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lunedì 5 agosto 2019

Quale futuro per la Cappella Sistina "un modello che ci richiama alla importante realtà del rapporto fra musica e liturgia"?

Aleggia  il timore per la sorte futura della Cappella Musicale Pontificia Sistina. 
Ha scritto un Organista "Vista la montante ignoranza e pregiudizio del clero verso la musica sacra, era prevedibile che prima o poi anche la Cappella Sistina ne sarebbe stata colpita. Non dimentichiamo che in questi anni tante scholae cantorum sono state messe alla porta da porporati amanti di chitarre e ragazzine sculettanti... Un silenzioso ma sistematico stillicidio iniziato all'indomani del Concilio, perché la gente deve cantare" (Invece a causa di uno strano virus la gente non canta più alla messa) 
Dentro e fuori le Sacre Mura si ascoltano indistintamente le voci dei  chierici o dei laici, che hanno veramente a cuore la sorte del più antico complesso corale, auspicare:
a) il mantenimento centrale, insostituibile dei bambini cantori ( pueri cantores) e della relativa scuola di musica: un'eccellenza mondiale. Un'istituzione dall'enorme valenza pedagogica, culturale e musicale che meriterebbe di essere definita "patrimonio
dell'umanità";
b) il proseguo delle scelte di "buon senso" musicale e liturgico che l'ideologia del cosiddetto spirito conciliare aveva cassato: valorizzare cioè la saggia e naturale alternanza delle composizioni "moderne" (composte ovverosia dal Maestro di Cappella in carica o da altri )  con quelle dei Compositori del passato. Cosa c'è di più naturale eseguire nella Messa papale  Sicut cervus del Palestrina , Cantate Domino di Giovanni Croce, O Jesu Christe di Jacquet de Berchem! L'ascolto è preghiera!  Diamo atto che il dimissionario direttore del coro sistino "simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" aveva equamente valorizzato "nova et vetera". (Leggi QUI )
c) l'Organo monumentale Tamburini ( perfettamente funzionante) deve essere , come Dio comanda, suonato in tutte le liturgie (anche per quelle che celebrate in piazza San Pietro) 
- leggere QUI -
d)  per la direzione del coro del Papa si possono valorizzare anche dei laici "di chiara fama e virtù" .
Proponiamo una riflessione sull'argomento mediante lo scritto di un  musicista-compositore  romano sinceramente affezionato alla Cappella Musicale Sistina.
AC  

LITURGIA E MUSICA, DUE REALTÀ INESTRICABILI 

Non c’è dubbio che un coro come quello della Cappella Sistina è un modello che ci richiama alla importante realtà del rapporto fra musica e liturgia. 
In effetti quando questo rapporto funziona, le due realtà sono inestricabili. 
La musica sacra nella tradizione della scuola romana ha una simbiosi con la liturgia. 
Nel senso che le due vanno insieme e sono, in un certo modo, connaturate. 
Qui penso si debba dipanare un equivoco che, proveniente dalla lettura non corretta di molti documenti anche del Magistero, e che si perpetua nel corso dei decenni. 
Il canto gregoriano o romano franco, può essere definito come modello supremo della scuola romana, così come di tutta la tradizione musicale della Chiesa Cattolica. 
La polifonia rinascimentale ne è, ad oggi, l’incarnazione più riuscita, non l’unica possibile. Ma com7nque certamente esemplare. 
Quando si identifica la musica sacra romana esclusivamente con il canto gregoriano e la polifonia rinascimentale, mi sembra non si tenga conto della natura dinamica di questi modelli e delle loro reciproche differenze, modelli che non chiedono un trattamento museale come purtroppo avviene nella pratica di molti musicisti poco preparati sulla complessità della questione, ma chiedono che essi siano fermento di nuove creazioni che devono scaturire sempre da questa fonte pura, che è il canto gregoriano e la sua assoluta identità con il rito liturgico. 
Questa è stata la pratica di tutti i musicisti romani fino a non molto tempo fa: si componevano polifonie che omaggiavano palesemente i grandi modelli rinascimentali. Questo non era aridità creativa ma dichiarazione di appartenenza, come a dire “anche io mi riconosco in questa Tradizione”. 
Poi gli stessi musicisti, sapevano come distaccarsi da questi modelli supremi per comporre musiche che alcune volte si allontanavano troppo da quella conoscenza, altre volte la completavano e anche arricchivano. 
Quindi, non si deve inchiodare tutto al mantra della difesa ad oltranza di canto gregoriano e polifonia in se stessi, ma cercare di capire come essi siano repertori fondamentali per mettersi alla sequela di una Tradizione che sempre si rinnova pur rimanendo sempre la stessa. 

Il motto episcopale del Cardinale Ottaviani era semper idem, sempre lo stesso. 
Ma non possiamo innovare nulla se non ci mettiamo all’ascolto continuo di questa Tradizione, di questo processo lungo secoli che arriva fino a noi, anche se oramai corrotto fino al midollo. Io credo che il motto di coloro che desiderano abbeverarsi alla scuola romana, se ancora ci sono, dovrebbe essere: nemo dat quod non habet, nessuno può dare quello che non possiede. 
Non si può innovare senza poggiarsi su un fondamento. 
E se dobbiamo avere un fondamento, perché non scegliere quello provato e forgiato da secoli di studi e pratiche come quello della Tradizione? 

In questo la pratica tradizionale della Cappella Sistina ci è da buona maestra, perché sappiamo che in essa, almeno nel passato, si custodivano gelosamente le tradizioni, anche guardandosi dal condividere all’esterno i repertori che erano esclusivo appannaggio del coro dei cantori pontifici. 
Era come dire: se volete abbeverarvi alla Tradizione pura dovete venire qui a Roma e ascoltare. 
Certo, questo a noi oggi sembra desueto, in un tempo in cui siamo abituati alla condivisione di tutto, al mondo globalizzato. 
Oggi non sarebbe forse pensabile una cosa del genere. 
L’esclusività dei repertori oggi viene solo garantita dalle ferree regole del diritto d’autore, che possono essere però superate pagando quello che viene chiesto. L’idea che sta dietro l’atteggiamento di istituzioni come la Cappella Sistina, nel suo agire del passato, è che la Tradizione non è solo qualcosa che si impara leggendo ma soprattutto una esperienza vitale, un flusso vitale in cui ci si immerge. Purtroppo questo non viene compreso e vengono così incensati complessi vocali che si cimentano in musiche della scuola romana solo perché “suonano bene”. 
Ma ricordiamoci che anche molte contraffazioni commerciali made in China sembrano proprio simili agli originali ma non lo sono. Il grande Gigi Proietti, parlando del teatro, faceva una importante distinzione fra il finto e il falso. Tutti noi sappiamo che un attore non muore veramente quando recita, è una finzione che noi accettiamo per convenzione. 
Non c’è inganno, siamo tutti d’accordo. Il falso è quando si spaccia per vero qualcosa che non lo è. 
Ma parleremo del confronto con altre esperienze culturali in seguito.

Questa simbiosi con la liturgia si esprimeva anche con l’attenzione per il testo liturgico stesso. Il compositore di scuola romana va a scavare nel testo liturgico per ritrovarci il potenziale musicale che la sua struttura già possiede, come Michelangelo scavava nella pietra per trovarci la statua che già era lì potenzialmente. 
I grandi autori della scuola romana hanno tenuto questo principio in mente: il testo prima di tutto. 
Naturalmente questa era la lezione che veniva dal canto gregoriano che, come ci hanno mostrato gli studi di dom Cardine, è veramente una esegesi del testo liturgico più che una sua sonorizzazione. 
La musica fatta nella tradizione romana è esegesi. Ecco perché nella Cappella Sistina, nel passato, una delle prove per l’ammissione era quella di saper leggere un testo che veniva dato, saperlo declamare. 
In questo modo gli esaminatori sapevano capire se il candidato avrebbe avuto quella capacità di entrare dentro il testo per saperne comprendere le risonanze profonde, come compositore e come esecutore. 
Ma leggere il testo qui non significa incoraggiare quel verbalismo ossessivo che piaga le nostre liturgie, come messo in luce anche dallo studioso Roberto Tagliaferri nel suo libro “La tazza rotta”. 
La lettura liturgica dovrebbe essere ad un altro livello. 
Come dice il liturgista americano padre James Jackson, il lettore non interpreta il testo mentre lo legge, ma lo lascia fluire attraverso di lui. 
Ecco perché la soluzione migliore sarebbe di avere la lettura cantillata, per sottrarla ai pericoli del parlato che è sempre troppo intriso di quotidiano, di lettura dei giornali e del chiacchiericcio da reality show. 
Ecco perché il latino, almeno per questo, poteva mettere al riparo dalle contaminazioni indesiderate. 
Quindi la declamazione del testo liturgico per le prove della Sistina era per capire quanto il potenziale cantore sapesse immergersi nella liturgia attraverso le peripezie del testo. 
Il buon cantare è una declamazione accurata del testo non per scadere nel verbalismo ma per fare in modo che la scorza che protegge lo stesso (il significante) possa infrangersi per lasciare libero il contenuto (il significato). 
Il canto non è un desiderare ma un considerare. 
Nell’etimologia di desiderare, c’è il senso di allontanarsi dalle stelle (de-siderare, da sidera). Considerare è mettersi alla scuola delle stelle, del numinoso, del divino. 
Il cantore prima di cantare ascolta. 
L’orecchio nel cantore è più importante della bocca. 
Il teorico rinascimentale Pietro Aaron (o Aron) nel suo trattato chiamato Lucidario afferma: “Ma fra tutte le sorti di ignoranza, quella è grave & noiosa, & che prepondera di gran lunga a ciascuna delle sue parti, quando alcuno stima di saper le cose che egli non sa”. 
Questo è certamente vero anche per la musica e per il canto, ma lo è soprattutto per ciò che riguarda la Tradizione. 
Oggi ci sono popoli che si affacciano alla ribalta del mondo e che, in un processo simile a ciò che avvenne nei rapporti tra il mondo barbarico e il mondo romano, vogliono la cultura occidentale ma senza la comprensione di quello che ne è alla base. 
Specialmente la cultura romana era una cultura fortemente tradizionale e religiosa, come abbiamo visto. Ma come biasimare questi popoli quando all’interno della Chiesa stessa la Tradizione è vista come un impedimento alla vita di fede? 
Quando si scambia l’evoluzione con la rivoluzione? 

Chi vuole capire qualcosa di musica sacra deve partire dalla liturgia. 
Non è possibile una comprensione al di fuori di questo rapporto. 
Ma si potrà dire che oggi la liturgia è ridotta veramente male e questo certo spiega anche la crisi della musica. 
Eppure proprio coloro che hanno tentato una comprensione della liturgia rinnovata su basi solide e non ideologiche, hanno fornito alcune produzioni musicali di grande dignità. 
Ma rimane sempre irrisolto il nodo del rapporto con la grande Tradizione. 
Non è importante quello che “ci piace” ma quello che ci eleva. 
E non ci possiamo elevare da noi stessi. 

Aurelio Porfiri 

Fonte: Stilum Curiae QUI

Foto: Mons. Lorenzo Perosi con i Pueri Cantores della Cappella Sistina (c. 1905).

2 commenti:

  1. "Chi vuole capire qualcosa di musica sacra deve partire dalla liturgia." Verissimo!!!!

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  2. I papi, fin dal IV secolo quando fu fondata la schola cantorum del Laterano, hanno avuto speciale cura della musica liturgica delle proprie celebrazioni e una speciale cura del livello artistico, memori dell'ammonimento di S. Agostino: " Ognuno si chiede in qual modo debba cantare a Dio. Canta a Lui ma canta bene. Egli non vuole che le sue orecchie siano offese...Bene cantate a Lui nel giubilo". Cura particolare era la scelta del direttore e dei cantori. Il nome di Perosi fu suggerito dal direttore Perpetuo Mustafà e Bartolucci fu seguito attentamente fin da quando era in seminario a Firenze: Casimiri si accordò con il rettore perché quel promettente ragazzo una volta ordinato venisse a studiare a Roma. Il prefetto della Cappella liberiana lo volle direttore in S. Maria Maggiore e quello della Sistina lo volle vice direttore di Perosi della quale Pio XII lo elesse Direttore Perpetuo. Con il CVII iniziò una manifesta guerra contro la musica liturgica guidata da quella trista figura che fu Bugnini, sostenuto da Paolo VI, nemico del canto liturgico ispirato alla tradizione con proibizione alla Sistina di cantare la polifonia e ridurre ai minimi il gregoriano, di intervenire, come da regolamento alle liturgie papali, di eseguire concerti all'estero, con l' allontanamento dei veri musicisti dalle Commissioni conciliari sulla liturgia, dall'ostilità acida dei Maestri delle Cerimonie Noè e P. Marini ed infine con la sua cacciata nel 1997. Poi il più povero dilettantismo cui si è aggiunto lo scandalo, tollerato per anni dalle autorità vaticane ora, ovviamente, incapaci di trovare un decoroso direttore ordinato. come vuole tradizione millenaria. Il futuro è quanto mai oscuro con il pericolo di una deformazione totale di quella veneranda istituzione cui la fede e la civiltà musicale dell'Occidente devono moltissimo.

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