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domenica 5 marzo 2023

Giovanni Formicola, "La proprietà privata, lo Stato centralista e la carità politica"

Un'approfondita analisi dell'amico Giovanni Formicola sulla proprietà privata.
Luigi

Veritatis Diaconia n. 17 (2023)

In linea di principio, il diritto di e alla proprietà privata è un diritto naturale[1]. E qualunque filosofo o scienziato del diritto, anche chi giunga a negare il diritto naturale ritenendo diritto solo quello positivo, giudicherebbe risibile la distinzione tra diritti naturali primari e secondari: un diritto di natura è di natura e basta. Cioè, non è concesso da alcuno (il concedente può sempre revocare la concessione), ma fondato sull’ordine stesso delle cose create, e va perciò riconosciuto appartenente all’uomo in quanto tale, in forza della stessa natura umana. Ad esso è correlato il diritto d’intrapresa economica – senza, verrebbe otturato, per così dire, cioè non avrebbe modo d’esercitarsi, se non nel consumo –, che consente di trarre profitto dall’imprenditoria e dall’investimento di capitali – che possono consistere anche in una conoscenza, il famoso know how –, senza apparentemente «lavorare» (si pensi a chi riscuote il canone d’un affitto o le c.d. royalties su un marchio, sull’uso d’un opera dell’ingegno, a chi gode di una rendita fondiaria, etc.).

          Ma nessun diritto dell’uomo è, in senso proprio, assoluto.

Assoluto è solo Dio, e quindi i suoi diritti. Per capirci: il diritto di Dio ad essere adorato e rispettato dalla creatura ragionevole non è in nessun modo limitato, non è derogabile, non è prescrittibile, non è condizionato. Ogni diritto umano, invece, persino quello alla vita, in quanto mezzo e non fine, tollera di essere, in misura minore o maggiore, «relativizzato» e derogato.

Anzitutto da doveri supremi.

Così il diritto di proprietà trova un suo limite nel dovere di pagare i debiti, per cui l’obbligato può subire espropriazione; ovvero nel dovere di concorrere a spese pubbliche assolutamente indispensabili, anche straordinarie, come in tempo di guerra, per la tutela della collettività, quindi anche del proprietario che contribuisce con il suo danaro. Il diritto di proprietà – e tutti quelli che ne derivano – è limitato inoltre da stati di necessità di varia specie (per sfuggire ad un pericolo mortale o comunque grave, come extrema ratio, è lecito appropriarsi di cosa altrui, violare confini, etc.).

Persino al diritto alla vita talvolta è doveroso rinunciare, o si può legittimamente privarne taluno. Esso, infatti, non consente moralmente, a chi venisse minacciato di morte se non bestemmi, se non abiuri la vera religione o comunque la religione in cui sinceramente e in modo innocente crede, di fare queste cose per conservare la propria vita – altrimenti il martire che accetta la morte violenta, nonché santo, sarebbe colpevole. Oppure, non impedisce di sacrificarla per una giusta causa, non diversamente perseguibile e non temerariamente perseguita. Così, infine, il diritto alla vita dell’ingiusto aggressore è limitato, e talvolta se ne viene giustamente privati per la gravità dell’aggressione a beni di altissimo valore, come la stessa vita, da quello di chi – individuo, o società con la pena di morte – si difende dall’ingiusta aggressione, come avviene a quello del soldato per il fatto stesso di essere coinvolto nella guerra.

          L’esercizio del diritto naturale alla e di proprietà privata si colloca più in generale all’ombra del principio (non diritto, e che non fonda alcun diritto specifico) dell’universale destinazione dei beni materiali. Il creato è per tutti gli uomini, non solo per alcuni. Meglio ancora: nessun bene è ab initio destinato ad alcuno, non v’è un destino manifesto in forza del quale una cosa sia mia e non di altri.

Ma la dimensione dell’uomo è limitata, individuale e corporea. Non s’incontra, infatti, un’indistinta umanità, che nell’insieme possa fruire dei beni materiali, bensì s’ha a che fare solo con singoli individui, ben delimitati nello spazio e nel tempo, che hanno qui e ora le proprie esigenze vitali, che non possono essere soddisfatte una volta per tutte (la fame torna), ma si rinnovano, ed in qualche caso aumentano costantemente. Pertanto, non si può pensare che «altrove», nel tempo e/o nello spazio, sia la loro «porzione» d’universo. Per effetto di tale dimensione, di tale natura, il modo migliore – anzi il modo – per attuare l’universale destinazione dei beni è l’appropriazione individuale. E poiché quasi sempre i beni che servono all’uomo (dall’abitazione all’abito, dagli alimenti e le cure agli strumenti di difesa, quanto meno da un mondo ostile – si pensi ai virus, al clima, agli altri animali) non si trovano in natura, egli deve pensare anche ai mezzi per produrli, per soddisfare in modo tendenzialmente stabile e permanente le proprie esigenze. E poiché, ancora, l’uomo ha coscienza della propria discendenza, ed affetto per essa, è capace anche di pensare a dotarla in modo altrettanto stabile e permanente di tali mezzi e di tali beni, costituendo un patrimonio familiare, risultato del proprio sforzo e del proprio risparmio, che è giusto trasmettere per via ereditaria al frutto del proprio seme, che è una sorta di continuazione di sé[2].

Ecco il fondamento naturale

- del diritto di proprietà privata, non solo dei beni di consumo, ma anche di quelli destinati a produrli (strumenti di produzione), come di quelli necessari a produrre gli stessi strumenti di produzione (il capitale è lavoro consolidato che continua a «lavorare»), e comunque di beni stabili come la terra (che a sua volta produce), e la casa;

- del diritto d’intrapresa per accrescere il proprio patrimonio, degli uni e degli altri beni, sia per soddisfare in via permanente le esigenze primarie, sia per soddisfare altre e superiori esigenze, anch’esse umane, che vanno oltre quelle di sopravvivenza, tra le quali sono annoverabili il desiderio di accrescere le proprie conoscenze, il desiderio d’emanciparsi dal lavoro per dedicarsi all’otium, cioè alla coltivazione di sé, che è la cultura, o a quell’attività sovranamente «inutile» che è il culto, ed anche il legittimo desiderio di una vita più confortevole, etc.;

 - del diritto alla trasmissione ereditaria, e quindi all’eredità, che non è mai qualificabile come ricezione parassitaria, se non giudicando tutti gli uomini parassiti, perché non v’è uomo che non sia erede, e perché essa importa la responsabilità in capo all’e-rede – debitore del proprio de cuius – di conservare e se del caso accrescere per trasmettere a sua volta, sia in termini materiali, che morali e spirituali, quel che ha ricevuto, per saldare il suo debito per interposto e proprio erede.

          Emerge così che per sé stesso il diritto di proprietà svolge una funzione sociale. Rende pacifico il possesso; libero l’accesso ad esso facilitandone l’acquisto e l’acquisizione, nel senso che non lo concentra nelle mani d’un’unica entità dotata d’autorità; salvaguarda la libertà e l’indipendenza; favorisce la fecondità, la conservazione, e la non dissipazione con il mero ed irresponsabile frenetico consumo, dei beni (l’occhio del padrone ingrassa il cavallo), facilitandone l’amministrazione in quanto parcellizzata, e la redditività, e dunque l’incremento, a vantaggio di tutti per definizione. D’altra parte, la legge intrinseca dell’economia è che i ricavi devono superare i costi, altrimenti anche i beni strumentali si esauriscono – dal seme ad ogni altra sorta di capitale, materiale e monetario. Il rispetto di questa legge è facilitato dall’uso privato dei beni, che consente, anzi impone, un conto economico razionale, cioè un’attenzione ai costi e ai ricavi. Il che porta come detto anche una sana e legittima prosperità – sempre nei limiti dell’umana condizione –, ch’è tutt’altro che un male come pretende la concezione sociale pauperistica (la scelta individuale di povertà è tutt’altra e lodevole cosa). Prosperità che manca per definizione (e per esperienza) nei luoghi e nei tempi di negazione o forte limitazione della proprietà privata, della libertà d’impresa, e in cui vige una fiscalità esasperata a scopi perequativi.

          È per questa sua funzione sociale così benefica, che il diritto di proprietà è protetto da ben due articoli del decalogo.

Detto pur faticosamente questo, va osservato che l’esperienza ha sufficientemente dimostrato, confermando la teoria, che perché i beni siano il più possibile fruiti da tutti (in tutte le loro dimensioni, persino quelle estetiche, si pensi ad un bel palazzo che rende più gradevole l’ambiente urbano), la via migliore – che non vuol dire la via perfetta – è quella del riconoscimento pieno – che non vuol dire illimitato – del diritto di proprietà e della libera iniziativa economica. Naturalmente SEMPRE l’esercizio di tali diritti ha comportato abusi ed ingiustizie, talvolta anche gravissimi. Ma questi dipendono più dal cuore dell’uomo che dall’istituto in quanto tale. La colpa è del proprietario, non del diritto di proprietà. Prova ne sia il fatto che, ogni qualvolta si è provato a limitare gravemente se non ad abolire la proprietà privata e la libertà d’impresa, nonché meglio distribuire i beni del mondo e rendere migliore la vita, si è creata solo povertà, e persino bruttezza (basti pensare all’edilizia pubblica). E ciò non solo nei luoghi del socialismo reale, cioè del sistema che nella sua storia di fenomeno mondiale un giorno si è proposto sintetizzando il proprio programma nella formula «abolizione della proprietà privata»[3].

          Il che non significa ovviamente che il «liberismo» – inteso, negativamente, nel senso di ideologia che considera come «fine» la proprietà e la libertà dell’impresa, anche se questo non è mai stato in verità teorizzato da nessuno, perciò le virgolette – sia invece la ricetta perfetta, come s’è appena detto, che preserva dal male.

Anzitutto, perché la proprietà (rectius: la tutela e la libertà della) non è «fine» della vita sociale, che ha invece come scopo il bene comune. E cioè la tutela e la promozione delle condizioni perché ogni uomo ed ogni legittimo gruppo sociale possano esistere e perseguire il proprio reale, non preteso tale soggettivisticamente, perfezionamento materiale e spirituale, quindi anche soprannaturale, il che rende il bene oggettivo e qualificato nel contenuto, non meramente formale. Del bene comune sono perciò parte (e non lo esauriscono) il diritto di proprietà privata e quelli ad esso correlati.

E poi perché ogni libertà assoluta – se per «liberismo» si vuole intendere questo – è di per sé contraddittoria, perché l’espansione illimitata della propria libertà non può che coincidere – in una realtà finita qual è quella umana – con la compressione d’un’altrui libertà.

Ma anche questo «liberismo» starebbe comunque al bene comune/diritto e realtà della proprietà, come la ferita sta alla vita corporale: guasta, ma non sopprime. Il socialismo, invece, in ogni sua forma, anche in quella non brutalmente tirannica e totalitaria, è in un rapporto analogo a quello della morte: sopprime. Per cui il regime di proprietà, vigente nel «liberismo» nella sua accezione illimitata, è riformabile; mentre non si può riformare ciò ch’è stato cancellato. E la negazione di un diritto naturale, essendo «contro natura», realizza nonché il bene comune, il male comune, cioè contraddice lo scopo della società civile, altera la convivenza umana fino a farne condizione non di umanizzazione – perfezionamento possibile dell’umano secondo la propria natura e vocazione –, ma di deperimento di esso fino all’imbestiamento, all’inselvatichimento.

          Si deve poi, di nuovo, considerare che la proprietà ed il diritto d’intraprendere sono presidio materiale di libertà ed indipendenza, tanto che il rivoluzionario bolscevico russo Trockij (Lev Davidovič Bronštejn, 1879-1940) disse (soddisfatto) che dove l’unico proprietario dei mezzi di produzione è lo stato, al vecchio detto «chi non lavora non mangia», si sostituisce il nuovo «chi non obbedisce non mangia». È non è chi non veda l’ulteriore male sociale che questa condizione comporta. Inoltre, senza una sia pur minima base patrimoniale (che può essere costituita anche dalla capacità/possesso di un «mestiere»: métier vaut baronnie), non può esserci famiglia nel senso forte, cioè che duri al di là della singola generazione, come autentico coesivo sociale e nazionale: si può dire che il patrimonio sta alla famiglia, come il territorio alla nazione e alla patria. 

          Ma ho detto che l’esercizio del diritto di proprietà può causare (ed in concreto ha causato e causa) ingiustizie e soprusi anche molto gravi e radicati. Questo è uno (uno) degli aspetti della «questione sociale», che comunque non è esaurita dalla sua dimensione socio-economica. Essa in realtà s’identifica con ogni difficoltà nei rapporti di convivenza fra gli uomini. È «questione sociale», per esempio, anche la crisi della religiosità, della famiglia, della moralità pubblica, dell’educazione, dell’autorità, e così via. Le sue radici autentiche sono nel peccato originale, cioè nella fatica per l’uomo di essere giusto e virtuoso: è uno dei modi di manifestarsi del male nel mondo. In radice, essa è ineliminabile; è solo arginabile.

Ebbene, sia certo «liberismo» (illimitato) che il socialismo sono due risposte sbagliate alla parte della «questione sociale» che concerne il diritto di proprietà e d’iniziativa economica. Il primo per risolverla vuole «liberare» l’esercizio del diritto di proprietà e d’intrapresa dai vincoli che la morale e l’ordinamento corporativo e municipale gl’imporrebbero e gl’imponevano, affidandosi integralmente al mercato, inteso in modo superstizioso come «mano magica», sebbene esso sia certo istituzione benefica. Il socialismo, nella sua versione comunista, pensa di eliminare il male eliminandone la causa/proprietà e la causa/profitto; ed in quella «democratica» si propone di risolvere la questione restringendo, mediante il dirigismo statale, la libertà d’esercizio del diritto di proprietà e d’impresa fin quasi a soffocarla. Entrambe le versioni si affidano, in modo fideistico, alla «mano magica» dello stato e dei pubblici poteri.

Ma mentre la prima risposta (o il primo errore) sta dalla parte, per così dire, della vita, nel senso che lascia in vita un diritto naturale, ancorché «troppo» in vita (si può dire che pecchi per «eccesso di vita»), l’altra sta dalla parte della morte, nel senso che uccide – o riduce in stato comatoso – il diritto (naturale) di proprietà primaria e di libera iniziativa economica.

          Venendo ora (era ora!, dirai) al tema del tuo quesito, lo stato interventista (risposta socialdemocratica, new deal rooseveltiano, solidarismo «cattolico democratico») pretende di sanare le ingiustizie sociali lasciando teoricamente in vita il diritto di proprietà, ma attribuendosi la funzione di principale, se non unico, distributore della ricchezza che ne deriva, quando non direttamente quella d’imprenditore. La solidarietà economica, da virtù soggettiva, viene oggettivata in un sistema in cui domini la pretesa di stabilire chi ha troppo, di toglierli coattivamente quello che con la medesima pretesa venga individuato come superfluo, e distribuirlo a chi, sempre con quella pretesa di superiore capacità di discernimento, venga designato come bisognoso. Insomma, se qualcuno ha legittimamente due case, e altri nessuna, dovrebbe intervenire un’autorità che faccia legalmente quello che fatto dal singolo sarebbe illegale: espropriare la casa «superflua» e assegnarla a chi non ne possegga alcuna. Questo modello due secoli fa poteva forse illudere qualche stupidone – e ce ne dovevano essere tanti, atteso il numero di sostenitori, quasi sempre violenti, che le varie prospettive socialiste hanno trovato –, ma oggi, dopo che ne sono state abbondantemente sperimentate le gravi distorsioni e soprattutto la miseria che sempre, dovunque sia stato applicato, ha generato, sembra davvero impossibile che trovi ancora appassionati fedeli. Ma purtroppo la storia è sì magistra vitae, ma non sembra trovare discepoli diligenti, neppure ai più alti sogli.

La politica interventista, dunque, per la sua matrice egualitaria, si propone una finalità perequativa, sottraendo ai «ricchi» proprietari, mediante una fiscalità ferocemente progressiva, per distribuire ai «poveri» in termini di servizi (assistenza sanitaria, trasporti, istruzione gratuiti o semi gratuiti), beni (edilizia popolare gratuita o semi gratuita), danaro (pensioni, assegni di mantenimento per disoccupati, assunzioni eccessive – e clientelari – nella P.A. o nelle aziende di stato, fino al vero e proprio abuso elargitivo detto reddito di cittadinanza, vera e propria esortazione alla neghittosa e parassita nullafacenza[4]).

Così, da un lato, si scoraggia l’iniziativa privata (conviene correre il rischio d’impresa, patire la fatica e la precarietà del commercio, reggere l’impegno d’una professione, per poi poter godere solo di una minima parte, in taluni casi si giunge al venti, massimo trenta per cento, di quanto ricavato; o conviene farsi assistere?), e si «svuota» il diritto di proprietà. Lo stato – che giustifica la teoria del proprio primato siccome non «egoista», come invece sarebbe per definizione il privato, e che pensa, mediante la pianificazione, di organizzare meglio, e quindi «razionalizzare», quello che, se affidato alle scelte imprevedibili ed «irrazionali» dei singoli o dei gruppi particolari, sarebbe abbandonato al caso ed al caos, oltreché all'ingiustizia – pretende anche di aver l’ultima parola molto spesso anche sull’uso della proprietà e sui diritti che essa implica (p. es., ius aedificandi, ius locandi), nonché si riserva una quota, spesso la maggiore, dell’eredità, reputando che questa, per il beneficiario, sia una forma d’arricchimento parassitaria.

Dall’altro, si costruisce per svolgere questa funzione un apparato burocratico mastodontico e – questo sì – alla lunga parassitario. Esso è soprattutto onerosissimo, esige sempre più danaro per mantenersi e da distribuire, danaro che viene «spremuto» attraverso la leva fiscale. Questa esercita una pressione tale, che finisce per incrinare il patto di solidarietà tra la società e lo stato, sempre più nelle vesti dello «sceriffo di Nottingham», ed induce la prima, per l’esagerazione della pretesa, a rifugiarsi nell’illegalità, che da amministrativa e fiscale facilmente trascorre in criminale, per il principio d’inerzia: una volta violata la legge, si è più propensi a continuare a violarla anche in relazione a precetti più gravi ed in relazioni a interessi maggiori.

Tra i principali effetti dell’elefantiasi dell’apparato burocratico, vi è il suo autoalimentarsi. Più è grande, più ha bisogno per sostenersi di drenare ricchezza da chi la produce. Più cresce la sua pretesa, più cresce la riottosità sociale a soddisfarla. Quest’ultima fa aumentare viepiù la necessità di un controllo pervasivo. Così, a tale scopo, s’incrementa ulteriormente l’esigenza di funzionari, agenti ed impiegati di stato, cioè di un apparato di controllo e repressione, che gonfia a dismisura la necessità di risorse per retribuirli (risorse sottratte alla produzione di beni reali). E così, in una spirale che sembra inarrestabile.

Questa spirale, che ha effetti di demoralizzazione sociale e – sul piano economico – inflazionistici (pochi beni reali, molto circolante, che quindi perde valore), non soffoca immediatamente l’economia come nel socialismo reale solo perché il controllo non è totalitario. Parte della società riesce – purtroppo, come si è detto, rifugiandosi nell’illegalità (e talvolta per pura esigenza di sopravvivenza), costituendo la cosiddetta «economia sommersa» – a sottrarsi all’eccesso di pressione fiscale, e perciò contribuisce a produrre beni reali che consentono appunto all’economia di reggere. È così la mancata applicazione integrale del sistema dello stato sociale (oltreché l’enfiagione abnorme del debito pubblico, cioè il riversare i suoi costi spropositati sulle future generazioni), che gli consente qualche apparente successo. Ma i nodi delle pensioni d’anzianità (tanto per fare un esempio), pagate con la «persecuzione fiscale» nei confronti di chi produce, prima o poi vengono al pettine. E poi lo sviluppo viene certamente tarpato.

Lo stato interventista, dunque, «funziona» o grazie al debito pubblico o grazie alle sue disfunzioni, che però generano ingiustizia ed illegalità.

Dirai, però, che nei paesi scandinavi...

Nei paesi scandinavi la società è morta e demoralizzata. La popolazione è ridotta rispetto alla vastità del territorio, che è ricco di materie prime, che consentono allo stato capitalista/interventista di avere una fonte primaria di ricchezza: ma comunque anche da lì, chi può se ne va, e chi non può, spesso s’ubriaca, si droga e s’ammazza.

Rimane il problema di come realizzare il principio – vero – per il quale la proprietà non è un fine, ma un mezzo, e non può essere impiegata contro il bene comune (fermo restando che non esiste, se non nei sogni dell’«utopia scientifica», cioè dell’ideologia, «la» soluzione).

Ti propongo due modelli, uno di carattere giuridico, l’altro di carattere morale.

          Il primo fonda la solidarietà – destinazione universale dei beni – sulla sussidiarietà – diritto dei privati anche ad arricchirsi. PRIMA la produzione, POI la distribuzione; PRIMA il giardino e le piante, POI il giardiniere.

Cioè: tanta libertà quanta è possibile, tanto stato quanto è necessario. Il che significa che non si punta all’uguaglianza sociale, ma all’autosufficienza, salvo un intervento dall’alto di solidarietà con chi proprio non ce la faccia, ma non che finga di non farcela, ovvero non ce la faccia perché vizioso (a cominciare dalla pigrizia, fino a tutti gli altri vizi che affliggono e devastano l’umana natura post peccatum). Intervento che però vede nello stato (pubblici poteri) l’ULTIMA istanza, preceduta dalla famiglia, dai corpi intermedi, da ogni altro organismo che la società sappia esprimere nell’esercizio della propria soggettività.

Questo significa, ancora, che lo stato deve fidarsi della società che organizza, e non pensare che un burocrate sappia amministrare la ricchezza meglio di chi la produce (tra l’altro l’amministrazione dell’altrui ricchezza è una fonte inesauribile di dissipazione, ma anche di tentazione: la quantità enorme di danaro da gestire a disposizione della P.A. è stata una delle vere cause di Tangentopoli). Basti pensare alla diversa condizione finanziaria delle Casse di previdenza private (ordini professionali, p. es.), rispetto a quelle pubbliche (INPS). 

Quindi, piuttosto che sottrarre danaro ai privati con il fisco, pretendendo di saperli spendere meglio, perché li spenderebbe non «egoisticamente» ma solidaristicamente (rectius, collettivisticamente), lo stato farebbe meglio a lasciargliene quanto più è possibile, perché possano provvedere da sé a sé stessi, e di riflesso anche agli altri, se non altro creando occasioni di lavoro o di ricavi.

Dunque, non sostituzione da parte dello stato della società, ma attenzione alle esigenze della giustizia, che non ostacola, anzi favorisce, la formazione di corpi intermedi (dalla famiglia alle associazioni di categoria, alle federazioni tra queste, fino ai municipi quanto più autonomi e «piccoli» possibile), che hanno una naturale vocazione alla solidarietà, ed un’altrettanto naturale capacità di scorgere la necessità dov’è veramente tale, e non la è solo formalmente, cioè burocraticamente (conformità – magari mediante la simulazione e la frode – ad un parametro ed ai requisiti che esso prevede).

Ma tutto questo – e vengo al secondo modello – non avrebbe alcuna speranza di successo senza un’autentica e profonda riforma, prima spirituale e religiosa, poi di conseguenza culturale, che distolga gli uomini dall’adorazione del vitello d’oro (del cui culto è certamente corresponsabile l’anticultura pseudo-solidaristica del marxismo, per il suo ateismo, materialismo e paneconomicismo), e li induca ad affermare il primato della carità (che certo non è esaurita dall’elemosina, e forse nemmeno in essa consiste).

Solo coniugando giustizia e carità potremo affermare nella pratica sociale i principi di sussidiarietà e solidarietà, limitando le conseguenze nefaste del peccato originale – cioè della cattiva inclinazione del cuore dell’uomo – sull’esercizio del naturale, e dunque in sé benefico, diritto di proprietà e di libera iniziativa economica.

Non è certamente impresa facile, né breve; ma se non sono lunghe e difficili, le imprese non ci piacciono.



[1] «[…] la proprietà privata è diritto di natura» (Leone XIII [1878-1903], Lettera Enciclica Rerum Novarum cupiditas, 15-5-1891, n. 5). Sul concetto metafisico/realistico (e non razionalistico/deduttivo) di diritto naturale, credo che oltre le note definizioni di s. Tommaso d’Aquino (1225-1274) e degli altri esponenti della filosofia perenne, sia preziosa la sintesi di Platone (428/427-348/347 a.C.) nel dialogo Minosse, «la legge è scoperta di ciò che è» (315 a)

[2] Cfr. Leone XIII, Rerum novarum, cit., nn.5-10.

[3] Cfr. Karl Marx (1818-1883) e Friederich Engels (1820-1895), Manifesto del Partito Comunista, II.

[4] Cfr., invece, l’autentica Dottrina Sociale della Chiesa, da una sua fonte primaria, cioè la Scrittura: «[…] noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla» (II Ts 3,7-11).