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mercoledì 19 maggio 2021

Magister. "Magistratura vaticana, ovvero la saga degli infortuni giudiziari". E Francesco è coinvolto?

Una volta, in campagna, c'era questo detto, "il migliore ha la rogna".
Salva reverentia.
Luigi

Dopo la sua penultima ispezione, nel 2017, Moneyval aveva rimproverato la magistratura pontificia di battere la fiacca, cioè di attivarsi troppo poco sui casi sospetti individuati e segnalati dall’Autorità di Informazione Finanziaria, AIF, dello stesso Vaticano.

Ma adesso che un nuovo rapporto di Moneyval – il comitato del consiglio d’Europa che valuta l’aderenza alle norme finanziarie internazionali degli Stati che vi partecipano – è in arrivo da un giorno all’altro, in capo a un’ispezione iniziata lo scorso 30 settembre e durata una dozzina di giorni, in Vaticano temono che il rimprovero sarà ancor più severo.

Se è vero, infatti, che un annoso processo la magistratura pontificia l’ha finalmente portato a termine, quello che il 21 gennaio ha condannato Angelo Caloia, l’ex presidente della “banca” vaticana, IOR, Istituto per le Opere di Religione, non è meno vero che la madre di tutti gli ultimi disastri, cioè la scombinata acquisizione da parte della Segreteria di Stato del lussuoso edificio di Sloane Avenue 60 a Londra, non solo è ancora lontana dall’arrivare a processo ma ha anche registrato una sequenza impietosa di rovesci giudiziari.

La foto sopra è stata scattata nella fase cruciale della storia. È il 26 dicembre del 2018 e accanto a papa Francesco, a Santa Marta, c’è Gianluigi Torzi, il principale dei finanzieri ai quali la Segreteria di Stato si è affidata per l’acquisto del palazzo londinese.

A quella data l’acquisto è fatto, per complessivi 350 milioni di dollari, ma la Segreteria di Stato non può disporre del palazzo, se non liberandosi a caro prezzo dagli intermediari e in particolare riscattando dallo stesso Torzi le quote decisive rimaste in suo possesso.

Soltanto quest’ultimo riscatto costerà 15 milioni di euro, soldi che in seguito la Segreteria di Stato lamenterà come estorti dallo stesso Torzi, ma che questi dirà invece d’aver regolarmente concordato, in un incontro in Vaticano tra lui, il sostituto segretario di Stato Edgar Peña Parra e papa Francesco in persona.

Questo incontro, con il papa impegnato a sollecitare una soluzione e a dare a Torzi “il giusto salario”, sarà ammesso dalla stessa magistratura vaticana e da un altro testimone rispettivamente nel febbraio e nel marzo del 2021. Ma non anticipiamo i tempi e torniamo al 2019.

Per chiudere l’operazione e ottenere il pieno possesso del palazzo, il 4 giugno di quell’anno la segreteria di Stato chiede allo IOR un prestito di 150 milioni. Inizialmente lo IOR sembra disposto a concederlo, ma poi all’improvviso rifiuta. Anzi, il direttore generale dello IOR Gian Franco Mammì, molto vicino a Jorge Mario Bergoglio fin da quando era curatore dei clienti della “banca” vaticana in America Latina, giudica scorretta l’intera operazione e sporge denuncia al tribunale vaticano, coinvolgendo per omessa vigilanza anche l’AIF, allora presieduta dal finanziare svizzero René Brüelhart e diretta da Tommaso Di Ruzza, genero dell’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.

Papa Francesco sposa in pieno questo capovolgimento di fronte, come lui stesso dichiarerà in una conferenza stampa di poco successiva ai fatti. È lui in persona a firmare – per conto dei magistrati vaticani – l’ordine di perquisire la segreteria di Stato e l’AIF. Il 1 ottobre 2019 la gendarmeria vaticana agli ordini del comandante Domenico Giani irrompe negli uffici e sequestra documenti e dispositivi elettronici. Il giorno dopo sono affissi i nomi e le foto di cinque funzionari di medio e alto grado sospesi dal servizio. E a coronamento di questo repulisti fatto in spregio di ogni garanzia Francesco licenzia il comandante Giani, come fosse lui il colpevole dello sfracello, quando in realtà aveva semplicemente agito su mandato del papa.

I cinque, divenuti poi sei, saranno tutti cacciati. E presto all’AIF salterà, oltre a Di Ruzza, anche Brüelhart, con le successive polemiche dimissioni di due membri del consiglio direttivo, lo svizzero Marc Odendall e lo statunitense Juan Carlos Zarate.

Intanto, però, un primo rovescio si abbatte sul Vaticano e la sua magistratura. A motivo delle perquisizioni del 1 ottobre, con la conseguente violazione di informazioni riservate d'interesse internazionale, l’Egmont Group – la rete delle “intelligence” di 164 Stati di cui la Santa Sede fa parte – espelle con decisione unanime l’AIF da questo circuito. Per essere riammessa la Santa Sede dovrà spargersi il capo di cenere e sottoscrivere un “memorandum of understanding”, ovvero offrire più stringenti garanzie di affidabilità.

La sera del 5 giugno 2020, al termine di un lungo interrogatorio, i magistrati vaticani chiudono in cella Torzi, accusato d’aver estorto i 15 milioni sopra citati. Lo scarcereranno dieci giorni dopo, in cambio di 3 milioni da lui depositati su conti svizzeri, che però i magistrati vaticani scopriranno di non poter incassare. Storzi riparerà in Gran Bretagna, inseguito da una denuncia vaticana che lo porterà ad essere processato a Londra.

Il 24 settembre 2020 altro clamoroso colpo di teatro. Papa Francesco convoca in udienza il cardinale Giovanni Angelo Becciu, fino al giugno del 2018 sostituto segretario di Stato, e senza fornire alcuna spiegazione lo obbliga a dimettersi da prefetto della congregazione per le cause dei santi e a spogliarsi di tutti i suoi “diritti” di cardinale, compresa la partecipazione a un conclave. Il cardinale si protesta innocente e sei mesi dopo, la sera del giovedì santo, il papa andrà a sorpresa a casa sua a celebrare la messa “in coena Domini”, ma sempre senza dichiarare le ragioni della defenestrazione. Tra le accuse a Becciu che circolano sui media c’è anche quella d’avere avuto le mani in pasta nell’affare di Londra, ma poco dopo anche un’altra tegola si abbatte sul cardinale.

Il 13 ottobre 2020, ad ispezione di Moneyval appena conclusa, i magistrati vaticani fanno arrestare a Milano e chiedono l’estradizione di Cecilia Marogna, sedicente esperta di servizi segreti, reclutata anni prima da Becciu tra i “pubblici ufficiali” della segreteria di Stato e ora imputata di peculato e di appropriazione indebita di denari vaticani a lei devoluti. Dopo due settimane di carcere, però, la corte di cassazione italiana la rimette in libertà e dichiara “nulla” l’iniziativa vaticana, perché errata nella forma e nella sostanza. Il successivo 18 gennaio i magistrati vaticani getteranno la spugna: revocheranno qualsiasi misura d’arresto dell’imputata e le assicureranno che potrà partecipare libera al processo a suo carico.

Nel novembre 2020, altro rovescio per i magistrati della Santa Sede. Dopo che hanno fatto perquisire in Italia la casa di Fabrizio Tirabassi, uno dei funzionari vaticani licenziati un anno prima, la magistratura italiana dichiara “nullo” e “illegittimo” il mandato di perquisizione e ordina la restituzione dei denari e degli oggetti sequestrati.

A fine anno, il 28 dicembre 2020, un “motu proprio” di papa Francesco obbliga la segreteria di Stato a svuotare le sue casse e a devolvere tutti i denari e gli immobili da essa custoditi all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, APSA. Il provvedimento ha tutto l’aspetto di un declassamento del maggiore istituto di governo vaticano, progettato da tempo ma infine deliberato prendendo a pretesto la sfortunata operazione di Londra.

Ma proprio da Londra arriva, nel marzo del 2021. il peggiore dei rovesci. La magistratura britannica assolve Torzi dall’accusa di aver estorto al Vaticano i famigerati 15 milioni. I magistrati della Santa Sede chiedono invano che le motivazioni della sentenza restino segrete. Il 24 marzo fanno il giro del mondo e mettono alla berlina la ricostruzione vaticana dei fatti. Nessuna frode, ma un regolare accordo tra le parti, risalente a quando Torzi era familiarmente ricevuto dal papa a Santa Marta, nelle feste natalizie del 2018, e poi aveva concordato, sempre con la benedizione del papa, il suo “salario”.

Eppure, incredibilmente, in Vaticano non si arrendono. Il promotore di giustizia della Santa Sede chiede e ottiene da un giudice istruttore italiano l’emissione, il 12 aprile di quest’anno, di un nuovo mandato di cattura per Torzi, ora latitante nel Regno Unito, questa volta per come egli avrebbe illegittimamente impiegato parti di quei 15 milioni ricevuti dal Vaticano.

Ma a stupire sono soprattutto le motivazioni date dal Vaticano a questa richiesta d’arresto. Vi si legge tra l’altro che se un errore di partenza è stato fatto nel comprare il palazzo di Londra è perché “le acquisizioni di immobili a fini di investimento non possono essere compiute dalla segreteria di Stato, essendo riservate all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica”, né “la segreteria di Stato può impiegare in operazioni i fondi ricevuti per finalità benefiche come l’Obolo di San Pietro”.

Ma entrambe le motivazioni non reggono. Fino al dicembre del 2020 la segreteria di Stato aveva la piena disponibilità dei suoi fondi e papa Francesco in persona, nella conferenza stampa del 26 novembre 2019 sul volo di ritorno dal Giappone, proprio nel rispondere a una domanda sull’affare di Londra, aveva caldamente lodato la “buona amministrazione” – “da noi si dice ‘un investimento da vedove’” – che “può comprare una proprietà, affittarla, e poi venderla”, per così far fruttare i suoi denari, tutti, “anche l’Obolo di San Pietro”.

Lo scorso 27 marzo, in Vaticano, Francesco ha aperto l’attuale anno giudiziario con un discorso in cui ha fatto balenare “modifiche normative” – presto tradotte in pratica in un "motu proprio" del 30 aprile – per poter processare alla pari tutti i membri della Chiesa, “senza più privilegi risalenti nel tempo”. Come a dire che in un futuro processo per l’affare di Londra potrebbero finire alla sbarra – oltre al cardinale Becciu, già condannato prima ancora di sapere perché – anche il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e il sostituto Peña Parra, finora non sottoposti ad alcuna indagine pur essendo palesemente coinvolti nella vicenda.

C’è da chiedersi come sia possibile che la magistratura vaticana, dopo anni di aggiustamenti e cambi di personale, sia così clamorosamente allo sbando.

Un osservatore tra i più attenti fa risalire i continui errori di forma e di sostanza in cui essa incappa anche al suo essere composta nella quasi totalità da magistrati italiani che lavorano non a tempo pieno ma a intermittenza, continuando a svolgere il loro lavoro di avvocati in Italia, e quindi con scarsa applicazione sui casi più intricati.

Il solo che lavora a tempo pieno è il presidente del tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, in carica dal 3 ottobre 2019, giudice italiano ora in pensione famoso per aver istruito anni fa a Roma il processo impropriamente intitolato “Mafia Capitale”.

Curiosamente, però, Pignatone continua a scrivere sul quotidiano “La Stampa”, che fa parte del gruppo editoriale più attivo nel denunciare i malaffari del Vaticano, spesso con documenti inediti provenienti proprio da lì. E nell’ultimo suo articolo, del 12 aprile, ha ammesso che vi possano essere “interventi impropri, abusi e irregolarità di comportamento di singoli magistrati”, ma ha criticato soprattutto quel “giornalismo che è più incline ad anticipare future (e solo eventuali) condanne, specie se in danno di un avversario”, violando l’aureo principio della non colpevolezza di qualsiasi imputato prima della sentenza.

Papa Francesco non è magistrato né giornalista. Ma della giustizia vaticana è lui il “dominus” supremo. Quel che lì accade è anche opera sua.