Pagine

sabato 16 febbraio 2019

La Rivoluzione e la Dottrina sociale della Chiesa (1).

Dagli amici dell'Osservatorio Cardinale Van Thuan.
Un successivo articolo sull'argomento verrà pubblicato la prossima settimana.
Luigi


Newsletter n.953 | 2019-01-10
Il concetto di «rivoluzione», com’è noto, è moderno e nasce in ambito astronomico. Con il sostantivo latino «revolutio», Copernico intendeva indicare l’orbita, cioè il giro completo di un pianeta attorno alla propria stella[1]. Per via del fatto, inoltre, che il ciclo orbitale prevede due punti opposti di transito del pianeta attorno al centro e il ritorno finale del corpo celeste nella medesima posizione d’origine, il vocabolo «rivoluzione» è un sinonimo tanto di «ritorno», quanto di «rivolgimento» (o «rovesciamento»). Nei secoli successivi la «rivoluzione» scivola, dall’astronomico, nell’ambito politico-sociale e indica il processo violento della sollevazione popolare, che distrugge il vecchio ordine e ne instaura uno nuovo. In questo senso si parla anche di «sommossa», «sovversione» o «rivolta».



In generale – e proprio a motivo della Dottrina sociale – la Chiesa ha sempre osteggiato la prassi sovversiva e le suggestioni rivoluzionarie. I motivi sono molteplici ed evidenti: la Rivelazione non sconvolge l’ordine delle cose; Gesù non viene per abolire la Legge, ma per darle compimento[2]; il paradiso sociale in terra è irrealizzabile.

La novità nel Logos

Sembra esserci, tutt’al più, un’attinenza tra rivoluzione in senso astronomico e conversione evangelica. Nel Nuovo Testamento «conversione» è la traduzione di due termini greci: έπιστρέφω (epistrephō) e μετανοέω (metanoeō). Mentre metanoeō rimanda al senso di un superamento o di un cambiamento della mentalità mondana, epistrephō significa «volgere», nel senso di «tornare indietro», proprio come un pianeta attorno all’astro. E, quindi, il convertito è colui che si pente e, nella strada che va dall’innocenza al peccato, inverte la marcia e «ritorna» all’innocenza primitiva.

Questa, però, è una rivoluzione personale, non sociale. Il cristiano è un peccatore che, per libera decisione, si sforza di adeguare il proprio pensiero e la propria volontà a Dio. Nel medesimo tempo, interrompe la relazione che aveva con il male ed il peccato e torna sui suoi passi, ottenendo il perdono da Dio e incamminandosi verso la salvezza eterna. Si tratta, dunque, di un ritorno, più che di una rivoluzione, secondo le parole di Gioele: «ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti»[3].

Al cristianesimo, in quanto tale, sono più propri altri aggettivi o parole. Il fatto cristiano, ad esempio, è «inaudito», per rimarcare il suo carattere di novità estrema rispetto alla filosofia o alle ideologie. Inaudito – nell’etimologia di «mai udito» – esprime bene l’idea di un Logos che si rivela e che, prima della Rivelazione, era nascosto nel silenzio.

L’originalità del cristianesimo storico deriva poi, in modo diretto, dal suo essere «notizia», nuova e buona[4]. C’è un’affinità evidente tra «novità» e «rivoluzione», in quanto il rivoluzionario è colui che porta nel mondo un cambiamento, un’innovazione. Questo ha reso forse più immediato, da parte dei moderni, l’assimilazione tra cristianesimo e rivoluzione, specialmente tra gli aderenti alla Teologia della liberazione[5].

Massoneria e rivoluzione

Con Papa Leone XIII e con la nascita della Dottrina sociale della Chiesa (in quanto disciplina)[6] i pronunciamenti magisteriali circa la rivoluzione si fanno più espliciti e frequenti, anche per via del fatto che la Massoneria si è imposta nel mondo moderno in modalità rivoluzionaria. Sono quasi seicento, infatti, i documenti petrini contro gli errori dei frammassoni. I toni dei pronunciamenti si fanno, da subito, espliciti e duri. Leone XIII scrive chiaramente che il «conciliare le massime del Vangelo con quelle della Rivoluzione» è una «mania» equivalente a quella di conciliare «Cristo con Belial» e la «Chiesa con lo Stato senza Dio»[7]. Non solo ma la pericolosità del «codice della rivoluzione» è dovuta al sovrapporsi alle «sante massime e leggi del Vangelo», così da «lacerare l’unità cattolica, seminando nel clero stesso zizzania, suscitando contese, fomentando discordie, aizzando gli animi all’insubordinazione, alla rivolta, allo scisma»[8].

Leone XIII e gli altri pontefici si riferiscono sempre e solo alla rivoluzione storica, incarnata spesso dalla Massoneria e figlia della Rivoluzione francese, soprattutto. La Massoneria, in particolare, ha costituito, fin dal suo sorgere, una cerniera storicamente efficace tra rivoluzione, liberalismo e naturalismo: questa è la triade degli errori maggiori, sui quali la Chiesa docente è tornata di frequente. Altrettanto chiaro, sullo spirito rivoluzionario, è san Pio X che, rivolgendosi alle genti del Sillon[9], le esorta a non «fare collegamenti blasfemi fra il Vangelo e la Rivoluzione». Il collegamento esiste, proprio perché l’ideale silloniano è «imparentato con quello della Rivoluzione»[10]. Più che alla Rivoluzione in sé, il magistero è dunque preoccupato dell’indebita commistione tra i principi evangelici e quelli rivoluzionari. Si teme, insomma, una sovrapposizione pericolosa, che avrebbe portato i cattolici a sposare le suggestioni della rivolta e dell’odio di classe, anche per l’espandersi parallelo del social-comunismo in Europa.

Socialismo e comunismo

Con la Rerum Novarum[11] e con il sorgere dei pronunciamenti in materia di Dottrina sociale, la Chiesa prende – da subito – le distanze dalla rivoluzione in chiave socialista. Il socialismo è un rimedio inadeguato alla questione sociale – scrive Leone XIII – perché «attizzando nei poveri l’odio ai ricchi», pretende che «si debba abolire la proprietà» e fare «di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune»[12]. La via socialista – continua – «non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta» anche perché «scompiglia tutto l’ordine sociale»[13]. L’impeto rivoluzionario, quindi, è una forza disordinata, che fa leva sulla coscienza di classe per innescare l’odio tra le persone. La rivoluzione, in virtù della sua prassi caotica, ha «prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso»[14].

Ritroviamo argomenti simili nella Quadragesimo Anno[15] di Pio XI, che attribuisce all’odio di classe e al caos l’errore del socialismo: i cristiani sedotti dell’ideologia, «abbandonandosi all’impeto di malvagi consigli, miravano a una totale rivoluzione della società»[16]. Pio XI, forse, è ancora più esplicito dei predecessori: il «comunismo» ha «natura empia e ingiusta», nel senso che – sostanzialmente, non accidentalmente – la rivoluzione va contro quella stessa giustizia calpestata che vorrebbe ristabilire. La rivoluzione – sostiene Pio XI – tende a condurre «a morte» la «società tutta intera con le stragi e la violenza»; in altre parole «la via alla rivoluzione» porta alla «rovina della società»[17].

In realtà Pio XI distingue due tipi di socialismo[18]: quello più violento (comunismo) e quello più mite (socialismo propriamente detto). Del comunismo, con poche parole, il pontefice denuncia le stragi e la crudeltà inumana. Quanto al socialismo, l’argomentazione è più ampia: Pio XI ne riconosce la moderazione e afferma in esso l’esistenza di alcuni elementi di verità come, ad esempio, la trasformazione dell’odio di classe in ordinata discussione, la riduzione dell’egemonia sociale dei capitalisti e la necessità della distribuzione dei beni anche ai pubblici poteri. Il papa, tuttavia, conferma che i principi del socialismo sono incompatibili con quelli del cristianesimo e nega che possa esistere un «socialismo religioso» o un «socialismo cristiano». Di fondo – osserva – permangono «gravi e terribili i pericoli» del socialismo moderato, di cui «è padre il liberalismo, ma l’erede è e sarà il bolscevismo». Seppure, quindi, anche il socialismo abbia «qualche parte di vero», essa è però stravolta dalla falsa visione di fondo nei confronti della società.

La ricerca della giustizia sociale

Pio XII[19] – ripreso in seguito anche da Giovanni XXIII[20] – dice che «la salvezza e la giustizia» non si trova nella «rivoluzione», ma in una «evoluzione concorde», poiché essa procede «dall’ingiustizia e dall’insubordinazione civile». Ecco allora che il papa contesta la vocazione stessa dei rivoluzionari, che avrebbe dovuto essere quella di ristabilire la giustizia sociale, ma genera invece la rivolta. A proposito delle parole di Pio XII, Giovanni XXIII sostituisce alla legge rivoluzionaria la «gradualità», come «legge della vita»: non è opportuno superare «con un balzo solo tutte le tappe» e nelle istituzioni umane bisogna agire gradualmente all’interno di esse[21].

Paolo VI riconosce un’evoluzione storica del marxismo e comprende come molti cristiani si accostino ad esso non per una conoscenza dirette delle dottrine, ma idealizzandolo «in termini assai generici», quali «volontà di giustizia, di solidarietà e di uguaglianza»[22]. O, semplicemente, perché le ideologie rivoluzionarie «promettono, non senza illusione, un mondo definitivamente migliore»[23]. In ogni caso – avverte Paolo VI – «sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare l’intimo legame che tali aspetti radicalmente unisce, accettare gli elementi dell’analisi marxista senza riconoscerne i rapporti con l’ideologia», nonché «trascurando di avvertire il tipo di società totalitaria e violenta alla quale questo processo conduce».

Simpatie rivoluzionarie

Il magistero successivo non si è discostato da questi insegnamenti e la rivoluzione è paragonata ad un ostacolo per lo sviluppo della società, in genere, e della giustizia civile, in particolare. La storia della teologia cattolica e della prassi dei cattolici, nel Novecento, sta però a dimostrare che il magistero è stato disatteso e che una certa parte del cattolicesimo moderno e contemporaneo ha ceduto al fascino degli ideali massonici o marxisti.

C’è un progressismo cattolico che si estende per tutto l’arco dell’ultimo secolo e parte del precedente. Partiti politici – la Democrazia Cristiana in Italia – o riviste – l’Esprit di Emmanuel Mounier in Francia – finiscono inevitabilmente per «guardare a sinistra». Un giovane Jacques Maritain pubblica, sempre in Francia, il suo Umanesimo integrale [24], nel quale la simpatia per la dottrina di Marx s’impone con evidenza.

Fu lo spirito di un’epoca ad indurre i cristiani sulle posizioni dei rivoluzionari, anche su istigazione di chi cristiano non era. Il XX secolo è stato anche il secolo di Benedetto Croce che scrisse: «Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta» ed è per via di questo «evento unico nella storia dell’umanità» che essa «non può non dirsi Cristiana»[25].

Silvio Brachetta

[1] Cf. Niccolò Copernico, De revolutionibus orbium coelestium [Sulle rivoluzioni delle sfere celesti], Norimberga, 1543.
[2] Cf. Mt 5, 17.
[3] Gl 2, 12.
[4] Vangelo, da εύαγγέλιον (euanghélion): «lieto annunzio», «buona notizia».
[5] La Teologia della liberazione nasce nel 1968, in seguito alla riunione del Consiglio episcopale latino-americano (Celam) di Medellín (Colombia).
[6] Secolo XIX.
[7] Leone XIII, Epistola Custodi di quella Fede, 08/12/1892.
[8] Ibidem.
[9] Il Solco, movimento politico e religioso francese, caduto nell’errore del democratismo, fondato nel 1902 dal giornalista e politico francese Marc Sangnier (1873-1950).
[10] Pio X, Lettera apostolica all’episcopato francese Notre charge apostolique (La nostra carica apostolica), 25/08/1910, n. 41.
[11] Leone XIII, Lettera enciclica Rerum Novarum, 15/05/1891.
[12] Ibidem, n. 3.
[13] Ivi.
[14] Ibidem, n. 35.
[15] Pio XI, Lettera enciclica Quadragesimo Anno, 15/05/1931.
[16] Ibidem, n. 4.
[17] Ibidem, nn. 4, 112.
[18] Cf. ibidem, nn. 111-126.
[19] Pio XII, Discorso ai rappresentanti dei Lavoratori d’Italia, 13/06/1943.
[20] Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in Terris, 11/04/1963.
[21] Ibidem, n. 86.
[22] Paolo VI, Lettera enciclica Octagesima Adveniens, 14/05/1971, n. 31.
[23] Ibidem, n. 3.
[24] Jacques Maritain, Humanisme intégral, 1936.
[25] Benedetto Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, 1942.