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venerdì 5 agosto 2022

Il re è nudo, ma non ditelo: stendiamo il velo pietoso

Da leggere.
Ogni altro commento è superfluo.

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Il re è nudo, ma non ditelo: stendiamo il velo pietoso
di don Marco Begato

Ho chiesto il permesso al mio vescovo di continuare a celebrare la Messa in vetus ordo per il gruppo di fedeli che da ormai quattro anni si era raccolto attorno all’appuntamento domenicale e che era salito a un centinaio di presenze stabili. L’ho chiesto dopo aver consultato con successo i miei superiori, il parroco e il Consiglio pastorale. Con la differenza che questi ultimi sono stati interpellati in epoca Summorum Pontificum, il primo in epoca Traditionis custodes. Non serve che dica quale risposta ho ricevuto, peraltro sapendo già a cosa andavo incontro. D’altronde, se c’è una cosa in cui i nostri venerati pastori non possono più stupirmi è l’uniformità di vedute, tutte curiosamente centrifughe rispetto alle linee di Benedetto XVI. Ma probabilmente questo è un mio bias.

E tanto ci basti come introduzione del problema; non mi soffermerò oltre sulle mie vicende personali e piuttosto amplierò un poco l’orizzonte per venire a dire la mia su Messa e sacerdozio oggi.

Non perderò nemmeno tempo a commentare i documenti che hanno inaugurato la nuova epoca di declino liturgico, mi varrebbero solo reprimenda dalle curie e non sortirebbero effetto alcuno. Che poi, non essendo io un tradizionalista, non ne trarrei nemmeno il plauso delle correnti cattoliche conservatrici. Ebbene, che si tratti di un declino è evidente dal fatto che Traditionis custodes e il suo spin-off, Desiderio desideravi, hanno sortito il pronto effetto di gambizzare il rito antico e di disperdere i fedeli (per la minoranza di rito antico è difficile raccogliere compassione e premura nelle diocesi di mia conoscenza), ma non hanno comportato il ben che minimo beneficio alla forma ordinaria del rito latino. Gli episodi di Crotone e dell’apnea cerimoniale cui è stato condannato il mio rituale di origine – quello ambrosiano – parlano da sé. Le Messe con mascherine e gel e annessa fobia eucaristica completano il cerchio e fanno luce sull’adombramento generale del senso liturgico, con abusi trasformati in prassi, diritti frantumati, itinerari spirituali immolati sull’altare della moda teo-sanitaria e consimili allegrie di naufragi.

Non perdiamo tempo, ma nemmeno perdiamo la speranza e piuttosto ci prendiamo del tempo e aspettiamo fiduciosi: conclusa la parabola della grave crisi ecclesiastica – cui temo manchino ancora alcuni segmenti di inabissamento – tornerà la liturgia autentica, donata da Dio, quella incentrata sulla salus animarum e non sulle linee dei teologi, sul bene dei fedeli e non sull’applicazione di protocolli vaticani. Per inciso, non sono di quelli che vedono nel rito antico la soluzione unica e sola a tutti i possibili mali liturgici ed ecclesiali. Sono invece di quelli che vedono nell’aggressus al vetus ordo quantomeno la spia che conferma il nostro essere ancora completamente impantanati in quello stravolgimento epocale predetto a Fatima e altrove e comunque ormai evidente a chiunque abbia un vago ricordo non dico della Chiesa nel 1961, ma di quella nel 2011.

Sono poi di quelli che per tutta la vita avranno di che rimproverare il Santo Padre Benedetto XVI e avranno di che ringraziarlo. Avrò da rimproverarlo perché la celebrazione in vetus rappresenta per il sottoscritto un motivo di pena, di stigma, di fatica (la Catholica mi sembra contenga più latinofobi che omofobi oramai); avrò da ringraziarlo per avermi dischiuso un sì immenso tesoro liturgico, che come tale costituisce una fonte di nutrimento spirituale perenne, il cui beneficio per sé supera le concessioni pastorali e i veti curiali e si eleva come luce intima che nessuno più può riuscire a spegnere.

Ciò detto, vengo a precisare la mia lettura: il Santo Padre Benedetto XVI pubblica il motu proprio Summorum Pontificum nell’estate 2007; proclama l’anno sacerdotale nel 2009-2010; indice l’anno della Fede nel 2012-2013. Mi pare un percorso illuminante e lineare: restauriamo la liturgia, per poter così rinnovare il clero, dal che può scaturire una rigenerazione della fede nella Chiesa intera. Tragitto nobile e degno, che si illumina anche se osservato a ritroso: anzitutto, l’anno della Fede è occasione di una profonda verifica dei decenni post-conciliari, verifica che in Papa Benedetto XVI non ha mai i toni retorici, bensì va a toccare i nervi scoperti della questione. Il Santo Padre chiederà di distinguere tra un Concilio dei Padri e uno dei media; quello della continuità e quello della rottura; quello che si sente un nano sulle spalle della Tradizione e quello che si mostra come un gigante che La disprezza. Ecco perché – secondo passo, all’indietro – vale la pena di tornare a modelli classici di sacerdozio, quale è il santo Curato d’Ars, uno che puzzava abbastanza di sagrestia. Ecco perché, infine, accettare la sfida di liberare la forma straordinaria del rito latino e farlo precisamente con la logica del nano e del gigante, rettamente assunta: il rito riformato (nano) può essere apprezzato solo sulla base del rito tradizionale (gigante). Se questa ultima frase vi ha irritato, è probabile che alligni in voi del modernismo. Ma non posso dirlo con certezza. Per quanto mi riguarda, ho sempre letto in questa chiave il Magistero del Papa, Benedetto XVI, e ne ho sempre tratto beneficio spirituale e pastorale. È una lettura più complessa rispetto a “lo ha fatto per dialogare coi lefebvriani”, ma proprio per questo la reputo più in sintonia con la visione mai banale o strumentale del Pontefice tedesco. Da tale prospettiva germina la mia esperienza col rito antico.

Lo studio del rito antico non è stato semplice, anzitutto per la difficoltà nel trovare maestri competenti tanto sulle rubriche quanto più sulla spiritualità ad esso propria: le une senza l’altra non giovano. Io per Grazia divina ho trovato la guida giusta al momento giusto. Apprendere il rito antico è faticoso: molte parole in una lingua ormai dimenticata; molti gesti coordinati seppur non meccanici; soprattutto, un modo nuovo di intendere l’approccio liturgico, capace di mettere in questione convincimenti durati dall’infanzia e fino all’Ordinazione sacerdotale inclusa, capace di svelare tutte le lacune spirituali e cerimoniali del mio cammino cristiano, capace di chiedere una coerente recisione con gli errori insinuati da una ecclesiologia ‘dei media’ da troppi applaudita e da sempre inalata. La fatica del rito però ripaga: conoscere i tesori della Tradizione dona occhi nuovi per leggere gli sviluppi ecclesiologici recenti; dona una prospettiva diversa per valorizzare, poche o molte che siano, le novità del Concilio (e non le invenzioni del dopo Concilio), cercando di assumerle in armonia con la mens dei Padri (cercando, perché nella diaspora di veri maestri la sfida si fa dura assai); aiuta ad assaporare e sacralizzare quanto più possibile lo stesso rito riformato, che rimane un rito generalmente povero – dichiaratamente povero, riformato per agevolare i pauperes e non certo per migliorare il culto a Dio, coram populo appunto (incerto se si trattasse del popolo dei Padri o dei media…) e non coram Deo –, ma da cui si può attingere un nutrimento valido e sufficiente, soprattutto nel contesto emergenziale contemporaneo e tenendo conto della fragilità tendenziale dei fedeli. Per affermare tutto questo bisogna però aver conosciuto, praticato, interiorizzato, attinto da e amato il rito della Tradizione. Altrimenti quanto detto rimane incomprensibile (oltre a essere ulteriore possibile sintomo di modernismo, ma su questo abbiamo già detto poc’anzi). E in effetti, noto con un certo gusto che tutte le autorità, dalle quali ho ricevuto osservazioni non così lusinghiere circa la mia scelta di celebrare (anche) in rito antico, non hanno nessuna esperienza con esso. Spiace. Per loro. Non sanno quel che si perdono, è il caso di dirlo.

Qual è la mia proposta, arrivati fin qui? Personalmente non mi convincono le tendenze autocefale, che si vanno sistematizzando attorno a pur degni sacerdoti, i quali tutto son pronti a sacrificare pur di perpetuare la celebrazione in vetus. Non entro nel merito, ma non mi convincono, soprattutto pensando ai possibili sviluppi e alle insidie spirituali che potranno emergere e che sempre minano queste esperienze di strappo.

Più semplicemente, restando con entrambi i piedi nel territorio angusto condiviso da Quo primum tempore, da Summorum Pontificum e da Traditiones custodes, esorto i sacerdoti ad apprendere, interiorizzare e approfondire la celebrazione in vetus. Non li sprono a raccattare un codazzo di fedeli per fare Messe in cantina, ma a imparare per sé la celebrazione tradizionale e celebrarla per sé. Resto dell’idea che, se i sacerdoti si lasceranno rigenerare direttamente da questa fonte immensa di Grazia, Dio stesso li guiderà alle giuste scelte da operare per la salvezza delle anime in questo tempo di confusione e di confusione ecclesiale. Le anime nel frattempo spronino il clero a tale compito: che si sforzi di studiare la vecchia Messa, ne tenga vivo il senso e ne propaghi – sia pur indirettamente – i benefici spirituali e culturali. E dunque, se devo esprimere un rimprovero, non lo farò ai Superiori che stanno azzoppando il rito della Tradizione, ma la farò a quei preti che in 15 anni di liberalità non hanno mai deciso di dedicarsi ad apprendere la celebrazione in latino.

Per comprendere più a fondo la mia posizione, mi rivolgo alla Sacra Scrittura, dove troviamo un episodio che vorrei applicare alla situazione attuale: si tratta dell’ebrezza di Noè.

18 I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem, Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan. 19 Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra. 20 Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. 21 Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda. 22 Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. 23 Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il padre scoperto; avendo rivolto la faccia indietro, non videro il padre scoperto. 24 Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; 25 allora disse: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!». 26 Disse poi: «Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! 27 Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!». 28 Noè visse, dopo il diluvio, trecentocinquanta anni. 29 L’intera vita di Noè fu di novecentocinquanta anni, poi morì (Gen 9,18-29).

Ora, la Scrittura non esprime un giudizio su Noè, sebbene risulti evidente che trovarsi nudo e ubriaco non sia una cosa bella, infatti i figli virtuosi corrono ai ripari. Esprime invece, e proprio per bocca di Noè rinsavito, un duro giudizio su Cam, che anziché provvedere all’onore della stirpe e in primis del suo capostipite, si perde in pettegolezzi e diffamazioni varie. Sono benedetti Iafet e Sem, sempre dalla bocca del Patriarca, coloro i quali hanno preso atto del pasticciaccio e vi hanno pudicamente e tacitamente posto rimedio.

Bene, tra i molti modi di coprire le vergogne e la vergogna del genitore, ritengo che sia da considerare attentamente l’impegno per i singoli sacerdoti di imparare il rito antico. Questo, se vale la teologia di Papa Benedetto XVI da me tratteggiata, permetterà loro di rigenerarsi nella fede e di dare il miglior contributo alla Chiesa. Ci sono altri veli pietosi utili all’uopo, non ne dubito, ma per esperienza sono convinto che questo – invitare il clero a rigenerarsi con l’assumere il pur gravoso onere di completare in autonomia la propria formazione liturgica, tramite la riscoperta personale dei tesori della Tradizione – sia un mantello di prima qualità, gli altri li reputo un po’ meno pregiati e funzionali. Sbeffeggiare la nudità del Popolo di Dio o fingere che tutto sia regolare, invece, non sono in nessun modo condotte adeguate.

È quanto, ora faccio partire il cronometro e resto in attesa della benedizione di Noè. Speriamo arrivi presto.