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lunedì 13 gennaio 2020

Discerniamo il discernimento

Un'intervista all’amico don Alfredo M. Morselli

DISCERNIAMO IL DISCERNIMENTO

Nel lessico ecclesiale contemporaneo, il termine “discernimento” è diventato una parola inflazionata: la troviamo in tutte le salse. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questa espressione con don Alfredo Morselli

Allora questo discernimento lo dobbiamo fare oppure…

Certamente il discernimento è una cosa buona, purché alla parola si dia il significato giusto: che è fare una scelta tra possibili azioni buone: cioè cercare di capire, tra tante opzioni buone, qual è quella che Dio vuole che scegliamo.

E quando si dà il significato sbagliato?

Quando si legittima il termine come pretesa di capire quando un’azione che è sempre 
cattiva in un certo caso particolare potrebbe essere buona.

Alcuni dicono che si tratta di vedere quando l’azione cattiva potrebbe essere l’unica possibilità reale…

Solo ipotizzare questo è una bestemmia contro la Provvidenza del buon Dio, che non ci chiude mai in una trappola dove si può solo peccare. Ci crediamo che non si muove foglia che l’amore non voglia? Crediamo a San Paolo che dice che tutto coopera al bene per coloro che amano Dio (Rom 8,28)?
Se il buon Dio non può abbandonarci in balia degli eventi (perché è buono e provvidente) e non può cambiare opinione su ciò che è peccato o meno (perché è la Verità), è evidente che l’ipotesi di una certa situazione in cui non si possa far altro che compiere un atto cattivo è una menzogna.

Alcuni dicono che una certa azione in certi casi è un eroismo non richiesto a tutti e che bisogna discernere se il bene da fare è concretamente possibile…

Questa obiezione è ancor più dolorosa dopo i molteplici richiami alla vocazione universale alla santità, ribaditi in quasi tutti i documenti del Concilio Vaticano II: siamo tutti chiamati a farci santi, ha sottolineato il Concilio, riprendendo le parole di Gesù “Siate perfetti come è perfetto il padre vostro che è nei cieli”: “Siate perfetti” Gesù lo dice a tutti o solo a pochi? lo lascia come un optional, o lo comanda a tutti? E se lo comanda, possiamo forse pensare che non dia a tutti la grazianecessaria per diventare santi?

Il Papa nell’esortazione “Gaudete et exultate” ha accusato di pelagianesimo coloro che “benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, «in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico»”: non è una confutazione della sua risposta?

Senz’altro potrebbe esserci questa deviazione per eccessonella teologia della grazia: in realtà la mia risposta è quanto di più antipelagiano possa esserci: possiamo sintetizzare il pelagianesimo come volontà prima della grazia: quello che sto dicendo io invece è grazia prima della volontà e che accompagna la volontà. Chiunque può amare Dio perché Dio muove la volontà di tutti prima che uno lo voglia e perché Dio stesso accompagna l’amore per amarlo donato a tutti. Questa mozione e questo accompagnamento sono soavi ma non obbliganti, perché la volontà umana è mantenuta in essere nella sua non determinazione assoluta al sì o al no.

Non sta forse dimenticando che la santità è un processo e che bisogna avviarlo?

Assolutamente no: un conto è dire “non esiste la situazione in cui non puoi far altro che peccare, coraggio, metticela tutta”, e un altro “esigo che tu sia santo subito”. Talvolta in confessionale ripeto questo discorsetto “Se non riesci ancora a non peccare, nessuno ti giudica, ma non dire che fai bene o che non puoi fare altro: se ti sembra di non riuscire neppure a volere far bene, prega, insisti, lotta, chiedi aiuto alla Madonna, e vedrai che ce la farai, ma non dire mai - non posso fare altro -. Perché la misericordia di Dio si sperimenta quando ci si presenta davanti a lui senza scuse, lasciando che sia lui a scusarci. Si compia in noi il v. 5 del salmo 32: “Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie colpe» e tu hai rimesso la malizia del mio peccato”.

E allora accostarsi ai Sacramenti non potrebbe essere un aiuto in questo processo?

Il Papa dice giustamente che i Sacramenti non sono un premio; io mi permetto di dire che non sono neppure dei premi di consolazione, tipo quelle medaglie in certe manifestazioni non competitive o pesche di beneficenza che sono pubblicizzate con premi per tutti.
I Sacramenti vanno rispettati nel loro essere, e san Tommaso dice che è un falso dichiarare di essere in Comunione con Gesù quando questa comunione è inficiata dalla mancanza della carità. E non si può dire di essere pentiti se si ha ancora intenzione di commettere un certo peccato.
La santità è un processo, come dice il Papa, ma è preparata da un altro processo, che è la preparazione alla giustificazione: tra preparazione alla giustificazione e giustificazione c’è contiguità, non continuità. Vengono una dopo l’altra, ma c’è una netta differenza tra l’essere in grazia e non esserlo.

Può spiegare meglio questo concetto?

Vede, San Paolo paragona l’ingresso della grazia in un’anima alla creazione della luce: “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo”. (2 Cor. 4:6 CEI74) Non ci sono processi, né zone d’ombra in questa nuova creazione. Il processo è prima (la preparazione alla giustificazione, sempre mossa dalla grazia) e dopo (l’aumento indefinito della carità: “veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” 2 Cor 3,18); ma tra le due fasi c’è un confine tutto-nulla: si è in grazia di Dio o non lo si è, non si è un po’ in grazia e un po’ no.

E allora quando la S. Comunione?

Quando si è in condizione di essere assolti, cioè quando ci si pente e si emette il proposito di non più peccare: questedisposizioni possono essere facilmente raggiunte quando si hanno i sentimenti del pubblicano della famosa parabola: lascio la parola a San Giovanni Paolo II: “Dobbiamo, invece, raccogliere il messaggio che ci viene dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (cf Lc 18,9-14). Il pubblicano poteva forse avere qualche giustificazione per i peccati commessi, tale da diminuire la sua responsabilità. Non è però su queste giustificazioni che si sofferma la sua preghiera, ma sulla propria indegnità davanti all'infinita santità di Dio: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13). Il fariseo, invece, si è giustificato da solo, trovando forse per ognuna delle sue mancanze una scusa. Siamo così messi a confronto con due diversi atteggiamenti della coscienza morale dell'uomo di tutti i tempi. Il pubblicano ci presenta una coscienza «penitente», che è pienamente consapevole della fragilità della propria natura e che vede nelle proprie mancanze, quali che ne siano le giustificazioni soggettive, una conferma del proprio essere bisognoso di redenzione. Il fariseo ci presenta una coscienza «soddisfatta di se stessa», che si illude di poter osservare la legge senza l'aiuto della grazia ed è convinta di non aver bisogno della misericordia” (Veritatis splendor 104).

2 commenti:

  1. Il discernimento bergogliano è un trucco per avallare le bestialità umane. Con "misericordia".

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  2. Bella lezione di teologia con argomentazioni profonde sostenute da una logica e aderenza alle Scritture e alla dottrina millenaria della Chiesa,oggi sostituite da speculazioni relativistiche e ideologiche strumentali per giustificare l'apostasia e l'eresia. Una delle voci tomistiche, sempre più rare, sopravvissute all'insegnamento distorto della teologia nei Seminari, costruite su una antropologia lontana da Dio e una metodologia confusa.

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La Redazione