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venerdì 17 gennaio 2020

Teologo e gentleman: il cardinale Newman

Un interessante approfondimento della figura del Beato John Henry Newman (1801-1890), apparso sul sito dell'Università Cattolica.
Luigi

Ivo Musajo Somma | 5 dicembre 2019

«Dio è ancora con noi e ci farà andare avanti nonostante questa perdita. Non dobbiamo nascondere la sua importanza, poiché è la perdita più grande che potesse capitarci. Coloro che lo hanno acquisito conoscono bene i suoi meriti… La nostra Chiesa non ha saputo trarne profitto. Era come se un’affilata spada dormisse nella sua guaina perché nessuno sapeva adoperarla. Era un uomo predestinato ad essere un grande strumento divino, in grado di realizzare un ampio progetto atto a restaurare la Chiesa… Se n’è andato – come tutti i grandi strumenti di Dio – inconsapevole della propria grandezza. Se n’è andato per compiere un semplice atto di dovere, senza pensare a se stesso, abbandonandosi completamente nelle mani dell’Altissimo. Così sono gli uomini su cui Dio fa affidamento. Si potrebbe dire non tanto che ci ha lasciato, ma che adesso si sia trasferito in un’altra zona della vigna, dove può utilizzare tutte le energie della sua mente possente…».
Così l’ecclesiastico e teologo anglicano Edward Pusey commentava nella lettera indirizzata a un amico la conversione di John Henry Newman (1801-1890) al cattolicesimo, avvenuta nell’ottobre del 1845. Comprensione, delusione, tristezza, sincero attaccamento si mescolano nelle espressioni usate in quel momento da chi era più vicino a Newman e aveva condiviso con lui gli anni intensi e appassionanti del "movimento di Oxford". John Keble, un altro della sua cerchia più intima, gli scrive: «Il fulmine si è abbattuto infine su di noi, e hai compiuto il passo che tanto temevamo […] prego Dio di benedirti e di ricompensarti mille volte per l’aiuto che mi hai dato, senza che io lo meritassi e, così, anche a molti altri. Che tu possa trovare la pace laddove ti rechi e che ci aiuti a trovarla… Con l’impressione di aver perso la primavera quest’anno, resto comunque pieno di affetto e di gratitudine». Non tutti i commenti, beninteso, furono commossi come quelli dei suoi amici: nell’Inghilterra di quegli anni era assolutamente intollerabile che un personaggio pubblico molto stimato e rispettato come Newman lasciasse l’anglicanesimo per convertirsi alla "religione papista" e, se qualcuno formalmente conservò il fair play, altri diedero la stura a tutto un repertorio di livore personale e pregiudizi antiromani. Davvero, come scriveva Pusey, Newman aveva compiuto un atto di dovere nei confronti della sua coscienza, rinunciando al prestigio sociale e a una vita piacevole e piena di soddisfazioni non per seguire una sua personale inclinazione, ma per amore di verità. Alla luce della sua esperienza personale, assume un significato molto più preciso la famosa teologia della coscienza di Newman, che non può prescindere dall’importanza centrale del concetto di verità.

Un percorso umano, intellettuale e spirituale, quello del futuro cardinale Newman, che aveva avuto un importante momento di svolta nel 1833, anno di nascita del "movimento di Oxford", il cui nucleo era costituito da un gruppo di ecclesiastici della "Chiesa alta" d’Inghilterra di notevole spessore intellettuale; costoro erano decisi a opporsi all’influenza del liberalismo e del razionalismo in ambito ecclesiale e a proporre una riforma della Chiesa d’Inghilterra secondo linee teologiche, liturgiche, ecclesiologiche di carattere tradizionale, epurando l’anglicanesimo da quel carattere protestante che, storicamente, era andato imponendosi. Newman e compagni, che rigettavano l’accusa di essere filo-cattolici, avevano concepito l’idea della Chiesa d’Inghilterra quale "via media" tra le eresie protestanti e le corruzioni e le devianze romane. A Oxford, luogo simbolo della cultura inglese, nella cui storica università, ancora in quegli anni, erano ammessi solo studenti e docenti che aderissero formalmente alla fede della Chiesa di Stato, il movimento suscita, almeno all’inizio, un grande fermento e notevole interesse, insieme a qualche diffidenza e piccate voci critiche da parte degli ambienti più connotati in senso evangelico e calvinista, che vi vedevano lo spettro dell’odiato papismo. Newman, ordinato sacerdote della Chiesa anglicana nel 1825, era all’epoca membro dell’Oriel College e vicario dell’antica chiesa universitaria di St. Mary, frequentata da studenti e professori e nella quale egli pronunciava sermoni e conferenze molto apprezzati, destinati ad accrescerne rapidamente la fama.

Innamorato dei Padri della Chiesa[1], è proprio attraverso gli studi patristici che Newman, a poco a poco, nel corso di anni di intensa elaborazione intellettuale e vita interiore, comincia ad avvicinarsi all’idea che la vera Chiesa dei Padri sia la Chiesa cattolica romana: «I Padri mi hanno fatto diventare cattolico» avrebbe affermato in seguito. Non è qui possibile seguire i momenti del sofferto itinerario di Newman verso l’approdo al cattolicesimo. Come già anticipato, è difficile immaginare quanto alto fu il prezzo della conversione: legami sociali e familiari, l’incarico a Oxford e il vicariato di St. Mary, una posizione di prestigio barattati con il pubblico disprezzo riservato ai papisti. Né si può dire che, pur con tutti gli entusiasmi destati in casa cattolica dalla sua conversione e le nuove promettenti relazioni che da essa nacquero, la nuova vita fu per lui sempre facile. 

Nel 1846 Newman, seguito dal fedele amico Ambrose St. John – un altro anglicano convertito che apparteneva, per dire così, alla cerchia dei suoi discepoli – partì alla volta di Roma per incontrare papa Pio IX, trascorrere un periodo di studio presso il collegio romano De Propaganda Fide e, infine, per ricevere l’ordinazione sacerdotale. Facendo tappa a Milano, Newman la definisce la città più interessante che abbia mai visto e ha per essa e per la sua antica e solida tradizione cattolica solo parole di ammirazione. Più complesso il suo giudizio su Roma (dov’era già stato anni prima), riguardo alla quale dice di sentirsi troppo inglese per riuscire ad amare veramente la città eterna, pur avvertendone appieno il significato spirituale e il suo legame unico con la fede cattolica.

Scegliere il modo migliore in cui istituzionalizzare l’esperienza di Newman e di quanti l’avevano seguito (o si accingevano a farlo) nel passaggio dall’anglicanesimo alla Chiesa cattolica fu un momento nodale. Da sempre appassionato cultore del monachesimo, Newman non riteneva però che questo potesse essere la sua vocazione: egli pensava a qualcosa che comportasse l’attività pastorale con i laici e al contempo il lavoro intellettuale, il tutto in un contesto ben regolato e ordinato, ma con un certo margine di libertà e senza eccessi rigoristici. Alla fine, la conoscenza della vita e della spiritualità di san Filippo Neri e l’incontro con l’Oratorio sciolsero i dubbi, anche se naturalmente si rese necessario qualche aggiustamento della regola ai fini di un migliore adattamento della congregazione – fondata da san Filippo nella Roma del XVI secolo – all’Inghilterra di metà Ottocento. Probabilmente l’Oratorio appariva agli occhi di Newman come particolarmente vicino alle sue inclinazioni e quanto di più simile potesse trovare all’ambiente di un college di Oxford dell’epoca, un modello che, per lui, non perse mai il suo fascino e il suo significato. L’esito della scelta di Newman fu, tra il 1848 e il 1849, la fondazione oratoriana di Birmingham, un terreno d’azione molto impegnativo in una città che vedeva una prorompente crescita economica e industriale, con tutto ciò che questo comportava in termini di tensioni sociali, povertà, criminalità, immoralità diffusa. Certamente un posto che faceva rimpiangere la pace di Oxford, al punto che l’inseparabile Ambrose St. John commentò: «Ci è toccato lavorare nella città più dura dell’Inghilterra!». L’Oratorio di Birmingham era destinato a lasciare un segno nel cattolicesimo inglese, come pure la comunità oratoriana londinese fondata poco più tardi.

Mentre Newman si impegnava a fondo per consolidare la fondazione dell’Oratorio, guidare la sua comunità e dare avvio a un’intensa opera di apostolato e di attività culturale, i vescovi irlandesi vollero che prendesse parte alla fondazione dell’Università Cattolica d’Irlanda, a Dublino, e accettasse la carica di rettore. Dal 1851 al 1858 egli si sarebbe prodigato senza risparmio, da par suo, per un’impresa che, in ultima analisi, gli diede ben poche soddisfazioni: il suo progetto, infatti, finì per scontrarsi con l’incomprensione dell’episcopato irlandese e con il solco di pregiudizi che divideva i cattolici irlandesi dai cattolici inglesi – questi ultimi a loro volta divisi tra "old catholics", sopravvissuti alla marea protestante e fieramente attaccati alle tradizioni locali, cattolici di orientamento romano e "ultimi arrivati" giunti di recente dalle file dell’anglicanesimo. Nonostante l’esito deludente, questa esperienza permise a Newman di elaborare un’idea di università che ancora oggi non ha perso nulla del suo valore: tra l’altro, egli sottolinea come il compito principale dell’università non sia quello di essere un mero centro di ricerca, né tantomeno quello di insegnare agli studenti una "professione mondana" o "un’arte meccanica"; nella visione di Newman l’università deve prima di tutto dare una solida forma mentis, una formazione in grado di ricondurre a unità i diversi campi del sapere. Come scriveva: «[…] un intelletto educato, per il fatto che è un bene in se stesso, porta con sé una forza e una grazia in ogni opera e occupazione che intraprende, e ci rende capaci di essere più utili, e ad un numero maggiore di persone». È facile osservare come il suo modello di un luogo di formazione che ignori l’idolatria della cosiddetta "utilità" a favore di una vera educazione dell’intelletto si contrapponga alla mentalità dominante ai nostri giorni. Un altro concetto caro a Newman per indicare il fine dell’università è quello del gentleman: una persona colta, ben educata, gentile, in grado di dare un positivo contributo alla società in cui vive. Questo scopo si raggiunge anche grazie alla condivisione, attraverso un imprescindibile sistema di relazioni tra gli studenti e tra questi ultimi e i loro maestri: il modello è sempre quello della vecchia Oxford, mentre per Newman, non v’è nulla di peggio di un luogo in cui gli studenti si incontrino solo per le lezioni e gli esami.

Il concetto di università, in Newman, non è del tutto slegato dal suo richiamo alla valorizzazione del laicato in seno alla Chiesa, un’istanza che, a quei tempi, gli valse l’ostilità di alcuni e la perplessità di altri. Ma Newman si mostrava veramente il fine intellettuale e l’uomo di ampi orizzonti che era affermando la necessità sempre più urgente di un laicato cattolico non solo devoto, ma anche istruito e ben informato, capace di dare ragione della propria fede con solidi argomenti: «Voglio un laicato non arrogante, non precipitoso nei discorsi, non polemico, ma uomini che conoscono la propria religione […] che sanno cosa credono e cosa non credono, che conoscono il proprio credo così bene da dare conto di esso, che conoscono così bene la storia da poterlo difendere».

Quella di John Henry Newman si presenta, insomma, come una personalità ricca e armonica, alla quale la fede cattolica conferisce forma e unitarietà: in lui il percorso intellettuale non è mai distinto dall’esperienza spirituale e dalla dimensione umana. Non solo un teologo e un amante della vita contemplativa, ma anche un intelligente polemista (suo malgrado), uno scrittore (aveva amato molto I promessi sposi di Manzoni), un conoscitore della musica e dotato violinista, un uomo colto con un bagaglio intellettuale che, fondato sui classici greci e latini, spaziava in campi diversi e, infine, una persona che per tutta la vita coltivò intensamente i valori dell’amicizia. Da oratoriano, a Birmingham, riprese in un certo senso il lavoro ecclesiale iniziato in gioventù nell’ambito del movimento di Oxford, si confermò uno straordinario predicatore, ma anche un sacerdote che sapeva mettere al primo posto la dimensione sacramentale, sacrificale della liturgia, senza tentazioni di protagonismo. Convinto che quello liturgico fosse l’orizzonte all’interno del quale si collocava naturalmente tutta l’esperienza della vita cristiana, Newman era anche un amante e un cultore del gregoriano e, più in generale, della musica sacra[2], prediligeva la liturgia cantata e si documentava seriamente in merito alla questione della corretta pronuncia del latino ecclesiastico. In lui era profondamente radicato, e interiormente vissuto, il legame coerente tra lex orandi e lex credendi, tra la liturgia e la fede, tanto che si può dire, senza tema di smentita, che questo sia stato uno degli elementi cardine della sua conversione. Come ricorda nella sua Apologia, quando era ancora anglicano si rammaricava che alla Chiesa d’Inghilterra mancasse in modo grave la coerenza di dottrina e liturgia tipica del cattolicesimo di allora e, nell’osservare il complesso sistema rituale e cerimoniale della Chiesa cattolica, pensava: «Questa è una religione». 

A coronamento di una straordinaria vicenda umana ed ecclesiale, nel 1879 Newman fu creato cardinale da papa Leone XIII. All’atto di ricevere ufficialmente la comunicazione della sua nomina, egli, nel discorso di circostanza, sottolineava di essersi battuto per l’intera sua esistenza contro quello che definiva il liberalismo religioso, ossia "la dottrina secondo la quale non esiste una verità positiva in ambito religioso, bensì qualsiasi credo è buono come qualunque altro"; da qui anche la riduzione della verità rivelata a mera opinione tra le tante, nonché la pretesa insignificanza della religione in ambito sociale, trattandosi di un aspetto che la mentalità moderna vorrebbe esclusivamente intimo e personale. Il fatto che un teologo del calibro di Newman, che ci ha lasciato le sue riflessioni sul rapporto tra fede e ragione, sul primato della coscienza e sullo sviluppo del dogma, abbia trovato il comune denominatore di tutta la sua esperienza nell’aver sempre resistito con tutte le sue energie a un «grande male», cioè «allo spirito del liberalismo in religione», non dovrebbe essere sottovalutato. 

Figura di primo piano nell’ambito ecclesiale come pure in quello intellettuale e letterario, Newman ha lasciato un’impronta nel cattolicesimo inglese e soprattutto su una generazione di scrittori e intellettuali cattolici che gli sono evidentemente debitori. Pensiamo, tra i tanti, a G.K. Chesterton, Hugh Benson, Bruce Marshall, come pure, in un certo qual modo, all’anglicano C.S. Lewis. Bisognerebbe anche ricordare che un oratoriano di Birmingham, padre Francis Morgan[3], fu intimo amico di famiglia e tutore di un altro futuro professore di Oxford, J.R.R. Tolkien, che lo definiva "il mio secondo padre". Ma, come si suol dire, questa è un’altra storia.
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Per approfondire in Biblioteca:

The Cambridge Companion to John Henry Newman, edited by I. Ker and Terrence Merrigan, Cambridge 2009;

I. Ker, John Henry Newman. A biography, Oxford – New York 1990;

B. Martin, John Henry Newman. His life and work, London – New York 2000 (prima ed. 1982);

J. Morales Marín, John Henry Newman. La vita (1801-1890), edizione italiana a cura di L. Obertello, Milano 1998 (Già e non ancora, 335);

L.F. Tuninetti (a cura di), John Henry Newman. Un cristiano che interroga la modernità, Città del Vaticano 2009 (In dialogo, 4). 

Si veda inoltre la ricca collezione di opere di John Henry Newman.
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Note: 

[1] U.M. Lang, Newman and the Fathers of the Church, "New Blackfriars", 92 (2011), pp. 144-156, disponibile a stampa e in formato digitale.

[2] G. Milanese, Newman e il gregoriano: note preliminari, "Studi gregoriani", 30 (2014), pp. 5-31.

[3] Su di lui vedi ora: J.M. Ferrández Bru, J.R.R. Tolkien e Francis Morgan. Una saga familiare, trad. it., Milano 2018.

2 commenti:

  1. Un cristiano di grande fede e dottrina e amante della tradizione, separato dalla Chiesa cattolica, come il card. Newman, non poteva non tornare nel luogo da dove erano partiti i nuovi evangelizzatori della sua terra, inviati dai grandi papi Gregorio Magno e Vitaliano. Comprese che le autentiche Verità della fede erano state conservate dalla Chiesa cattolica apostolica romana, attratto, in particolare, dalla profondità teologica della liturgia, sulla quale ha lasciato pagine profonde e commoventi, un secolo dopo, disprezzata e sfigurata proprio da novatori insediati nella Sede apostolica. Cosa direbbe ora di una Chiesa che sta rinnegando totalmente se stessa,lontana da quella che lui, come tante altre anime nobili,aveva abbracciato ?

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  2. Con Mohler il Padre del Modernismo e Neo Modernismo....

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