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martedì 29 settembre 2020

Oltre il caso Becciu: paralleli tra liturgia ed economia. Ed arte.

Dall'amico Gabriele Marasti, un intelligente contributo a certi aspetti della vicenda di Becciu che rileva la crisi drammatica della Chiesa di oggi, spesso al traino delle ideologia dominanti.
Luigi

Sul caso Becciu, tornato alla ribalta della cronaca negli ultimi giorni per via delle sue dimissioni, si è scritto tanto e sono state date per scontate spesso delle supposizioni ancora da dimostrare. Questo, d’altronde, è l’atteggiamento tipico della stampa che osserviamo in occasione di ogni scandalo finanziario. Per mancanza di prove, non entro e non m’interessa entrare nel merito dell’affaire di Londra o dell’utilizzo dell’Obolo di San Pietro. Nell’eventualità in cui una parte del patrimonio Vaticano sia stata effettivamente sperperata, è logico considerare due ipotesi: può essere avvenuto per bramosia (per averne un profitto personale) o semplicemente per sprovvedutezza.

Se di bramosia parliamo, poco c’è da scrivere. Storie di quel tipo, a Roma, hanno luogo da decine di secoli. Paradossalmente, più interessante potrebbe essere invece la casistica dell’“errore”. E in questo caso il focus non sarebbe più sul nostro Cardinale, ma sulla situazione ecclesiale in generale.

 Nel Medioevo in Italia sorsero in ambito francescano i Monti di Pietà, con i quali si sviluppò il microcredito che permise di aiutare molte persone in difficoltà e, allo stesso tempo, di accumulare ingenti fortune per gli stessi ordini ecclesiastici (si legga Carmelo Ferlito a riguardo: “Dentro la Crisi”, cap. III o “Il Monte di Pietà di Verona”). In realtà tale istituzione, con le varianti del caso, si diffuse presto nel resto d’Europa e se oggi gli inglesi chiamano i mutui “mortgage” è per via dei prestiti ipotecari che i monaci francesi avevano istituito nel XII secolo (dal francese antico, mort gage). Sempre nella cattolicissima Italia, tra il XIV e il XV secolo sorsero le prime banche, i primi uffici di cambio, le prime assicurazioni (addirittura già nel 1393 a Venezia associazioni di assicuratori che oggi definiremmo multi-party risk pools si divisero il rischio di un carico di lana verso Maiorca), e nel XV e il XVI secolo il frate e matematico Luca Pacioli fondò la ragioneria con il suo “Tractatus de computis et scripturis” (si legga “La Vittoria della Ragione” di Rodney Stark).

Nel XVI secolo fiorì in Spagna la cosiddetta Scuola di Salamanca, una proficua scuola di teologi scolastici che ha posto le basi, tra le altre cose, della moderna economia politica. Tra questi, citiamo il presbitero Domingo de Soto, il primo a studiare le fluttuazioni dei tassi di cambio a seconda delle relazioni tra domanda e offerta. Il sacerdote Saravia de la Calle scrisse sulla teoria soggettiva del valore mentre una schiera di domenicani e di gesuiti studiarono cause ed effetti dell’inflazione e le asimmetrie informative in cui inciampava lo stato nel guidare l’economia (si legga “The School of Salamanca” di Marjorie Grice-Hutchchinson).

Insomma, tagliando corto: anche se i moderni corsi universitari europei ignorano totalmente il fenomeno, la storia dell’economia politica, quella della finanza e quella della ragioneria sono intrise di Cattolicesimo.

 Ora, la domanda che sorge spontanea è: come mai, al di là del caso Becciu, la storia vaticana ed ecclesiale di questi anni è costellata da voragini finanziarie? Quando leggiamo di monaci, frati o prelati che (dolosamente o meno) delapidano centinaia di migliaia o milioni di euro, la domanda è: c’è qualcuno che controlla? La Chiesa riesce ancora ad utilizzare gli strumenti che essa stessa, nella sua mirabile sapienza, ha creato o contribuito a creare?

Le stesse finanze vaticane, come quelle della maggior parte delle diocesi italiane, risultano cronicamente in rosso. Un fenomeno così sistematico e così esteso suggerisce che non si tratta di qualcosa di accidentale.

 Probabilmente, ad un decadimento della teologia e della liturgia, è seguito un decadimento della conoscenza anche in ambito economico.

Paradossalmente (“segno di contraddizione”) quando il clero ha smesso di occuparsi di sovrannaturale (di Inferno, di Purgatorio, di angeli, di Comunione dei Santi…) ha perso il rapporto anche con il resto del reale. “Un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni […] Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere” [Matteo 7, 18-20].

Lo storico dell’arte Hans Sedlmayr (si legga “La Rivoluzione nell’Arte Moderna”) ci ha mostrato in maniera mirabile come tout se tient: l’arte, la musica, la poesia, la teologia, la filosofia… tutto è legato nel corso della storia. Tutto. Aggiungo io: anche l’economia.

Abbiamo smesso di costruire chiese belle per iniziare a farne di brutte. Abbiamo messo in soffitta un rito (quello di sempre) per inventarcene uno nuovo e più brutto (l’esteta Dorian Gray, nelle sue scorribande, andrebbe più a inebriarsi della bellezza della liturgia cattolica con il Novus Ordo Missae?). Abbiamo abbandonato il gregoriano per suonare il cajón. Infine, abbiamo resettato la nostra conoscenza in ambito economico per scimmiottare i vari Serge Latouche, per abbandonarci ai peggio cliché keynesiani o per farci abbindolare dai Bernie Sanders e Rafael Correa che chiamiamo a parlare alla Pontificia accademia delle scienze sociali (15 aprile 2016). Avremmo ancora dei colpi da sparare (penso a studiosi come Thomas Woods o Jesús Huerta de Soto) ma preferiamo recitare la parte della brutta copia del mainstream. Proprio come facciamo per l’arte sacra.

 In questi casi mi torna alla mente l’Allocuzione di Sua Santità Pio XI in occasione dell’inaugurazione della nuova Pinacoteca Vaticana del 27 ottobre 1932 nella quale, in riferimento all’arte, troviamo: “il nuovo non rappresenta un vero progresso se non è almeno altrettanto bello ed altrettanto buono che l’antico, e troppo spesso questi pretesi nuovi sono sinceramente, quando non anche sconciamente, brutti […]”.

 Abbiamo legittimamente cercato delle forme nuove. Però troppo spesso, purtroppo, siamo approdati in qualcosa di meno bello, meno buono e meno vero.

Anche in economia.

 Gabriele Marasti

2 commenti:

  1. I cosiddetti progressisti si mangiano tra loro. Sapevo che sarebbe finita così: il moralista ha ininterrottamente bisogno di un "cattivone" da estirpare, va bene anche un compagno, l'importante è non cessare mai di divorare, ne va della sopravvivenza dei "buoni".

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  2. Ed è solo l'inizio, ora voglio vedere come andrà a finire, la saga mi sta appassionando :-)

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La Redazione