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mercoledì 9 dicembre 2020

Porfiri: "Adoro te devote"

Un altro interessante approfondimento del Maestro Porfiri, pubblicato da Stilum Curiae.
Luigi


ADORO TE DEVOTE. UN GIOIELLO PREZIOSO DEL GREGORIANO.

6 Novembre 2020 Pubblicato da Marco Tosatti 
[...]

Parlare di un inno liturgico che ha avuto un successo popolare come Adoro te devote è facile e difficile allo stesso tempo. Facile in quanto si pensa che esso sia di dominio pubblico ma difficile in quanto proprio questa sua popolarità quasi lo sottrae oramai ai rigori dell’approccio storico, come se esso fosse oramai consegnato al popolo in una specie di approccio metastorico e intemporale. Cerchiamo di capirci qualcosa.

Bisogna dire qualche parola sull’origine di questo inno. Userò la versione tradizionale dell’inno, più conosciuta. Sono perfettamente consapevole che esiste una recensione del testo più moderna che accetta alcune modifiche allo stesso testo, ma ho deciso di non tenerne conto qui. Si riferisce alle traversie del testo il predicatore della casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa che ha dedicato all’inno un testo molto interessante: “Sono stati fatti tentativi di stabilire il testo critico dell’inno in base ai pochi manoscritti esistenti anteriori alla stampa. Le varianti rispetto al testo che conosciamo non sono molte. La principale riguarda proprio i primi due versetti di questa strofa che, secondo Wilmart, all’origine suonavano così: Adoro devote latens veritas /Te qui sub his formis vere latitas, dove “veritas” starebbe per la persona di Cristo e “formis” sarebbe l’equivalente di “figuris”. Ma a parte il fatto che questa lettura è tutt’altro che sicura [2], c’è un altro motivo che spinge ad attenerci al testo tradizionale. Questo, come altri venerandi inni liturgici latini del passato, appartengono alla collettività dei fedeli che lo hanno cantato per secoli, lo hanno fatto proprio e quasi ricreato, non meno che all’autore che lo ha composto, spesso, del resto, rimasto anonimo. Il testo divulgato non ha meno valore del testo critico ed è con esso infatti che l’inno continua ad essere conosciuto e cantato in tutta la Chiesa” (RANIERO CANTALAMESSA (2004) “”Contemplando Te tutto vien meno”: riflessioni sull’Eucaristia di padre Raniero Cantalamessa” in Zenit).

Tradizionalmente questo canto viene attribuito a San Tommaso d’Aquino, ma esiste più di un dubbio su questa attribuzione. La tradizione lo attribuisce da sempre al grande santo anche se manca l’evidenza storica di questo fatto. Lo scrittore Celso Morga, in un suo libro dedicato proprio al nostro inno, lo dice chiaramente: “L’autore dell’inno eucaristico Adoro te devote è stato un grande teologo e mistico. L’inno è un prodigio di viva fede, di ferma speranza, di amore appassionato. Mancando una certa documentazione scritta, la tradizione è stata fortemente favorevole all’attribuzione dell’inno a San Tommaso d’Aquino (1224/25-1274). Il medesimo contenuto teologico-spirituale segue da vicino la dottrina sull’Eucaristia esposta da san Tommaso, soprattutto nella terza parte della Summa Teologica” (CELSO MORGA, “Adoro te devote – La devoción eucaristica”, Ediciones Palabra, p. 7). Altri, come il padre Jean-Pierre Torrell (vedi la recensione di ROLAND HISSETTE a: Jean-Pierre Torrell, Initiation à saint Thomas d’Aquin. Sa personne et son œuvre ; Jean-Pierre Torrell, Saint Thomas d’Aquin, maître spirituel. Initiation 2. In: Revue Philosophique de Louvain. Quatrième série, tome 96, n°2, 1998. pp. 326-329) ne difendono la paternità tomistica.

L’inno viene inserito nel Messale Romano di Pio V (14 luglio 1570) come preghiera di ringraziamento dopo la messa (In gratiarum actione post missam). Se non è San Tommaso l’autore, l’inno è stato comunque composto negli anni in cui è vissuto questo gigante del pensiero cattolico (XIII secolo) e ne riflette in buona parte, come detto sopra, la teologia eucaristica. Ricordiamo che in questi secoli, fino a Trento e oltre, la dottrina eucaristica passa attraverso varie fasi lunghe e tortuose, toccando temi teologici delicati e complessi che non è mio compito svolgere in questo scritto.

L’inno è composto di sette strofe di quattro versi ognuna. Viene osservato che la sua struttura metrica è molto interessante e lo rende molto originale per il periodo in cui è stato composto. La melodia di V modo che appartiene al periodo post-classico della stagione del canto gregoriano è semplice e spontanea, racchiusa tutta nell’ambito di un’ottava e alla portata di qualunque gruppo di cantori, anche non molto esperti (IGINO CECCHETTI (1948), “Adoro te devote” in Enciclopedia Cattolica, 326-327. Vedi anche: L. JEAN LAUAND, “Es Santo Tomas el autor del Adoro te Devote?” reperibile in internet). Sembrerebbe questa melodia essere stata composta successivamente rispetto al testo, dopo il XVII secolo, un testo che secondo l’ipotesi di padre Paul Murray OP (PAUL MURRAY (2013). Aquinas at Prayer. The Bible, Mysticism and Poetry. London: Bloomsbury) all’inizio veniva recitato semplicemente come una preghiera.

Cosa ci dice dell’Eucaristia questo inno? Nella materia dell’Ostia Dio si nasconde, si cela, così che i nostri sensi (visus, tactus, gustus in te fallitur!- sed auditu solo tuto creditur) non arrivano a percepirlo. È interessante in questo punto notare quello che alcuni tomisti giudicano come una sorta di “errore” e che pregiudica per loro l’attribuzione dell’inno a Tommaso: “Se tutti i sensi, nella dottrina aristotelica della conoscenza, sono abilitati alla concezione primaria del reale senza errore, perché l’udito può sottrarsi all’evidenza del pane e del vino e giungere fino alla conoscenza di ciò che sta oltre l’apparenza? Si tratta di un errore o c’è altro? Tommaso d’Aquino poeta dialoga con il filosofo ma anche con la lingua emblematica della tradizione cristiana e può trascendere anche il piano immediato delle dottrine filosofiche per metterne in discussione la stessa consistenza autoreferenziale. Quell’auditus, cioè, che fa credere con sicurezza, non fa parte della compagine dei sensi, secondo il canone aristotelico, ma bisogna trovare un’altra fonte di significato magari dentro la tradizione scritturale cristiana o la stessa scrittura tomista” (ANTONIO GAGLIARDI (2002), Tommaso d’Aquino e Averroè – La visione di Dio, Ed. Rubbettino, p. 260). Dio sembra giocare, attraverso i versi di questo poeta, con le nostre concezioni teologiche e filosofiche. Continua anche qui, in un certo senso, a nascondersi. Non dimentichiamo il rapporto profondo esistente fra teologia e poesia. Hans Urs Von Balthasar, nella sua presentazione al capolavoro di Divo Barsotti La fuga immobile, riconosce nel grande mistico toscano proprio questa capacità di saper fare teologia attraverso il suo istinto poetico. La stessa Divina Commedia non è che un trattato teologico in versi.

Questo nascondersi di Dio, dicevamo in precedenza, questo gioco d’amore con l’amata, questo donarsi sottraendosi, riecheggia la tradizione biblica, anche veterotestamentaria. Basta ricordare per esempio quanto detto in Isaia 45, 15: “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore”. Lo stesso Isaia, poco prima (8, 17) afferma: “Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui”. Nel salmo 89, al versetto 47 viene detto: “Fino a quando, Signore, continuerai a tenerti nascosto, arderà come fuoco la tua ira?”. Dio abita in una “nube inaccessibile”. Così anche nel Cantico dei Cantici, luogo simbolo di queste schermaglie amorose, assistiamo ai tormenti della Sposa (che prefigura la Chiesa) in affannosa ricerca dello Sposo (Cristo). Questo tema del nascondersi percorre in diversi modi l’inno in questione. Non solo nel famoso primo verso, ma anche negli altri versi, in cui la tensione si giocherà tra il nascondersi di Dio e lo smarrirsi dell’uomo. E non è forse questa la storia della nostra vita, della vita della Chiesa? Questo rincorrere (rincorrersi?) della Sposa verso il suo Sposo, della nostra anima verso un senso che ci strappi dal tedioso e chiuso presente?

“Latens Deitas” in alcune traduzioni viene reso come “Dio nascosto” mentre in altre, forse più opportunamente, viene reso come “deità nascosta”. Questa seconda ci sembra più suggestiva: vi si afferma tutto l’indicibile mistero che è l’Eucaristia, che noi adoriamo non vedendo (“Deus-Dio”) ma intravedendo (“deitas-deità”). L’uomo non può che adeguarsi al gioco di Dio, tentando di carpirne i giochi d’amore.

Padre Cantalamessa, autore di un libro a commento proprio di questo inno, offre una lettura suggestiva proprio dell’inizio dello: “In ogni strofa dell’Adoro te devote c’è un’affermazione teologica e una invocazione che è la risposta orante dell’anima al mistero. Nella prima strofa la verità teologica evocata riguarda il modo di presenza di Cristo nelle specie eucaristiche. L’espressione latina “vere latitas” è densissima di significato; vuol dire: sei nascosto, ma ci sei veramente (dove l’accento è sul “vere”, sulla realtà della presenza) e vuol dire anche: ci sei veramente, ma nascosto (dove l’accento è su “latitas”, sul carattere sacramentale di questa presenza). Per comprendere questo modo di parlare dell’Eucaristia bisogna tener conto della “grande svolta” che si verifica circa l’Eucaristia nel passaggio dalla teologia simbolica dei Padri e quella dialettica della Scolastica. Essa ha i suoi remoti inizi nel secolo IX, con Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie: il primo difensore di una presenza fisica e materiale di Cristo nel pane e nel vino, il secondo di una presenza vera e reale, ma sacramentale, non fisica; esplode però apertamente solo più tardi, con Berengario di Tours (H 1088) che accentua a tal punto il carattere simbolico e sacramentale di Cristo nell’Eucaristia da compromettere la fede nella realtà oggettiva di tale presenza. Mentre prima si diceva che Cristo nell’Eucaristia è presente sacramentalmente, o, secondo gli orientali, mistericamente, ora, con un linguaggio mutuato da Aristotele, si dice che è presente sostanzialmente, o secondo la sostanza. Figura non indica più, come sacramentum, l’insieme dei segni con cui si realizza la presenza di Cristo, ma semplicemente le “specie o apparenze” del pane e del vino, nel linguaggio tecnico, gli accidenti. Il nostro inno si colloca chiaramente al di qua di questa svolta, anche se evita il ricorso ai nuovi termini filosofici, poco appropriati in un testo poetico. Nel verso “quae sub his figuris vere latitas”, il termine figura indica le specie del pane e del vino in quanto nascondono quello che contengono e contengono quello che nascondono” (CANTALAMESSA 2004). Ma questo nascondersi è anche un rivelarsi, in questo gioco di luci ed ombre che troviamo anche ben rappresentato nel Cantico dei Cantici, metafora dell’amore nuziale fra Dio e l’umanità. Troviamo eco di questo in questo passaggio dell’omelia di Benedetto XVI per la festa dell’Epifania, 6 gennaio 2009: “L’Epifania, la “manifestazione” del nostro Signore Gesù Cristo, è un mistero multiforme. La tradizione latina lo identifica con la visita dei Magi al Bambino Gesù a Betlemme, e dunque lo interpreta soprattutto come rivelazione del Messia d’Israele ai popoli pagani. La tradizione orientale, invece, privilegia il momento del battesimo di Gesù nel fiume Giordano, quando egli si manifestò quale Figlio Unigenito del Padre celeste, consacrato dallo Spirito Santo. Ma il Vangelo di Giovanni invita a considerare “epifania” anche le nozze di Cana, dove Gesù, mutando l’acqua in vino, “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). E che dovremmo dire noi, cari fratelli, specialmente noi sacerdoti della nuova Alleanza, che ogni giorno siamo testimoni e ministri dell’”epifania” di Gesù Cristo nella santa Eucaristia? Tutti i misteri del Signore la Chiesa li celebra in questo santissimo e umilissimo Sacramento, nel quale egli al tempo stesso rivela e nasconde la sua gloria. “Adoro te devote, latens Deitas” – adorando, preghiamo così con san Tommaso d’Aquino”.

Questo nascondimento/svelamento, fa anche parte della strategia di Dio per salvaguardare la libertà dell’uomo, come ben ci ha insegnato nella sua decennale opera di apologeta un grande scrittore cattolico come Vittorio Messori. Questo chiaroscuro che lui mette in risalto in molti suoi scritti è certamente un tema centrale della nostra fede.

L’uomo è chiamato a farsi presente al sacrificio di Cristo che chiede di ripetere quel gesto (incruentamente) a sua memoria. Noi nei secoli ci riuniamo per celebrare questo “memoriale”. E infatti nell’inno questo è puntualmente riportato: “O memoriale della morte del Signore.” E questo memoriale per la nostra fede non è una semplice “memoria”. Memoria è qualcosa che noi ricordiamo, accaduta nel passato. Il memoriale è riportare all’oggi quello che è accaduto nel passato, riviverlo. E’ riconoscere “Gesù Signore”, affermarlo come tale oggi, adesso. Quindi noi potremmo vedere questi come i due termini estremi del viaggio spirituale dell’uomo, tra una “deità” che si nasconde e un Gesù Signore che si rivela, il tutto sulle ali spazio-temporali di questo “memoriale”. In questi due lati dell’oceano dello Spirito c’è la navigazione delle anime (non a caso simboleggiate spesso nella pittura con il simbolo della “navicella”) tra il non visto e il desiderato, tra cielo e terra, tra sensi e cuore. Questo Dio che ci parla nel silenzio ci sfida. Non sottovalutiamo il sapore di questa sfida, non dimentichiamo cosa significa scontrarsi con i suoi alti silenzi: “Dio, rivelandosi, non si è soltanto detto, ma si è anche più altamente taciuto. Rivelandosi Dio si vela. Comunicandosi si nasconde. Parlando si tace. Maestro del desiderio, Dio è colui che dando a te se stesso, al tempo stesso si nasconde al tuo sguardo. Dio è colui che rapendoti il cuore, chiamandoti a consegnarti a Lui, sembra a te sempre nuovo e lontano” (BRUNO FORTE (2002), Confessio Theologi, Cronopio editore, Napoli, pagg. 26-27; non si può negare che alcune intuizioni poetiche di questo teologo, anche se controverso su molti temi, sono molto efficaci e suggestive). E questo “memoriale” della morte del Signore Gesù lo abbiamo sotto le sembianze di quel pane che è l’ostia, quel pane che quindi per noi è “pane vivo” attraverso cui anche noi partecipiamo a questo mistero di salvezza che è la vita di Cristo offerta in sacrificio per noi.

Il medioevo, come è noto, è periodo di forte uso di simboli e allegorie. Una di queste è usata dall’autore dell’inno in questione, quando chiama Gesù Eucaristia “pellicano amoroso.” Secondo la leggenda medioevale i piccoli del pellicano, dopo essere un poco cresciuti, colpiscono il volto dei genitori. Questi ultimi, presi dalla rabbia li battono fino a farli morire. Ma poi, mossi dalla compassione, li piangono per tre giorni. Il terzo giorno la madre dei piccoli si ferisce il fianco e ne fa uscire il suo sangue che si versa su di loro e li resuscita. Quindi questa immagine si presta ad una doppia simbologia: è Dio padre che dona il Figlio e lo lascia morire in croce e lo fa rivivere dopo tre giorni; è Cristo stesso che effonde il suo sangue per la salvezza di tutti (“di quel sangue una sola goccia può salvare il mondo intero da ogni crimine”). È quel sangue che ci purifica, come detto nella musicale sesta strofa: “me immundum munda Tuo sanguine!” Non dimentichiamo Dante che nel canto venticinquesimo del Paradiso fa dire a Beatrice, indicando l’apostolo Giovanni: “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto/ del nostro pellicano, e questi fue/ di su la croce al grande officio eletto”.

Uno dei passi più interessanti dell’inno, mi sembra quello che si trova alla terza strofa, nei primi due versi. Sembra quasi un velato rimprovero: “quando eri sulla croce almeno potevamo vedere la tua umanità, anche se la tua divinità rimaneva nascosta, ora non intravediamo neanche quella!” Mi piace molto questo buon senso “contadinesco”, al di fuori di certe romanticherie devozionalistiche…

“Dove sei?” Ecco la domanda che sorge da questi versi. Anche i salmi, pur chiamandolo “stoltizia”, riconoscono questo dubbio che si insinua nelle nostre carni, che ci accompagna costantemente: “Lo stolto pensa: non c’è Dio” (Sal 14, 1). Un bell’inno inglese di autore anonimo così traduce questo passo: “The God who sits enthroned on high/ The foolish to their heart deny” (“Il Dio che siede nel suo alto trono/ il folle nel suo cuore nega”).

La parola ebraica per stolto è “nabal”, che nei suoi significati ha anche quello di “abbandonato”. È interessante questa prospettiva: non è soltanto l’uomo che non trova Dio ma, in un certo senso, è l’uomo che non si riesce ad abbandonare a Dio. E quindi ecco la Chiesa che non lo annuncia come dovrebbe. Madre Teresa di Calcutta diceva che io e te siamo i due capi di un filo della corrente e la corrente e Dio ma, aggiungo io, ci vuole qualcuno che prema fisicamente l’interruttore.

L’uomo non può che fidarsi, non può che scommettere (Pascal…) su Gesù, non può che affidarsi ad una “ragionevole fiducia” (come la chiama il più che controverso Hans Kung). In questo senso ogni uomo ha in sé il buon ladrone e quello “cattivo”. La nostra vita si svolge ai due lati della croce di Cristo e noi siamo un po’ l’uno e un po’ l’altro ladrone, con la speranza di avere sempre la sincera consapevolezza di chiedere quello che chiese il ladrone penitente (“peto quod petivit latro penitens”), quando sulla croce esclamava: “ricordati di me, quando sarai in paradiso”. Osserviamo qui qualche altro elemento interessante: è geniale questo richiamo evangelico in collegamento con l’incredulità umana. Già, noi siamo spesso increduli, ma ci consoliamo pensando che anche coloro che erano in presenza di Gesù stesso potevano esserlo. E la scelta per Gesù dei due ladroni, in positivo e in negativo, è fatta in croce. La croce è il prezzo di ogni scelta radicale, e proprio nel suo essere questa scelta esclusiva ed escludente, è peso che portiamo comunque sopra le nostre spalle. Sia chi crede, sia chi non crede porta con sé il senso di questa lacerazione, porta con se questo essere chiamato ad affermare o negare qualcosa che inevitabilmente ci supera, ma che nel contempo ci è presente, porta con sé i chiodi del dubbio e dell’attesa che ci lacerano le carni.

Ma quale è il paradosso in questa lontananza? Gesù non è un Dio lontano, un Dio che potremmo incasellare nel comodo spazio della divinità che se ne sta per conto suo, in qualche “cielo” distante. Dio è l’Emmanuele, il Dio con noi. Dio è promessa, è Avvento e quindi attesa. Mi è sempre piaciuta molto una poesia di Clemente Rebora che si apre con questi versi: “Dall’immagine tesa/ fisso l’istante/ con imminenza di attesa-/e non aspetto nessuno”; che bello questo contrasto! Fissiamo l’istante con imminenza di attesa, aspettiamo, aspettiamo, ma in realtà sembra come se non aspettiamo nessuno. Questa è la lacerazione che viviamo nella nostra carne. Ma la poesia dice appena poco più avanti: “ma deve venire;/ verrà, se resisto,/ a sbocciare non visto,/ verrà d’improvviso,/ quando meno l’avverto:/ verrà quasi perdono/ di quanto fa morire,/ verrà a farmi certo/ del suo e mio tesoro,/ verrà come ristoro/ delle mie e sue pene,/ verrà, forse già viene/ il suo bisbiglio.” Straordinaria! Il poeta pubblicherà questa lirica nella sua raccolta Canti anonimi, e la stessa raccolta segnerà una tappa della sua conversione che lo porterà a diventare sacerdote.

Ma l’uomo? Già, ancora torniamo sull’uomo, l’essere umano, ogni essere umano (forse vale la pena precisare che quando parlo di “uomo” mi riferisco non a quello che corrisponderebbe al latino “vir”, cioè il maschio, ma all’essere umano in generale; si noterà infatti che uso i due termini in modo intercambiabile. Quindi in questo contesto “uomo” significa uomo o donna alla stessa maniera…). Fino ad ora ci siamo più soffermati sull’iniziativa di Dio (o su quello che l’inno ci dice di questa). Una iniziativa ad un livello spesso a noi non facilmente comprensibile. Ma cosa ci dice l’inno sull’uomo? Comincerei col dire una cosa importante. La visione antropologica che l’inno ha è sorprendentemente moderna. In esso si trova l’appello a tutte le facoltà dell’essere umano, all’essere umano integrale. L’uomo non è solo mente, contro una visione razionalistica ma non è neanche solo cuore, contro una visione romantica (anche perché queste tendenze si affermeranno compiutamente solo secoli dopo la data di composizione dell’inno). L’uomo è “cuore, vista, tatto, gusto, udito, mente…” L’uomo è tutto l’uomo, che interamente è redento da Cristo, non solo una sua parte. E quindi è l’uomo completo che viene salvato in tutta la sua integrità e fragilità. E questa fragilità è magistralmente simboleggiata proprio dai nostri sensi, porte verso la vita ma anche pericolosi accessi per innumerevoli tentazioni. Il contrasto più immediato che si può rilevare è quello tra mente e cuore. L’inno dice: “Il mio cuore ti è sottomesso perché contemplandoti tutto viene meno.” Cosa ci dice questo? Che il nostro cuore non può che adeguarsi alla “ragionevole fiducia” perché più tentiamo di immergerci in questo grande mistero, più tentiamo di adorare devotamente, più l’oggetto della nostra contemplazione sembra allontanarsi. Ma in realtà non si allontana, ma si avvicina, rendendo i nostri sensi inadeguati alla sua intimità. Ecco perché i sensi si perdono in Lui, ma questo perdersi è un male? Come far passare alla nostra mente razionale che il ritrovarsi in Lui vuol dire smarrirsi? È così ci troviamo ad invocare il dono dello smarrimento, non lo smarrimento “vuoto”, ma lo smarrimento d’amore, lo smarrimento che non sa perché conosce troppo, lo smarrimento dei mistici. E quanto talvolta vorremmo che questo dono, sigillo della nostra fragilità, ci facesse più aperti agli altri e meno orgogliosi dei nostri precetti e delle nostre sicurezze (e questo sia a livello individuale, sia a livello sociale ed ecclesiale…). Queste sono le figlie della Parola di Dio (non sempre fedeli…), non ne sono la ragione. Se riscoprissimo in profondità la nostra fragilità e il mistero che si cela dentro l’animo umano, con quanta più prudenza condanneremmo, con quanta più attenzione ascolteremmo…Ricordiamo che la potenza del sacro è più “anarchica” rispetto alla regolarità del profano: “Il sacro non ammette costrizioni, restrizioni o definizioni; non ammette regole precostituite né leggi necessarie. Esso è dalla parte del caos. Il profano, anche da questo punto di vista, è il suo opposto. Nell’esistenza quotidiana, retta dalla profanità, vi sono leggi e regole, senza le quali non si potrebbe vivere. Il profano è dalla parte del cosmo. Ma anche il rito è fatto di regole senza le quali non potrebbe esistere. Il rito è cosmo e, in questo senso, appartiene al profano. Si tratta, però, di un cosmo che, per il modo delle sue regole, ossia delle sue azioni e dei suoi simboli, rimanda alle origini precosmiche, caotiche, e, per questo, appartiene al sacro. Il rito è tra il cosmo e il caos, tra il profano e il sacro. Non è possibile all’uomo un rapporto immediato col sacro, né sarebbe, per lui, sopportabile la caduta nel caos. Il rito appare, così, come la mediazione indispensabile grazie alla quale l’uomo può aprirsi all’origine ultima del suo essere, al sacro, senza essere divorato dal vortice di quell’origine. La liturgia, rito cristiano, è la grazia concessa all’umanità di accedere a Dio senza morire per averlo visto” (GIORGIO BONACCORSO, “Il rito e l’altro”, (Libreria editrice Vaticana) 38).

L’autore dell’inno, e ciascuno di noi, non può che invocare un aiuto: “Fa che sempre di più io creda in te, abbia speranza in te, ami te…concedi alla mia mente di vivere di te…”. E poi abbandonarsi alla ragionevole fiducia: “credo qualsiasi cosa ha detto il Figlio di Dio, nessuna verità è più vera di questa…non scruterò le piaghe come Tommaso, anzi ti affermo mio Dio…vedendo il tuo volto svelato io sia beato alla vista della tua gloria.” Ma su cosa si fonda la nostra “ragionevole fiducia”? Si fonda su quanto abbiamo ascoltato, su quanto ci è stato testimoniato, su quanto ci è stato annunciato. Tutti i sensi falliscono ma “solo l’udito fa credere con certezza”. Solo quanto ascoltiamo nelle Scritture, quanto ci viene dalla Tradizione, garantisce la nostra ragionevole fiducia. Una è legata all’altra, sono le due colonne dello stesso Tempio. Ricordiamo che uno dei significati della parola latina “adorare” è proprio quello di “parlare a qualcuno.” Un dialogo che si svolge nel silenzio e nell’ascolto reciproco. Ma anche qui dobbiamo affrontare un’altra difficoltà. Quello che ascoltiamo ci basta, ci garantisce la luce piena, ci garantisce la salvezza di per sé?

In un romanzo giallo di successo, si narra dell’incontro di due giovani all’università americana di Princeton. Uno è figlio di un famoso studioso scomparso da poco, l’altro è un ammiratore di questo famoso studioso. Un dialogo che si svolge tra i due ci aiuta ad addentrarci in questo aspetto: ““Non sai niente di lui.” “Si, invece. Ho letto tutti i suoi libri.” “Ascolta…” “Ho persino trovato la sua tesi di laurea…”Lui non è un libro. Non puoi semplicemente leggerlo”” (IAN CALDWELL e DUSTIN THOMASSON (2004), “Il codice dei quattro”, Piemme editore, Casale Monferrato, pag. 54). E noi, Cristo, possiamo semplicemente “leggerlo”? Questo solo ci appaga, rende salda la nostra fede-fiducia? Una fede fondata su un mistero così profondo non può che renderci umili e disponibili, aperti perché “sorpresi dalla verità”. Una fede così non può solo essere “letta.” Essa non segue qualcosa, ma Qualcuno, che crediamo misteriosamente presente sotto le sembianze del pane e del vino. Del resto questo viene affermato anche dal grande pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira che dice: “La conquista della verità inizia con l’essere una lenta esplicitazione di ciò che già si conosce. Non è attraverso un libro, ma mettendo in ordine delle cose nuove di cui man mano veniamo a conoscenza, sempre in funzione di quel buon senso fondamentale, di quelle prime evidenze. […] La conquista della verità è più o meno una marcia de proche en proche. Dalle verità che conosco, non salto subito alle ultime verità, ma cammino invece, modestamente, in direzione di quelle più prossime. Poi, camminerò da esse verso altre ancora, anche se avessi già intuito la verità ultima; perché talvolta capita di intuire la verità ultima. Costruisco la dimostrazione de proche en proche. Ma lo faccio senza appariscenza né chiasso, in maniera umile, solida, organica, senza agitazione. A tal proposito, sostengo che il nostro miglior libro – di lunga! – siamo noi stessi. Anzi, noi non siamo un libro, ciascuno di noi è un’intera biblioteca, che contiene immensamente di più delle biblioteche dove si trovano i libri. Nessuno ha mai scritto tutto ciò che si può trovar nella mente di un uomo. […] Cosa fa un libro? Mi aiuta a cogliere alcuni dati di cui ho bisogno, mi mette a disposizione qualche pensiero ben trovato da qualcun altro, ma non capita mai di riversare tutto un libro nella la mia testa, alla maniera cristiana. Davvero, è così! Il libro è un semplice deposito di materiali per la mia costruzione. Non si tratta, dunque, di leggere tutto quanto, né di essere a conoscenza di tutti gli argomenti, ma di trarne una nozione basica, fondamentale, solida, che talora non si riesce nemmeno a saper dimostrare in una discussione. Quale è allora il test della certezza? La consonanza tra quanto si afferma e i dati provenienti dal buon senso che tutti possiedono. Sostengo che è da questo processo mentale che nascono le certezze, perché si tratta di una certezza iniziale, che andrà sviluppandosi de proche en proche. In fin dei conti, però, essa non è altro che una proiezione del senso del bene e del male, e di quel senso innato della verità e dell’errore, che si affina e diventa sempre più rigoroso” (Plinio Corrêa de Oliveira in: Roberto de Mattei, Plinio Corrèa de Oliveira, apostolo di Fatima, Profeta del regno di Maria).

Così, aldilà di tante letture della vita cristiana e della liturgia solo come celebrazione del lato bello e buono della vita (“Cristo è risorto!”), c’è forse una prospettiva più giusta e umana, quella di una rinnovata attenzione alla dimensione integrale della persona e al suo rapporto con il Mistero che la sovrasta. Rapporto che non si risolve comandando una sorta di “sentimentalismo forzato”, come nel devozionalismo (corruzione della devozione), ma orientandosi ad una scelta matura d’amore e accettandone le conseguenze. Quel Pane vivo è lacerato dal nostro stesso dolore, che Lui ha voluto prendere sopra di sé. Quel Pane vivo non sopporta l’abitudine, non è una pillola che si prende e passa il mal di testa. Quel Pane vivo ci chiama un amore segreto eppure universale (“i molti grani che formano un solo pane…”). Quel Pane vivo ci cerca…Non sempre ci si trova subito, non è mai semplice; ma è necessario mettersi sulla strada per aspettarlo (o Lui già ci attende?).

Nell’udienza del 17 novembre 2010, Benedetto XVI diceva: “Cari amici, la fedeltà all’incontro con il Cristo Eucaristico nella Santa Messa domenicale è essenziale per il cammino di fede, ma cerchiamo anche di andare frequentemente a visitare il Signore presente nel Tabernacolo! Guardando in adorazione l’Ostia consacrata, noi incontriamo il dono dell’amore di Dio, incontriamo la Passione e la Croce di Gesù, come pure la sua Risurrezione. Proprio attraverso il nostro guardare in adorazione, il Signore ci attira verso di sé, dentro il suo mistero, per trasformarci come trasforma il pane e il vino. I Santi hanno sempre trovato forza, consolazione e gioia nell’incontro eucaristico. Con le parole dell’Inno eucaristico Adoro te devote ripetiamo davanti al Signore, presente nel Santissimo Sacramento: “Fammi credere sempre più in Te, che in Te io abbia speranza, che io Ti ami!””.

Ecco, meditando l’Adoro te devote ci innalziamo sulle ali della più alta devozione eucaristica.