara amicizia che li lega si dissolverebbe immediatamente.

Stavolta, però, si spinge oltre le tre “T”. E quel che colpisce, ancora una volta, è il  pathos che sostiene il suo dire, il suo scrivere.  Pathos che a mio avviso non è dato rinvenire quando si rivolge a ben altri consessi e tratta temi seri.

Il suo sguardo muove dalla pandemia in atto – che sembra preoccuparlo molto di più della devastante crisi di fede che intronizza ogni giorno di più l’abominio della desolazione nel nostro mondo, e finanche nel tempio. Essa è naturalmente da combattere. E allora, se vale la metafora guerriera in voga, “è una guerra, quella contro il COVID 19”, scrive ai suoi  queridos amigos che  “sono loro un vero esercito invisibile che combatte nelle trincee più pericolose” (l’avesse detto mezza volta ai militanti per la vita e a quelli per la civiltà cristiana). Naturalmente, un esercito armato solo di  “solidarietà, speranza e senso della comunità”. Sono  “poeti sociali”, che tuttavia  “pretenden superar la mera filantropía a través la organización comunitaria o reclamar por sus derechos en vez de quedarse resignados esperando a ver si cae alguna migaja de los que detentan el poder económico”. “Pretendono di superare la mera filantropia mediante l’organizzazione comunitaria, o rivendicare i propri diritti invece di starsene quieti, rassegnati, sperando (ma anche “aspettando”) di vedere se cade qualche briciola da coloro che detengono il potere economico”. Ho trascritto anche il testo originale spagnolo, affinché si possa verificare se la mia traduzione forza i concetti. Perché la cosa è davvero inquietante. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la letteratura comunista (non è un refuso, comunista, non anti-comunista), vi riconosce agevolmente il preoccupato “terrore” che attanagliava già Marx ed Engels per un miglioramento “filantropico” delle condizioni del proletariato, che ne avrebbe smorzato la  vis rivoluzionaria – perché solo al tal fine si occupavano dei “poveri”, che erano un pretesto, un po’ come per Giuda davanti allo spreco dell’olio prezioso sul corpo di Gesù (Gv 12,3-6). Vi riconosce il lemma “diritti” per la pretesa d’impossessarsi di ciò ch’è altrui abolendo la proprietà privata e sovvertendo l’ordine socio-economico. Vi riconosce il primato dell’organizzazione rivoluzionaria, che eccita invidia e rabbia sociali e prepara il clima di “lotta di classe continua”, rispetto a tutto ciò che possa attenuare situazioni di disagio, ed anche di sempre possibili ingiustizie (non a caso grida davanti a Dio, come quello di sodomia, il peccato di defraudare del salario il dipendente), in funzione della pace sociale, che qui, come nel più puro linguaggio rivoluzionario marx-leninista, viene detta “rassegnazione”.

Poi, la lettera, invita a realizzare un nuovo ordine, dove tanto il mercato che lo stato siano sostituiti da una sorta di socialismo autogestionario (non dice il nome, ma la cosa), incentrato su  “le persone, le comunità, i popoli”, che altro non sembra essere che la prospettiva finale del comunismo di Marx, Engels e Lenin, cioè l’estinzione per deperimento dello stato (il mercato è maledetto fin dal principio), da sostituire appunto con una gestione cooperativa della vita sociale ed economica.

Naturalmente, sono suoi  queridos amigos, perché producono alimenti senza  “distruggere la natura” [ sic!!!] e non  “godono di piaceri superficiali che anestetizzano tante coscienze”. Come a dire, gli effetti del peccato originale abitano altrove, a casa dei ricchi, dei potenti, magari dei reazionari che non amano, anzi combattono [ quorum ego], i Movimenti Popolari, i cui componenti vengono narrati esenti da ogni difetto e vizio, un po’ come gli autoctoni amazzonici.

Li incita, poi, a proseguire nella loro lotta – contro la quale ogni uomo dabbene dovrebbe schierarsi -, e propone addirittura che sia attribuito loro un  “un salario universal que reconozca y dignifique las nobles e insustituibles tareas que realizan”. E qui mi rifiuto di tradurre.

Qualcuno potrebbe pensare che Jorge Mario Bergoglio si proponga come  leader morale di un movimento rivoluzionario mondiale. Speriamo si sbagli. Perché sarebbe un tantinello pericoloso per l’ordine e la pace sociali, che in fondo sono le due facce della stessa medaglia del bene comune.

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