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Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

martedì 9 agosto 2022

Vescovi piemontesi a Lourdes, ma la Chiesa va a ramengo #traditioniscustodes

Cronache ecclesiali...
Luigi


Altari su un materassino, celebrazioni a torso nudo in mare, preti che sfrecciano in monopattino a fine Messa. È la nouvelle vague liturgica. Con queste pagliacciate vogliono accalappiare fedeli invece li fanno scappare. Secolarizzazione e secolarismo
 Il pellegrinaggio a Lourdes dell’Unitalsi è stato accompagnato dal vescovo di Alba, monsignor Marco Brunetti, che si profila come uno dei più autorevoli e ascoltati presuli piemontesi per il suo pragmatico buon senso e la sua intensa attività pastorale, dal vescovo di Novara Giulio Maria Brambilla – affettuosamente conosciuto dai suoi preti come il Brambillone – non ancora ripresosi dalla nomina del suo giovane collega torinese Roberto Repole sulla cattedra di San Massimo e da don Carmine Arice, superiore generale del Cottolengo che in questi anni ha ridato alla Casa della Divina Provvidenza un dinamismo notevole e al passo con i tempi. Un qui pro quo aveva riferito della presenza pure del neo arcivescovo di Torino che, invece, non si è mosso dalla diocesi.
Desiderio desideravi sta già producendo i suoi primi effetti. Negli Stati Uniti i vescovi di Savannah e di Washington hanno posto severissime restrizioni alla celebrazione della Messa antica con la riduzione drastica dei luoghi in cui essa era da tempo offerta. Ma ciò che più ha colpito sono le disposizioni del primo, monsignor Stephen Douglas Parker’s, il quale, mettendo il termine finale di un anno per continuare le celebrazioni, ha decretato che, nel frattempo, i «sacerdoti che celebrano queste Messe accompagneranno i fedeli» nel passaggio al Novus Ordo dove si impegneranno a farne scoprire la bellezza. Siamo dunque alla rieducazione dei minus habentes…

Sull’altro fronte invece, gli uffici liturgici che hanno accolto il motu proprio con giubilo, possono dirsi soddisfatti e se ne vedono già i primi significativi frutti. A Dublino, terminata la Messa, il celebrante è salito a bordo del monopattino che gli era stato regalato e ha percorso la navata della chiesa nel tripudio dei fedeli. In Italia ha suscitato un certo clamore la notizia che a Crotone, un simpatico parroco milanese, angustiato dall’afa, ha pensato bene, per chiudere degnamente il campo estivo organizzato da Libera, di celebrare nell’acqua marina avendo come altare un materassino gonfiabile. La curia di Crotone ha diffuso una nota – rilanciata da quella di Milano – in cui afferma che la celebrazione eucaristica possiede un suo linguaggio particolare al quale conviene «non rinunciarvi con troppa superficialità». Tutto qui.

Lo stesso don Mattia, questo è il suo nome, ha poi fatto pubblica ammenda sui social e addirittura il procuratore di Crotone ha aperto una improbabile inchiesta per vilipendio. I vescovi italiani, campioni di pavidità, naturalmente hanno taciuto. Al punto in cui è giunta la situazione è però inutile appellarsi al diritto, meno che mai a quello canonico che, oramai è chiaro, viene utilizzato solo quando c’è da sanzionare e reprimere la Messa antica. In realtà, la Missa acquatica di Crotone ci dice che la sostanza è persa perché pur di “avvicinare la gente” – che poi non si avvicina per nulla – la liturgia appresa dal parroco in seminario ritiene che essa assolva al suo compito solo quando incarna il vissuto della comunità specifica nello specifico momento, con il risultato che il Protagonista non è più nemmeno sullo sfondo. A ben vedere, don Mattia non ha fatto che applicare il principio cardine del liturgismo moderno: ciò che conta è la comunità celebrante. Un colto gesuita, professore nelle facoltà teologiche, ha così commentato, entusiasta, sul suo profilo la performance del confratello milanese: «Tutto è nostro – ci dice San Paolo – cosicché il Sabato ovvero anche la liturgia è per il bene dell’umano. Non solo dell’anima, ma del corpo e della mente. Mi chiedo allora… cosa è più evangelico, dimenticarsi del bene umano quando si scrivono regole per la liturgia oppure sdoganare la liturgia dal rubricismo per operare il bene dell’umanità? Solo così il Sacro rivela il suo carattere evangelico. Solo così vi è “sacra” liturgia». Alcuni confratelli torinesi hanno commentato il fatto sui social con un misto di giustificazionismo pietoso – siamo deboli! – e di ammirazione per l’umiltà del confratello, ciò che conta è l’intenzione e, ovviamente, la comunità. Un’arguta lettrice si è chiesta cosa sarebbe successo se don Mattia avesse dovuto incarnare il vissuto di una comunità di nudisti…

A fronte di tale confusione, foriera di una sempre maggiore lontananza dei fedeli, suonano desuete ma ancor più vere le parole che Benedetto XVI – mai citato nella Desiderio Desideravi – pronunciò anni fa: «La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La liturgia non vive di sorprese “simpatiche”, di trovate accattivanti, ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l’attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere “fatta” da tutta la comunità, per essere davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il “successo” in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma da quel che qui accade. Qualcosa che noi non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità che non è dunque padrona ma serva, mero strumento, giunge sino a noi». Oggi, la liturgia è diventata ciò che San Paolo VI temeva diventasse con l’abbandono della lingua sacra e del gregoriano: «Un cero spento che non illumina più, non attira più a sé gli occhi e le menti» (Lettera Apostolica Sacrificium Laudis 15 agosto 1966). Consoliamoci allora ascoltando gli elevati ed entusiastici interventi che tra qualche settimana pronunceranno don Paolo Tomatis e sorella Morena Baldacci alla prossima Settimana Liturgica nazionale.

Sta passando completamente sotto silenzio il trentesimo anniversario della promulgazione da parte di Giovanni Paolo II del Catechismo della Chiesa Cattolica (Fidei Depositum), voluto fortemente dal santo pontefice come l’esposizione, in una grande sintesi, della dottrina cattolica a seguito del rinnovamento voluto dal Concilio Vaticano II. Com’è ampiamente noto, il Catechismo è stato fin da subito boicottato dall’ala progressista della Chiesa e in questi ultimi anni è praticamente ostracizzato. Si potrebbero fare i nomi di preti torinesi che si vantano di non citarlo mai e di vescovi che lo ignorano totalmente per paura di sfigurare come retrogradi. Peraltro, i risultati si vedono. Non c’è quasi più cattolico – nemmeno adulto – che sappia fondare dottrinalmente alcunché. Al confronto, i nostri nonni, formati alle domande e risposte del Catechismo di San Pio X, erano dei teologi in miniatura. Lo stesso gesuita di cui sopra – amico e sodale del “consigliori” papale padre Antonio Spadaro – ha anche scritto sul suo profilo che: «Ci sono alcuni pii e pie cattoliche che dicono che la crisi di fede è perché non si conosce più il Catechismo. Credo invece l’opposto. La fede che c’è ancora è di coloro che non lo conoscono. Se lo conoscessero, anche loro perderebbero la fede!». Ci penserà lui a fargliela riconquistare. Come diceva il compianto cardinale Carlo Caffarra, una Chiesa meno dottrinale non è più evangelica ma soltanto più ignorante.

Con questo papa si fa sempre in qualche modo ritorno agli anni del post Concilio, quelli dell’entusiasmo e delle illusioni, quelli del primo Paolo VI e – purtroppo – della nostra giovinezza. Così, uno dei suoi più importanti discorsi pronunciati durante il pellegrinaggio penitenziale in Canada, è stato quello rivolto ai vescovi e al clero di giovedì 28 luglio in cui si è soffermato sulla distinzione tra secolarizzazione – buona – e secolarismo – cattivo – secondo lo schema della Evangelii Nuntiandi di Paolo VI del 1972. In sostanza, il secolarismo è «una concezione della vita che separando il legame con il Creatore», rende Dio «superfluo e ingombrante», generando «nuove forme di ateismo subdole e svariate»; la secolarizzazione invece sarebbe soltanto il cambiamento degli stili di vita e dei costumi che non rinnega Dio ma lo colloca sullo sfondo e quindi l’occasione per i cristiani di farlo riscoprire e rimetterlo al centro. Questo discorso ricordiamo di averlo udito, con le nostre orecchie entusiaste, dalla viva voce del cardinale Michele Pellegrino durante un incontro a Villa Lascaris.

Come alcuni autori hanno notato, a mezzo secolo di distanza, tale distinzione è andata sostanzialmente scomparendo nel senso che è apparso e si è insinuato fra le masse un nichilismo pervasivo che oggi si può dire dominante. Come il filosofo torinese Claudio Ciancio aveva acutamente rilevato, mentre allora non erano nemmeno percepibili, oggi gli esiti nichilistici della secolarizzazione sono sotto gli occhi di tutti. È scomparso Dio e anche lo sfondo, è venuto a mancare il senso, oggi non si pone nemmeno più il problema del soprannaturale, se ne fa semplicemente a meno, non sono le forme della fede a essere in crisi, è la fede stessa. Per questo prendersela con gli «indietristi» è un puro artificio polemico. Non si tratta di avere uno sguardo tutto negativo sul mondo, redento da Cristo, ma ricordare che, come disse il suo predecessore in piazza San Pietro nel 50° del Vaticano II «in questi cinquant’anni abbiamo imparato che il peccato originale esiste, e si traduce sempre di nuovo in peccati personali, che possono anche divenire strutture di peccato».

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