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venerdì 3 settembre 2021

Tempi: "La Messa in rito antico può ancora essere utile all’uomo postmoderno" #traditioniscustodes

Un commento sensato da una testata molto lontana dal nostro mondo tradizionalista.
Non tutto condividiamo, ma il buon senso sì.
Luigi

Tempi, Rodolfo Casadei, 20-8-21
Umile commento di un laico sulla "Traditionis Custodes", il motu proprio di papa Francesco che ha ristretto le condizioni per la celebrazione della cosiddetta “Messa di san Pio V”

Sulla Traditionis Custodes, il motu proprio di papa Francesco che ha ristretto le condizioni per la celebrazione della cosiddetta “Messa di san Pio V” antecedente al Messale di Paolo VI, si sono espressi teologi, canonisti, liturgisti e da ultimo – sebbene indirettamente, senza fare riferimento all’intervento papale – il prefetto emerito della Congregazione per il culto divino, cardinale Robert Sarah. Sarebbe bene che, con l’umiltà di chi non è competente nello specifico e non ha ricevuto alcun ordine sacro, anche i laici dicessero qualcosa, per contribuire a un chiarimento estremamente necessario per il bene della Chiesa e della sua testimonianza nel mondo.

Si tratta certamente di un terreno minato, dove si rischia l’incolumità al minimo movimento; o se volete si tratta di una cristalleria, dove si rischia di fare più danno muovendosi con le migliori intenzioni che stando fermi e lasciando fare ai commessi. Ma è anche vero che esistono i peccati di omissione, frutto del vizio dell’accidia , e che Dante mette gli ignavi nell’Antinferno, non proprio una collocazione da ambire. Cercare di contribuire al discernimento nella Chiesa può causare incidenti, ma, come disse una volta papa Francesco, «preferisco mille volte una Chiesa incidentata che una Chiesa malata».

I perché della decisione di papa Francesco

Che piacciano o che dispiacciano, le disposizioni restrittive di Francesco nascono dalla constatazione da parte sua che il «reciproco arricchimento» fra la forma ordinaria e la forma straordinaria della Messa, auspicato da Benedetto XVI quando nel 2007 promulgò il Summorum Pontificum che “liberalizzava” la seconda, non c’è stato. Anzi: «Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni. (…) Mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”».

Da qui le misure disciplinari della Traditionis Custodes che spingono la forma straordinaria della Messa ai margini della vita ecclesiale. Secondo alcuni teologi e vescovi – quelli con cui il cardinale Sarah polemizza nel suo intervento – questa marginalizzazione dovrebbe preludere al superamento puro e semplice della Messa di san Pio V. Per esempio Andrea Grillo, ordinario di teologia dei sacramenti presso il Pontificio ateneo Sant’Anselmo scrive: «Da sempre lo “sviluppo organico” del rito romano ha trovato continuità dopo una riforma nell’assunzione comune della nuova forma, non nella conservazione della nuova insieme alla vecchia. La pace si fa nella comune accettazione del percorso di riforma, non nel contrapporre il vecchio rito al nuovo».

Di che cosa ha bisogno l’uomo postmoderno?

Ma è davvero questo, nel mondo del XXI secolo, specialmente nel mondo occidentale e in quello delle Chiese fondate da missionari europei, dove il rito romano è dominante, l’unico sviluppo sano, auspicabile, facilitante l’unità nella testimonianza che la Chiesa deve rendere a Cristo? Non si potrebbe invece pensare che il mondo plasmato dalla modernità, quello con cui il Concilio Vaticano II ha cercato di interloquire al di là dei tradizionali anatemi, ma mantenendo la lucidità critica che è propria anche di molti intellettuali di ieri e di oggi che cristiani non sono, ha bisogno che il sacrificio eucaristico sia celebrato in entrambe le forme? Che le due forme sono coessenziali alla testimonianza cristiana nelle attuali circostanze storiche?

Cioè io non mi pronuncio sul dibattito fra chi sostiene che lo sviluppo organico del rito romano implica il superamento di una forma precedente con una successiva, e chi invece ha un’idea “cumulativa” delle forme, che essendo tutte sacre non possono eliminarsi le une con le altre, ma necessariamente devono coesistere perché non ci sia contraddizione. Non sono competente. Da laico cristiano occidentale che vive la sua vita terrena a cavallo fra il XX e il XXI secolo parto da una constatazione: mi trovo a vivere in un mondo post-religioso, nel quale la divinizzazione dell’uomo non ha bisogno di Cristo, il Figlio inviato dal Padre, ma di dispositivi tecnologici sempre più perfetti destinati a produrre il transumano.

La sfida del Concilio Vaticano II

L’Homo Deus di Yuval N. Harari non è trasfigurato dalla Grazia, ma da dispositivi tecnologici di cui lui stesso è autore, che gli permettono di superare i suoi limiti, fino alla vittoria tecnologica sulla morte. L’ateismo teorico di Feuerbach, Marx, Comte, ecc. si trasforma ogni giorno di più in ateismo fattuale non grazie alla filosofia e alla politica, ma grazie al progresso tecnico. Si tratta di una rottura epocale con tutta la storia umana precedente il XIX secolo: l’uomo creatore di se stesso ha preso il posto dell’uomo che accettava la sua condizione creaturale, e cercava la sintonia col Creatore chiedendo perdono per i suoi fallimenti (peccati).

A questa rottura il Concilio Vaticano II ha risposto accettando la sfida di un discorso moderno che partiva dalla centralità dell’uomo anziché da quella di Dio. Ma, come ha sintetizzato Giovanni Paolo II, la «svolta antropologica» del Concilio Vaticano II ha «carattere profondamente cristologico». Come si legge nella Gaudium et Spes, «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo».
Le due forme possono coesistere

La Messa di Paolo VI è il frutto della presa di coscienza della Chiesa di fronte al cambiamento d’epoca rappresentato dall’avvento di un mondo post-religioso, dove l’umanesimo ateo non sarebbe più stato ribellione ma sistema dominante. La Messa di san Pio V è la massima sintesi storica della visione religiosa del mondo nel contesto eucaristico: è la più alta espressione di un mondo nel quale ci si ribellava a Dio (ovvero ai suoi rappresentanti) in nome di Dio e non certo dell’uomo (il protestantesimo). Celebrando l’eucarestia nelle due forme, la Chiesa cattolica testimonia sia la sua continuità col mondo dove dominava la visione religiosa della vita e del cosmo, dove al centro c’era Dio, sia l’accettazione della sfida che il mondo post-religioso, secolarizzato, le pone con la collocazione dell’uomo al centro della storia e del cosmo.

Giovanni Paolo II più volte affermò la necessità che la Chiesa tornasse a respirare con due polmoni, quello del cristianesimo occidentale e quello del cristianesimo orientale. La storia, non la teoria o l’ideologia, imponevano di prendere atto che il cristianesimo si era sviluppato in quel modo, e che quella diversità storica andava assunta perché desse frutti nel mondo contemporaneo. Prendo a prestito la stessa metafora per descrivere quello che dovrebbe essere il rapporto fra forma ordinaria e forma straordinaria del rito romano: dovrebbero essere i due polmoni che danno alla Chiesa il respiro giusto per rendere una testimonianza completa davanti all’uomo di oggi, sedotto dalla mutazione antropologica che il progresso tecnico sta realizzando ogni giorno di più.

Questa prospettiva evidentemente diverge da quella di chi considera giusta, o valida, o preferibile soltanto una delle due forme. Questa prospettiva si collega – non in forza di un approccio teoretico, ma di un giudizio pratico di opportunità storica – a quel che si legge nel Vangelo secondo Matteo: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». (Mt 13,52)