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lunedì 19 luglio 2021

Il Motu proprio Traditionis Custodes: qualche (amara) riflessione per iniziare a riassorbire lo choc #summorumpontificum #traditioniscustodes

Per quanto fossero attesi, e, grazie alle anticipazioni inaugurate proprio da MiL (ved. qui e qui), in larga parte già noti nei contenuti, ma non nei toni, il Motu proprio Traditionis custodes e la relativa Lettera accompagnatoria hanno sollevato un’incontenibile marea di sentimenti negativi nel cuore di quanti vivono la loro vita spirituale al ritmo della liturgia tradizionale. 

Un violento turbamento che è inutile descrivere, poiché tutti i nostri lettori lo conoscono benissimo, anzi l’hanno sperimentato; e dobbiamo accettare che l'emotività abbia preso e stia ancora prendendo il sopravvento. Piuttosto, occorre attivare subito un attento autocontrollo spirituale. Anche se ci sentiamo vittime di un’ingiustizia, rispondere con l’ingiuria, o peggio, non è cristiano; come non è cristiano lasciarci sedurre dalla disperazione o dal disimpegno.

Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa implora da sempre il Signore dicendo «ut Domnum apostolicum et omnes ecclesiasticos ordines in sancta religione conservare digneris, te rogamus, audi nos». Dunque che il Domnus apostolicus e gli omnes ecclesiastici ordines possano deviare dalla sancta religio, senza che ciò faccia venir meno la Santa Chiesa, che resta indefettibile e non migra verso comunità parallele, alternative o sussidiarie, è una dolorosa eventualità contemplata ab immemorabili

Pertanto, quando l’emozione sarà rientrata entro limiti governabili, potremo e dovremo tentare un’analisi razionale delle tristi novità; e cercare di capire che cosa fare nella situazione creatasi, poiché è sin d’ora certo che non ci accomoderemo in un tiepido “è stato bello finché è durato”. 

Un primo livello di analisi, e di reazione, si pone sul piano giuridico. Dobbiamo comprendere bene ampiezza e limiti del Motu proprio, il quale già ad un esame iniziale sembra presentare non poche aporie tecnico-redazionali e sistematiche, che danno buon adito alla battaglia difensiva. È infatti opportuno e giusto, giustissimo, che gli esperti ed i canonisti sottolineino quali e quanti spazi di tutela ancora ci restino. Senza pensare, però, di poter risolvere così ogni nostro problema. Sappiamo che in questa triste fase della storia della Chiesa il diritto non conta quasi più nulla, specie nelle massime sedi; contano solo la forza e la paura incussa dai potenti. Dunque non facciamoci illusioni. 

Poi possiamo scendere sul piano delle dinamiche “politiche”, delle spiegazioni date espressamente o implicitamente, del non detto o del detto in modo poco convincente, dell’analisi non solo e non tanto della mens del legislatore astratto, ma sopratutto delle intenzioni e delle mozioni reali del legislatore storico. Cioè: oltre che sulle norme, concentriamoci anche sulla lettera che le accompagna. Ed anche sulle “confessorie" dichiarazioni dei maître à penser liturgici che hanno chiaramente, inequivocabilmente ispirato il Motu proprio

Qualche considerazione, dunque, in primis sulla Lettera. Nella quale ci viene spiegato che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno concesso la facoltà di utilizzare il Messale del 1962 per «"facilitare la comunione ecclesiale a quei cattolici che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche” e non ad altri». Sottolineo il “non ad altri", perchè è importante: il Summorum Pontificum sarebbe stato emanato solo per recuperare gli incalliti lefebvriani o qualche vecchio nostalgico. Infatti, per la lettera «sono evidenti a tutti i motivi che hanno mosso san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a concedere la possibilità di usare il Messale Romano promulgato da san Pio V, edito da san Giovanni XXIII nel 1962, per la celebrazione del Sacrificio eucaristico. La facoltà (…) era soprattutto motivata dalla volontà di favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre». Per cui, è facile concludere (ma poi lo si spiega quasi esplicitamente), fallito l’obiettivo “riconciliativo”, viene meno la necessità del permesso. 

Purtroppo, c’è qualcosa che non quadra. E’ già stato ampiamente notato nella blogosfera (internet non perdona…) che Benedetto XVI, in "Ultime conversazioni", a cura di Peter Seewald (Garzanti, 2016, pagg.189 e ss.), alla domanda «la riabilitazione dell'antica messa viene spesso interpretata come una concessione alla Fraternità sacerdotale san Pio X» risponde così (le sottolineature sono mie): «Questo è assolutamente falso! Per me era importante che la Chiesa preservasse la continuità interna con il suo passato. Che ciò che prima era sacro non divenisse da un momento all'altro una cosa sbagliata. Il rito si deve evolvere. Per questo è stata annunciata la riforma. Ma l’identità non deve spezzarsi. La Fraternità sacerdotale san Pio X si fonda sulla sensazione che la Chiesa abbia rinnegato se stessa. Questo non deve succedere. Il mio intento, tuttavia, come ho detto, non era di natura tattica: m’importava la cosa in sé». 

E dunque che ne è dell’intento sostanziale (“la cosa in sé”) di Papa Ratzinger? Se lo si fosse debitamente considerato, giustificare Traditionis custodes sarebbe stato più difficile? Sarebbe stato bastevole basarsi su altro, sulle ulteriori circostanze che avrebbero addirittura costretto Papa Francesco ad intervenire? Queste circostanze consisterebbero nel fatto che «è sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la “vera Chiesa”»; sicché - in base alle disposizioni del Motu Proprio - i Vescovi devono assicurare che i gruppi che praticano la liturgia tradizionale «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici». Il tutto, peraltro, per dare ai “tradizionalisti” il tempo necessario «per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II». 

Ma corrisponde alla realtà questa riduzione del tradizionalismo liturgico alla ribellione anticonciliare? Su quali dati si fonda? È attendibile quest’idea che i “tradizionalisti” debbano essere rieducati al pensiero unico liturgico? E’ credibile che il sondaggio tra i Vescovi, svoltosi nel 2020, abbia dato indicazioni così univoche ed omogenee in tal senso? Al netto del fatto che, a quanto si dice, solo un terzo dei Vescovi avrebbe risposto al questionario, e che la maggioranza di questi non avrebbe segnalato problemi (mentre le risposte negative sarebbero state enfatizzate dalle sintesi preparate dai vertici di talune Conferenze Episcopali), chiunque conosca la realtà del tradizionalismo liturgico sa che attribuirgli in via generale e come elemento identificante «il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la “vera Chiesa”» non corrisponde ai fatti. Non sembra un caso, dunque, che i vescovi francesi, che con la realtà “vera” del mondo tradizionale devono confrontarsi molto più intensamente degli ordinari italiani, nella stessa dichiarazione dedicata alle nuove norme e alla volontà di adeguarvisi, abbiano esordito esprimendo «ai fedeli che celebrano abitualmente secondo il Messale di San Giovanni XXIII, e ai loro pastori, la loro attenzione, la stima che hanno per lo zelo spirituale di questi fedeli, e la loro determinazione a continuare la missione insieme, nella comunione della Chiesa e secondo le norme in vigore» («Ils souhaitent manifester aux fidèles célébrant habituellement selon le missel de Saint Jean XXIII et à leurs pasteurs, leur attention, l’estime qu’ils ont pour le zèle spirituel de ces fidèles, et leur détermination à poursuivre ensemble la mission, dans la communion de l’Église et selon les normes en vigueur»: si veda qui e qui). Ancor meno stupefacente - o ancor più, da un altro punto di vista - che, a Parigi, Radio Nôtre-Dame, la radio fondata nel 1981 da Mons. Jean-Marie Lustiger, Arcivescovo di Parigi, e oggi presieduta da Mons. Denis Jachiet, Vescovo ausiliare di Parigi, che è succeduto a Mons. Michel Aupetit, attuale Arcivescovo di Parigi, abbia dato conto delle numerose telefonate di protesta pervenutele, diffondendone una particolarmente significativa, con la dichiarata solidarietà di speakers e giornalisti (per approfondire: qui). 

Questo non vuol dire che tra coloro che frequentano la Messa tradizionale non si possa effettivamente trovare anche chi rifiuti la Chiesa e le sue istituzioni, o neghi i dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici, o la validità e la legittimità della Messa riformata (attenzione: la validità e la legittimità; perché ritenere che il nuovo Messale sia difettoso, anche gravemente, e peggiorativo rispetto al precedente, e, soprattutto, che sia ormai conclamato il fallimento della riforma liturgica, è cosa ben diversa). Allo stesso modo, tra coloro che frequentano la nuova Messa vi è - in proporzione significativa - chi accetta o promuove la legislazione abortiva o, addirittura, l’aborto stesso; chi è favorevole all’eutanasia e la praticherebbe su di sé; chi accetta la sodomia e respinge quanto il catechismo dice in proposito; chi non crede nella presenza reale; chi nega la vita dopo la morte; chi ritiene che la Chiesa non abbia alcuna autorità per dare indicazioni morali; chi ne nega la costituzione divina; chi “vado a messa quando mi sento, non certo quando me lo dicono la chiesa, i preti o il Papa”; chi “io mi confesso direttamente con Dio, non col prete”; e così via. Non lo dico io, lo dicono accreditate statistiche. Chi dunque volesse far coincidere la Messa tradizionale con la ribellione anticonciliare, allo stesso modo dovrebbe far coincidere la Messa riformata con l’abortismo, la cultura eutanasica, l’omoeresia, l’incredulità eucaristica, l’apostasia strisciante. 

Per chiudere quanto alla Lettera, poi, dirò che pare incauto l’appello alle abrogazioni di S. Pio V. Un papa Ghislieri redivivo, oggi abrogherebbe proprio il messale di S. Paolo VI… 

Due parole, adesso, sui maître à penser che non è difficile scorgere dietro Lettera e Motu proprio. Un nome per tutti: Andrea Grillo. Non perché ritenga che egli abbia svolto un qualche ruolo cruciale (non avrei alcun elemento per dirlo); ma perché il dictatus Papae Francisci sembra soddisfare esattamente tutte le aspettative che Grillo ha ripetutamente espresso nei suoi scritti, e riecheggia chiaramente il concetto di unità liturgica che egli vi ha ripetutamente formulato. Basti pensare al principio per cui (solo) «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano» (TC, art. 1). 

Ebbene, accogliendo con giubilo elegantemente contenuto Traditionis custodes, il 17 luglio Grillo ha così commentato tale principio: «questa affermazione soppianta radicalmente l’ardito sofisma su cui si reggeva SP: ossia la “covigenza parallela” di due forme rituali, di cui una contraddiceva l’altra». Dunque il messale riformato contraddice quello anteriore; dunque l’uno e l’altro sono radicalmente alternativi; dunque «non può esistere una concorrenza originaria tra due forme rituali di cui una è nata per emendare la precedente». Infatti, «il rito romano grazie al Concilio ha superato quei limiti che non possono restare, in parallelo, come una “altra liturgia”, senza determinare la presenza di una “altra Chiesa”» (A. Grillo: Traditionis custodes: il rito e i vescovi, in Settimananews). 

Tutto ciò è francamente impressionante. Non tanto perché si oppone frontalmente al magistero di Benedetto XVI, ma perché assume come orizzonte indiscutibile della vita liturgica della Chiesa il criterio della rottura, e della rottura rivoluzionaria; e, soprattutto, perché afferma un principio totalmente estraneo al cattolicesimo. Nella Chiesa non possono esistere, nemmeno diacronicamente, due forme rituali incompatibili, di cui l'una contraddica l’altra, così da determinare anche «una “altra Chiesa”». Possono esistere riti complementari, ben distinti, addirittura reciprocamente impermeabili (non a caso Quattuor abhinc annos vietava «ogni mescolanza tra i testi ed i riti» del messale antico e di quello riformato), ma non riti incompatibili, tali per cui l’esistenza dell’uno impedisca (teologicamente) l’esistenza dell’altro. Se davvero lo fossero, se davvero un rito non potesse coesistere con l’altro perché lo contraddirebbe (cioè ne sarebbe l’opposto, l’esatto contrario), uno sarebbe santo, l’altro il contrario: due riti entrambi santi sono reciprocamente compatibili, due riti non reciprocamente compatibili non sono entrambi santi. E poiché la santità è convalidata dalla tradizione e dal suo sviluppo organico, è molto facile vedere che il rito contrario alla santità non potrebbe essere che quello espressivo della contraddizione, della rottura e della non-continuità. 

Alla fine, dunque, l’unica vera contraddizione di tutta questa tristissima vicenda si ritrova proprio nella decisione papale dello scorso 16 luglio. Una decisione che vorrebbe contrastare «quella spinta alla divisione – «Io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; io sono di Cefa; io sono di Cristo» –, contro cui ha reagito fermamente l’Apostolo Paolo» (così la Lettera accompagnatoria), ma che, per farlo, si basa e valorizza la divisione radicale e l’incompatibilità tra i riti, tanto che coloro che «si sono radicati nella forma celebrativa precedente» non possono trovare alcuna collocazione nella Chiesa della forma celebrativa successiva, ma, avendo «bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II», vi devono essere rieducati - forse addirittura coattivamente. 

Peraltro, le motivazioni profonde di questa necessaria rieducazione, che è sostanzialmente destinata ad estinguere del tutto il tradizionalismo liturgico, non sono realmente chiarite, al di là del giudizio di incompatibilità tra liturgia antica e “chiesa conciliare” (a scanso di ogni equivoco, prego vivamente i lettori di considerare che ho messo l’espressione tra virgolette); esse ragioni meriterebbero un’ulteriore indagine, che appesantirebbe eccessivamente questo già lungo scritto, ma che, se ne avrò modo, potrò tentare in qualche altra occasione. Per il momento mi limito a dire che nella visione emergente dal Motu proprio e dalla Lettera, i fedeli di quello che amo sempre più chiamare il Populus Summorum Pontificum stanno alla Chiesa vagheggiata da un esiguo ma potente settore dei suoi pastori, come i kulaki stavano alla Russia di Lenin e Stalin. E per loro sembra apprestata la stessa sorte.

Davanti a tutto questo, se pure non riusciamo a sfuggire alla dolorosa nostalgia di chi, parlando della «possibilità di usare tanto il Messale del Beato Giovanni XXIII (1962) quanto quello del Papa Paolo VI (1970)», diceva «nessuno è di troppo nella Chiesa. Ciascuno, senza eccezioni, in essa deve potersi sentire “a casa sua”, e mai rifiutato» (Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi francesi nel viaggio apostolico in occasione del 150° anniversario delle Apparizioni di Lourdes, 14 settembre 2008), dobbiamo determinarci con fermezza a fare tutto ciò che è necessario per rivendicare, nella giustizia e nella carità, il nostro pieno diritto di sentirci sempre e comunque, ed essere realmente, “a casa nostra” nella Chiesa.

Enrico Rocagiachini