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domenica 2 agosto 2009

Caritas in veritate. La dottrina sociale della Chiesa contro la tecnocrazia / 5

Quinta - e penultima - parte del commento di Massimo Introvigne all'enciclica "Caritas in veritate" (cfr. puntate precedenti: 1, 2, 3, 4 ):

4. La dottrina socio-economica della Chiesa oggi

d. Mercato e finanza, fra luci e ombre

«All'elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell'economia. Ne abbiamo una prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo» (ibid., n. 34). Ne sono nati sia i «sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano» (ibidem) – il Papa cita la sua enciclica Spe salvi, dove analizza in profondità il comunismo – sia l’attuale crisi economica.
Tuttavia il peccato non compromette l’economia in sé, né il mercato. «La Chiesa ritiene da sempre che l'agire economico non sia da considerare antisociale. […] La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell'uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale» (ibid., n. 36).
La finanza è di per sé uno strumento a sua volta legittimo, «f
inalizzato alla miglior produzione di ricchezza ed allo sviluppo» (ibid., n. 65). «Dopo il suo cattivo utilizzo che ha danneggiato l'economia reale» (ibidem), la finanza deve tornare a operare «al sostegno di un vero sviluppo» (ibidem). «Gli operatori della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni risultati sono compatibili e non devono mai essere disgiunti» (ibidem).
Dunque il mercato e anche la finanza sono «strumenti di per sé buoni» che le conseguenze del peccato originale trasformano in «strumenti dannosi». Come rimontare rispetto a queste conseguenze del peccato? Come tornare alla prospettiva dello sviluppo integrale? Il mercato, per funzionare, non ha bisogno soltanto di regolari scambi di beni, ma di fiducia. «Il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave» (ibid., n. 35).

e. Una soluzione: dare spazio alla «logica del dono»

La domanda, quindi si sposta: come ristabilire la fiducia? La prospettiva assistenzialista che propone di «correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza» (ibidem) non è sufficiente. Tradizionalmente la morale cattolica distingue la giustizia in commutativa (che «regola appunto i rapporti del dare e ricevere tra soggetti paritetici»: ibidem), distributiva e sociale. Una visione tradizionale vedeva queste forme di giustizia come operanti in fasi diverse di una sequenza cronologica: «un tempo era pensabile affidare dapprima all’economia la produzione di ricchezza per affidare poi alla politica il compito di distribuirla» (ibid., n. 37). Di fronte all’enorme complessità dell’economia dei nostri giorni questo schema non può più funzionare. «I canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente» (ibidem).
Anche l’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II, del 1991, secondo Benedetto XVI si riferisce in parte a un’economia che dopo vent’anni è cambiata. Giovanni Paolo II distingueva tre soggetti dell’economia – il mercato, lo Stato e la società civile – e vedeva nella società civile «l’ambito più proprio di un’economia della gratuità» (ibid., n. 38), mentre la solidarietà era in buona parte «delegata allo Stato» (ibidem). Premesso che in campo economico a rigore «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire» (ibid., n. 9) e affida l’applicazione dei principi alla creatività e alla competenza dei laici cattolici, Benedetto XVI prospetta una soluzione originale: la riscoperta della categoria del dono. «La logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento dall’esterno» (ibid., n. 34). Quello che il Papa prospetta è un sistema dove «soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico» (ibid., n. 37) – spesso mossi da motivazioni religiose – non si sostituiscano alle imprese che operano a fini di lucro, di cui l’enciclica non auspica in nessun modo la sparizione, né allo Stato, che mantiene il suo ruolo di dettare regole e leggi, ma portino lo «spirito del dono» (ibidem) in tutte le fasi del processo economico.
In verità, la crisi economica sembra insegnare che «mentre ieri si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all'impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d'impresa e dunque un'attenzione sensibile alla civilizzazione dell'economia. Carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso» (ibid., n. 38).
Il rischio, nota Benedetto XVI, è che Stato e «logica mercantile» (ibid., n. 36) – cioè quella logica del mercato che è restia ad aprirsi all’etica – quasi si mettano d’accordo fra loro per escludere questo terzo tipo di attore dall’avventura dell’economia contemporanea. «Quando la logica del mercato e quella dello Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la partecipazione e l'adesione, l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al “dare per avere”, proprio della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato» (ibid., n. 39). Certo, «il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco» (ibidem) e hanno il dovere almeno di non ostacolarle. Anche il fisco potrebbe fare la sua parte con «l’applicazione efficace della cosiddetta sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle loro imposte versate allo Stato. Evitando degenerazioni particolaristiche, ciò può essere di aiuto per incentivare forme di solidarietà sociale dal basso, con ovvi benefici anche sul versante della solidarietà per lo sviluppo» (ibid., n. 60).
In questa originale prospettiva delineata da Benedetto XVI la distinzione fra impresa profit e non profit non è rigida, anzi può darsi che oggi «non sia più in grado di dar conto completo della realtà» (ibid., n. 46). Possono esserci casi d’imprese miste (che, per esempio, operano in una logica di profitto ma ne destinano quote importanti a fini sociali), o di fondazioni o gruppi d’imprese disposte a «concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società» (ibidem). E sarebbe un fatto positivo «lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo» (ibid., n. 41).

f. Etica dell’impresa, etica per l’impresa

Naturalmente, non è solo dai soggetti totalmente o parzialmente non profit che può attendersi un serio orientamento dell’economia allo sviluppo integrale e un’uscita dalla crisi. Dalla disciplina accademica in notevole sviluppo della business ethics Benedetto XVI riprende (pur senza usare questa terminologia) la distinzione nell’impresa a fini di lucro fra shareholder, «azionista», e stakeholder, soggetto che pur non essendo azionista è portatore di un interesse (stake) rispetto all’attività dell’impresa: «portatori di interessi quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante» (ibid., n. 40). «Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi» (ibidem). Il principio morale, però – del resto rispettato da molti manager capaci di una «analisi lungimirante» (ibidem), che il Papa valorizza con il richiamo a suoi precedenti interventi che invitano l’economia a privilegiare la programmazione a lungo termine rispetto alla smania di profitto a breve termine, così che sarebbe ingiusto generalizzare –, è che «la gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento» (ibidem). Mandare alla rovina i fornitori pagandoli con ritardi tali da farli fallire per accrescere i guadagni degli azionisti, per esempio, non è accettabile dal punto di vista etico.
Peraltro, le conclusioni della moderna
business ethics «non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa» (ibidem). Anzi, «si nota un certo abuso dell'aggettivo “etico” che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo. Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento» (ibid., n. 45). Spesso sono presentati come prodotti «etici» quelli di aziende o organismi che fanno qualche offerta per la fame nel mondo ma poi propagandano la contraccezione o l’aborto. L’etichettatura di certi prodotti come «etici» è talora a sua volta ingannevole, e ben poco etica. «Bisogna, poi, non ricorrere alla parola “etica” in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi — l'osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti “etici” dell'economia o della finanza, ma perché l'intera economia e l'intera finanza siano etiche e lo siano non per un'etichettatura dall'esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura» (ibidem).
Simili ambiguità si annidano nelle associazioni dei consumatori, «fenomeno da approfondire, che contiene elementi positivi da incentivare e anche eccessi da evitare» (
ibid., n. 66). Può capitare infatti che i consumatori «vengano manipolati essi stessi da associazioni non veramente rappresentative» (ibidem).

(continua)


Fonte: Cesnur

1 commento:

  1. Analisi molto interessante. Grazie a Massimo Introvigne per il suo prezioso lavoro.

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