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venerdì 15 giugno 2018

Giovanni Formicola: "L’Opzione Benedetto. La Dottrina Sociale della Chiesa, corpus di morale sociale, risposta alla Rivoluzione"

Pubblichiamo di seguito il testo di appunti per la conferenza alla XII giornata di formazione e convivialità "Andrea Pappalardo", che si è svolta a Nocera (SA) il 2 giugno 2018 su "Opzione Benedetto e Dottrina Sociale", dell'amico Giovanni Formicola della Comunità Opzione Benedetto (vedere anche QUI), che ringraziamo.
Strumento utile per contrastare le pazzie che la new wave ecclesiale sta cercando di far fare il cambio di paradigma in tema di Dottrina Sociale, facendola quasi un'ancella dei Centri Sociali e dei Movimenti No Global.
Sull'Opzione Benedetto vedere QUI i post di MiL sull'argomento.
Per altri interventi di Giovanni Formicola vedere QUI.

Buona formazione mirata per i nostri lettori.

L




0. La scelta del tema e la cornice dei nostri incontri, che sarà continuamente riproposta.

0.1. Le ragioni d’una scelta.

«Senza dubbio la tutela e la conservazione della presente consistenza delle forze cattoliche nel vostro popolo è già di per sé impresa altamente meritoria. Suol dirsi però che chi si restringe a star sempr
e sulla difensiva, va lentamente perdendo. E in realtà l’Azione cattolica vuol essere più che la pura coesione di cattolici fedeli. Il suo scopo ultimo è di riguadagnare il perduto e di avanzare a nuove conquiste. Voi perciò non dovete acquietarvi finché quei ceti degli uomini colti e quella parte dei lavoratori, che per infelici contingenze si sono allontanati da Cristo e dalla Chiesa, non abbiano trovato la via del ritorno.
Non chiudetevi dunque in voi stessi, ma spingetevi innanzi nelle file aliene, per aprire gli oc-chi degl’ingannati e degl’illusi alle ricchezze della fede cattolica. Talvolta soltanto malintesi, più spesso ancora una completa ignoranza, li dividono da voi. Non pochi di loro attendono forse un cuore amante da parte vostra, un’aperta spiegazione, una parola liberatrice. Nell’arte di guadagnare gli uomini voi potete apprendere qualche cosa anche dai vostri avversari. Meglio ancora: imparate dai cristiani dei primi secoli! Soltanto così, con una sempre nuova azione e penetrazione nel mondo pagano, la Chiesa da umili inizi poté crescere e progredire, spesso fra indicibili travagli e martìrii, altre volte attraverso decenni di maggiore o minore tranquillità e di più o meno largo respiro, finché dopo tre secoli il potente Impero si vide costretto a confessarsi vinto e a concludere con la Chiesa la pace» (Pio XII [1939-1958], Discorso agli Uomini di Azione Cattolica, 7-9-1947).

0.2. La cornice: le vie, non alternative ma compossibili, per la restaurazione.


Una via, e poi un’altra, per la restaurazione dell’ordine, per una nuova cristianità.

L’autorità (la democrazia non dev’essere un feticcio, e quasi mai è una soluzione)
«[…] in determinate circostanze, è possibile non avere troppe obiezioni di fronte a un’organizzazione autoritaria […]. Non vi è nulla di sbagliato in questo: in determinate circostanze è una necessità per il funzionamento di una società che si trovi in condizioni culturali primitive. Ma la cosa è molto diversa se il leader autoritario è al contempo un ideologo e compie omicidi di massa nel caso in cui il popolo opponga resistenza di fronte ai suoi progetti più bizzarri. Questa è una cosa completamente diversa. Quindi non sarebbe corretto, dal punto di vista della giustizia, obiettare immediatamente se, in determinate circostanze, vi fosse una sorta di leader autoritario […]. Il presupposto, tuttavia, è che il leader autoritario non sia un nazista o un comunista o un ideologo di altro tipo ma una persona che viva secondo una concezione di stampo classico e cristiano» (E. Voegelin, Hitler e i tedeschi, cit., p. 197).

L’educazione (l’evangelizzazione).

«Il sogno di un’utopia infatti, cioè il sogno di raggiungere una società perfetta organizzando gli uomini secondo un progetto prestabilito invece che formandoli attraverso un processo educativo, è un affare serio: è qualcosa di simile alla stregoneria in campo politico» (E. Voegelin, Ordine e storia. La filosofia politica di Platone, il Mulino, Bologna 1986, p. 281).


Meglio, «I capi non s’improvvisano, soprattutto in epoca di crisi. Trascurare il compito di preparare nei tempi lunghi e con severità d’impegno gli uomini che dovranno risolverla, significa abbandonare alla deriva il corso delle vicende storiche» (Giovanni Paolo II, Discorso alla famiglia dell’Istituto Borromeo, del 3 novembre 1984).

Meglio ancora (se è lecito),  «[…] servono itinerari pedagogici che rendano idonei i fedeli laici ad impegnare la fede nelle realtà temporali. Tali percorsi, basati su seri tirocini di vita ecclesiale, in particolare sullo studio della dottrina sociale, devono essere in grado di fornire loro non soltanto dottrina e stimoli, ma anche adeguate linee di spiritualità che animino l'impegno vissuto come autentica via di santità» (Idem, Esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Europa» su Gesù Cristo, vivente nella sua Chiesa, sorgente di speranza per l’Europa, n. 41).

L’opzione Benedetto

«Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero d’identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove formule di comunità entro cui la vita potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. […] da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso» (Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, trad. it. Feltrinelli, Milano 1988 [1981-1984], p. 313).


«Non faccio parte di un mondo che decade. Io prolungo e trasmetto una verità che non muore»

«Siamo ripiombati in una di quelle epoche che dal filosofo non si aspettano né una spiegazione né una trasformazione del mondo, ma solo la costruzione di un rifugio qualsiasi contro l’inclemenza del mondo» (Nicolàs Gòmez Dàvila).



Senza dubbio non si ricostituirà presto una civiltà cristiana, ma si possono costituire delle isole o dei fortini, come amava ricordare il compianto padre Roger-Thomas Calmel O.P. (1914-1975). Propongo sull’argomento alcuni fatti concreti che siano capaci d’illuminare la nostra riflessione.

Quando i primi monaci hanno fondato i loro monasteri nei paesi selvaggi dell’Europa, ciò che più tardi darà vita alla civiltà, essi hanno fatto tre cose: hanno coltivato la terra (un lavoro senza frode); hanno formato delle comunità fraterne, d’ispirazione familiare (in accordo con l’ordine naturale); hanno fatto salire il loro canto di lode a Dio, giorno e notte (ciò che li manteneva in contatto permanente con il loro fine soprannaturale). Il lavoro, la vita di famiglia, il canto liturgico: come si vede, si tratta di cose semplici e concrete, accordate alle aspirazioni naturali dello spirito umano. Allora “ha preso”, come si dice quando il fuoco si accende.

Vi è un inizio di cristianità ogni volta che qualcosa di santo e di rettificato esce dalla terra. Non si fabbricano dei valori di cristianità come non si fabbrica il grano che cresce; lo si coltiva, certo, lo si protegge, ma occorre anzitutto della buona terra e quel permesso divino composto da un accordo provvidenziale fra l’acqua, il sole e il lavoro degli uomini. Il radicamento benedettino ha dato vita all’Europa cristiana grazie a un’unione di fatti miracolosi che la storia registra sotto il nome di cause, ma che è in primo luogo un effetto interamente gratuito della grazia divina.

Questo accordo gratuito, indissolubile, fra la natura e la grazia, costituisce un primo principio. Lo spirito di cristianità eviterà di conseguenza ogni rivestimento, ogni difetto di esecuzione. Manifestare delle abitudini di pietà a detrimento delle virtù naturali, impostare una mistica senza ascesi, inventare dei gesti liturgici contrari alle leggi del sacro, comporre delle parole pie su dei cattivi cantici, pretendere d’incidere dei segni eterni su una materia friabile, sono degli imbrogli che presto o tardi finiranno per rivoltarsi contro l’uomo. Più che una mancanza di gusto, è una specie di menzogna, una grande disgrazia per le anime e per la civiltà.

Mille anni di cristianità mettono in discussione questa miserabile concezione della vita e testimoniano a favore di un’attenzione profonda, di un’immensa serietà nei confronti dell’ordine temporale. Il gusto della perfezione, la tenera sollecitudine con la quale si circondano le cose del tempo, sono sempre un segno di civiltà.

Gli hippy cercano l’evasione; i mistici cristiani piantano e costruiscono. Quando Dio ha deciso nel secolo XV di salvare il destino politico di una nazione cristiana, ha scelto una vergine e si è preso cura di farla istruire tramite la lunga mano di un arcangelo e di due santi del Paradiso. Ecco qualcosa che ci dovrebbe illuminare sull’eminente dignità dell’ordine temporale.

Quest’alleanza dello spirituale e del temporale, quest’articolazione dell’uno sull’altro, lo ritroviamo nella Regola di san Benedetto. La Regola, è vero, s’indirizza ai cercatori di Dio, alla ricerca di assoluto, ma lungi dallo spingerli a evadere dalla loro condizione di creature, essa si fonda anzitutto sulle semplici virtù naturali: la pietà filiale, la lealtà, la pazienza, l’ospitalità, l’amore del lavoro ben fatto, la vita in comunità con il suo corteo di esigenze, soprattutto l’umiltà e il mutuo supporto. È tutta un’educazione dell’uomo, preoccupato di ristabilire l’unità fra l’anima e il suo comportamento esteriore. Senza di essa non avremmo nemmeno l’idea di costruire con decenza una chiesa abbaziale, la cui architettura, nella purezza delle sue forme, sia come quella dei nostri antenati: un’immagine dell’anima e una predicazione silenziosa del mistero di Dio (dom Gerard Calvet OSB, 1985).

«Oggi più che mai, lo si comprenda bene, la società ha bisogno di dottrine forti e conseguenti con sé stesse. In mezzo alla dissoluzione generale delle idee, l’affermazione sola, l’affermazione ferma, nutrita, senza mescolanze, potrà farsi accettare. Le transazioni diventano sempre più sterili e ciascuna strappa un lembo della verità. Come nei primi tempi del cristianesimo è necessario che i cristiani rompano tutti i rispetti con l’unità dei loro principi e dei loro giudizi. Non hanno nulla da imitare in questo caos di negazioni e di tentativi d’ogni genere che attesta in modo così evidente l’impotenza della società presente. Questa società vive ormai soltanto dei rari brandelli dell’antica civiltà cristiana che le rivoluzioni non hanno ancora portato via e che la misericordia di Dio ha preservati sino a questo punto dal naufragio…

«Vi è una grazia collegata alla confessione piena e intera della verità. Questa confessione è la salvezza di quelli che la fanno, e l’esperienza dimostra che è anche la salvezza di coloro che la intendono» (dom Prosper Guéranger, 1858).

«Il futuro [...], secondo me, sarà nelle mani di piccole comunità creative che, dal basso, recupereranno l’intero quadro della Dottrina sociale della Chiesa, per convinzione e con nuovo spirito di militanza, [...]. Possono essere comunità di famiglie, gruppi parrocchiali, amici [...] che resistano alla tendenza di adeguarsi allo spirito del mondo, proprio per servirlo pienamente» (mons. Gianpaolo Crepaldi, La Chiesa e la pastorale sociale di domani, Inaugurazione del terzo anno della Scuola diocesana di Dottrina Sociale della Chiesa, Trieste 4-03-2017).

«Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. […] Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini […]» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto, cit., pp. 62-64)].


1. Che cos’è la Dottrina Sociale della Chiesa (DSC).
1.1. Analisi semantica.
1.1.1. Dottrina. Lemma che dice – anche come suona – qualcosa di veritativo, forte, definito, stabile, organico – tutti i suoi elementi si connettono e si tengono insieme –, sintetico – non una cosa “breve”, ma un et et di elementi ognuno dei quali è parte integrante, la cui eventuale pretermissione dis-integra.
1.1.2. Sociale. Sembra che rimandi ad un contenuto socio-economico e tendenzialmente socialista, come suona nelle più recenti espressioni magisteriali, che la riducono alla questione della povertà e della solidarietà con i poveri. In realtà,
«la convivenza umana […] deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale: quale comunicazione di conoscenze nella luce del vero; esercizio di diritti e adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene morale; e come nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi; anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione di valori spirituali: valori nei quali trovano la loro perenne vivificazione e il loro orientamento di fondo le espressioni culturali, il mondo economico, le istituzioni sociali, i movimenti e i regimi politici, gli ordinamenti giuridici e tutti gli altri elementi esteriori, in cui si articola e si esprime la convivenza nel suo evolversi incessante» (San Giovanni XXIIIEnciclica “Pacem in terris” dell’11-4-1963).
In altri termini,
«la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (Benedetto XVI, Caritas in veritate del 29-6-2009).
1.1.3. Della Chiesa. È qualcosa di diverso da nella Chiesa. È quello che appartiene al magistero perenne e immutabile, ovviamente nei principi, non nella determinazione contingente di essi. Quindi è della Chiesa ciò ch’è, anzitutto, proposto in termini di principio e non di mero giudizio storico o legato a singole discipline sociali. E perciò si compagina con le fonti tipiche con le quali interagisce il magistero ordinario e straordinario, Scrittura e Tradizione, e rimane nel suo ambito, fede e morale. Ma della Chiesa non vuol dire clericale, se non nel senso appena precisato, anzi. I soggetti protagonisti della sua attuazione, cioè dell’instaurazione cristiana dell’ordine temporale, sono i laici. Loro è la competenza e la responsabilità, in forza del battesimo e della cresima e dei correlativi doni dello spirito Santo. E quindi il discernimento per trascrivere nei fatti i principi, come insegna il decreto del Concilio Vaticano II Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici.
1.2. Fonti della DSC.
1.2.1. In senso tecnico, Scrittura e Magistero.
1.2.2. All’interno del secondo nella sua storicità, possiamo distinguere tre fonti, esperienza, ragione, rivelazione (cfr. José Antonio Ibarbia Goenaga S.J.).
1.2.2.1. L’esperienza umana, che si deposita nel buon senso, l’esperienza storica dei popoli, la tradizione (con la minuscola), cioè la «trasmissione del progresso».
1.2.2.2. L’uso consapevole di ragione che, partendo dal senso comune, ricava dalla natura – intesa non in modo meramente empirico – la volontà di Dio in essa implicita. Interviene poi la rivelazione del Decalogo, che deve riassumere e rivelare all’uomo ferito – mente ottenebrata, volontà indebolita e sviata – la legge naturale, la cui osservanza lo fa uomo, che pure sarebbe stata possibile conoscere con l’uso retto di ragione, i cui dettami universali sono recepiti, confermati e riproposti dal Magistero sociale della Chiesa.
1.2.2.3. Quanto, nella Rivelazione, riguarda direttamente o indirettamente la natura umana e la società. Dunque, la DSC non inizia né con la Rerum Novarum (1891), né con l’enciclica Vix pervenit del 1745 sull’usura, ma fin dalla Creazione, sia come rivelazione implicita contenuta nella stessa realtà, sia come Parola rivolta all’uomo, e fin dai primordi. Il nome compare nella Mater e Magistra, la cosa lo precede, come avviene per ogni battesimo. Non è bene che l’uomo sia solo; Crescete e moltiplicatevi; una caro; date a Cesare; il detto del centurione; tu non avresti alcun potere su di me se non ti venisse dall’alto; la parabola dei talenti e quella dell’operaio dell’ultim’ora; san Paolo che richiama al rispetto dell’autorità, che porta la spada, etc.
1.2.2.4. La dottrina del decalogo, con quanto si ricava ex revelatione in senso stretto, è esposta dal Magistero della Chiesa, che si avvale anche del modello costituito dalle istituzioni delle Cristianità così come sono esistite nella storia, e della elaborazione dei teologi e dei filosofi cattolici, siano essi o meno specialisti in scienze sociali (dal Direttorio di AC).
1.3. Statuto della DSC.
1.3.1. Essa è
«parte integrante della concezione cristiana della vita» (san Giovanni XXIII, Enciclica “Mater et Magistra)
quindi è obbligatoria. E la è in quanto corpus dottrinale di morale sociale, un capitolo, per così dire, della teologia morale (Sollicitudo rei socialis, n. 41).
«[…] un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi àmbiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà» (san Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale “Reconciliatio et poenitentia”, n. 26).
«La dottrina sociale della Chiesa è l’indicazione comportamentale, cioè morale, intesa a contrastare le difficoltà costituite per l’agire dell’uomo dalla cosiddetta “questione sociale”, cioè dall’insieme delle difficoltà, derivanti dal peccato originale, dell’operare degli uomini nelle loro relazioni con Dio come gruppi sociali, nella vita di convivenza fra loro e fra gruppi sociali, e nei rapporti suscitati dalle relazioni con i beni sia dei singoli, che — di nuovo — dei gruppi umani. Una dottrina morale sociale esiste ed è sempre esistita fra gli uomini, quale ne sia o ne sia stata l’espressione, anzitutto “mitica”, cioè esemplare, poi filosofica, cioè riflessa nell’esperienza e da essa ricavata, astratta; e tale dottrina morale sociale ha trovato nella Sacra Scrittura un’espressione privilegiata, in quanto rivelata, quindi garantita dal Rivelatore. Inoltre la sua esplicitazione da parte del Magistero della Chiesa Cattolica è passata dall’intervento episodico all’insegnamento sociale: dalla terapia sociale, dalla denuncia e dall’indicazione nel caso concreto all’educazione sociale integrale» (Giovanni Cantoni, La Dottrina sociale della Chiesa come risposta alla Rivoluzione, in Cristianità, n. 332 del 2005).
Nel Catechismo, troviamo infatti le applicazioni sociali del Decalogo e la nozione di peccato sociale, che diversamente dal peccato individuale riguarda le strutture sociali, non viene espiato nell’altra vita – se non come peccato individuale di chi lo ha posto o favorito –, e ha una maggiore oggettività e capacità di propagazione del male o d’impedimento al rispetto della legge di Dio. Per fare un esempio, un aborto è un peccato individuale (oggettivamente), votare una legge abortista è un peccato individuale con effetti sociali, la legalizzazione dell’aborto è un peccato sociale che ha una capacità illimitata di propagarsi, anche solo nella dimensione di ritenere l’aborto normale, a prescindere poi dalla di esso pratica.
1.4. Fine della DSC.
1.4.1. Essa riconosce il peccato originale, che ha ferito l’uomo e crea difficoltà nella pur necessaria convivenza sociale. Difficoltà nella pratica, ma anche nella concezione stessa. La DSC, come tutta la dottrina cattolica e la stessa Chiesa, vuol essere un aiuto – in altri termini, formazione di una retta coscienza sociale, che non ha nulla o poco a che vedere con l’inclinazione, certo buona, alla beneficenza – a che gli uomini, si orientino e si regolino secondo natura nella vita sociale, cioè secondo la loro misura reale come pensata e voluta da Dio Creatore, amandola in Lui e per Lui. Al quale devono gloria, così da dare esito sovrannaturale a questo rispetto dell’ordine di natura, che comunque sarebbe impossibile, e non solo difficile com’è, senza che gli sforzi della natura ferita siano integrati dalla grazia. Quindi, preghiera e sacramenti, veicoli della grazia soprannaturale, sono fattori non secondi, anzi, dell’ordine sociale, il cui modello è
«un ordine trascendente, che senza togliere […] [all’ordine temporale] il suo specifico contenuto, gli conferisce la sua vera misura» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, del 22-3-1986, n. 62).

2. Che cosa non è la DSC.
2.1. Per diametrum, non è un po’ di economia cattolica; non è un po’ di moralismo socio-economico; non è la dottrina per i poveri, cioè non è la dottrina socialista della Chiesa, non tanto nel senso dei contenuti, ma nel senso dell’impostazione, che fa del-l’economia, della distribuzione dei beni, il centro; non è qualsiasi opinione di tipo sociale e politico circolante tra ecclesiastici, associazioni, intellettuali, semplici fedeli, etc.; non è un giudizio su fatti e uomini della storia; non è orizzontale, nel senso che non è limitata al tema del bene comune temporale, ma questo è perseguito nella prospettiva della maggior gloria di Dio – perché voluto da Dio – e della salvezza delle anime, e di esso fa parte anche che la creatura-società rispetti i comandamenti divini, a cominciare dal primo (cfr. infra); non è un prontuario di soluzioni tecniche.
2.2. Non è nemmeno un intervento tardivo della Chiesa sulla questione sociale, magari sollecitato dal marxismo – giudizio che rivela l’ignoranza di uomini di Chiesa sulla DSC. Perché, come s’è detto, la DSC è presente nella Scrittura, nella parola di Gesù, nei principi di filosofia perenne fatti propri dal Magistero, e in ogni intervento di questo in materie latamente sociali, concernenti cioè le forme e i modi della vita sociale e della sua organizzazione – globalmente intesi –, come le stesse unzioni dei re e le benedizioni nei momenti alti della vita pubblica in tempo di cristianità.

3. I contenuti della DSC.
3.1. Essa consta di principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive per l’azione (cfr. Beato Paolo VI, Lettera apostolica “Octogesima adveniens, del 14-5-1971, n. 4; e san Giovanni Paolo II, Enciclica “Sollicitudo rei socialis”, del 30-12-1987, n. 8).
3.1.1. Principi di riflessione.
3.1.1.1. Centralità della persona, meglio, il suo primato, certo logico, ma anche cronologico: prima c’è l’uomo e le sue giuste libertà, poi la società e lo stato. È il pre-principio, purché inteso in senso teologico e non meramente naturalistico. È il valore trascendente della persona, siccome creatura a immagine e somiglianza del Creatore, che la protegge e impone di relativizzare ad essa ogni potere e ogni idea di bene comune. Ma se s’intende persona in senso solo umanistico e orizzontale, quindi in concorrenza con Dio, allora tutto è possibile al potere che la rappresenta e l’humanum si perde, perché è costitutivo di esso la relazione Creatore/creatura, Padre/figlio. L’antropocentrismo o è teologico o non è.
3.1.1.2. Sussidiarietà. Esso è stato prima praticato nella cristianità detta medievale, e poi teorizzato, come spesso avviene, cioè “battezzato”. Secondo Pio XII ha tale importanza da dover essere applicato anche alla vita della Chiesa, pur societas sui generis. La sussidiarietà ha il primato logico e cronologico sull’altro principio, la solidarietà. Primato che riflette il primato del singolo, e della sua naturale legittima libertà e diritto d’espansione in aggregazioni sociali, naturali o volontarie che siano, quindi anche di queste, sull’organizzazione della vita sociale, cioè sulla politica, il cui potere relativizza, cioè relativizza lo stato, ne limita l’ambito d’intervento e quindi lo spazio, e così ne contrasta le tendenze totalitarie (cfr. Pio XI, Lettera enciclica “Quadragesimo anno”, del 15-5-1931). Questa limitazione è verso il basso, cioè verso i diritti e le libertà della e nella società – la cui soggettività è un prius –, nonché verso l’identità, la cultura e la religione nazionali, salvo che queste contengano elementi contrari al diritto naturale, come le culture e le religioni dei sacrifici umani nelle Americhe pre-colombiane, giustamente repressi e proibiti dalle nuove autorità, che possono essere legittimamente anche non nazionali.
3.1.1.3. Solidarietà o bene comune, la condizione per il perfezionamento spirituale (per cui la piena libertà religiosa, e non solo di culto, è dovuta, anzi va semplicemente riconosciuta in modo totale) e materiale di ognuno e di tutti – e non la somma dei beni individuali, né una sorta di costrizione socializzatrice –, in quanto misurato sul primato della persona sub Deo (cfr. CCC, n. 1906). Esso riflette la ragione naturale della società. L’uomo da solo non ce la fa, basti guardarlo alla nascita per convincersene, per coglierne la natura sociale, come proprietà, non come costitutivo. Questo sguardo, inoltre, estende la centralità della persona alla famiglia, e al suo compito educativo di cui non può essere espropriata. Quindi la prima forma di solidarietà è la protezione degl’inermi, tutelarne la vita, l’incolumità e i beni, garantire la giustizia, rendere possibile le dinamiche, i movimenti propri dell’organismo sociale senza invaderlo ed avere la pretesa di esserne momento sorgivo. Non è lo stato che dà il via e instrada la vita dei singoli e della società in generale, ma la consente e quando indispensabile la protegge. Tribunali, polizia, esercito, questi i compiti propri dello stato nell’attuazione del principio di solidarietà, e in questo campo l’autorità è pienamente legittima anzi necessaria (cfr. CCC, nn. 1897-1904). Per questo essa «non invano porta la spada» (Rm, 13,4), unifica la vita sociale, impedendole di disperdersi nei mille rivoli degli egoismi incontrollati, assicura la forza del diritto, contrasta lo pseudo-diritto della forza, ch’è violenza quando è ingiusta. Solo in casi estremi può intervenire per assistere, curare, elargire provvidenze e previdenza, istruire, che in forza del principio di sussidiarietà sono in prima battuta di competenza della società e delle sue aggregazioni, Chiesa compresa. La libertà che scaturisce dalla sussidiarietà – che comunque va perseguita in armonia con l’intero corpo sociale e la tutela di quest’armonia è propriamente compito dell’autorità –, può essere limitata e annientata – anche in termini meramente economici con gli espropri o una tassazione esasperata ed esasperante – da una solidarietà troppo spinta. Tanto stato, dalla culla alla bara, fa dire a Trotski che il vecchio detto «chi non lavora non mangia» (2Ts, 3,10), che rimane vero, viene preceduto da «chi non obbedisce non mangia», e così è accaduto e accade. Questo fa sì che lo stato, quando diventa «moderno» (cfr. Wolfgang Reinhard, Storia dello stato moderno) pretende il monopolio dell’obbedienza e perciò entra in concorrenza anche con la Chiesa (al di là della tematica ostilità da parte delle ideologie rivoluzionarie per essa), e tende, se non proprio a vietarla – come pure è accaduto e accade –, a pretendere di confinarla nello spazio del culto privato. Il principio di solidarietà contrasta pure ogni individualismo radicale, che ritiene unico soggetto sociale l’individuo autocentrato, come se fosse unico artefice della propria esistenza e della continuazione in essa, quindi criterio di bene e di male (rectius, sostituisce tale criterio con le sue voglie), destinatario della codificazione come diritto delle proprie pretese, del proprio piacere. Tale atteggiamento, in realtà, conduce ad un’estensione dei poteri pubblici, sia perché non riconoscono alcuna società intermedia tra l’individuo e lo stato, sia perché questo, come esecutore delle pretese individualistiche, si fa sovvertitore di verità e creatore d’un diritto nuovo che vìola il diritto naturale, e così si fa dio in terra.
3.1.2. Criteri di giudizio.
3.1.2.1. Applicazione del decalogo alla vita sociale – che così diventa trama di doveri, prim’ancora che di diritti –, non intesa come dimensione esteriore della morale individuale, ma intesa come strutture e assetti sociali, in tutta la latitudine sopra evocata da Pacem in terris. Certo quest’applicazione è peculiare – sub specie societatis – e chiama in causa il diritto naturale, che però anch’esso è costituito da pochi principi, le cui determinazioni non sono cosa facile e più che altro affidati alla tradizione, all’esperienza dell’umanità, non senza che questa debba essere tante volte corretta da una migliore comprensione. Non si può però in modo meccanico trascrivere la legge morale nella legge civile. Anche in una società cristiana non si può obbligare giuridicamente ad andare a Messa, ovvero proibire per legge la masturbazione o la procreazione artificiale (se non in alcuni suoi aspetti, modalità e ed effetti collaterali, come disse l’allora cardinale Ratzinger, secondo il quale la Chiesa poteva chiedere allo stato di proibire la fecondazione eterologa, la soppressione o scarto degli embrioni, ma non la cosa, non essendo questione di diritto naturale). In particolare, va sottolineata la prima tavola del decalogo, quella che nessuno prende in considerazione, oggi, quando si parla di DSC. È il tema fondamentale della regalità anche sociale di nostro Signore Gesù Cristo (cfr. Pio XI, Enciclica “Quas primas” sulla regalità di Cristo, dell’11-12-1925), assolutamente centrale nella prospettiva della DSC – anzi, si può dirne il fine stesso –, tanto che se assente è assente anch’essa, che ha infatti un orizzonte soprannaturale e cristologico, come ogni dottrina proposta e insegnata dalla Chiesa. Il riconoscimento così del primato di Dio e dei suoi diritti, cui corrispondono precisi doveri da parte dell’uomo, è la ratio di un’ascesi per una mistica sociali. La regalità sociale di Cristo, poi, è un altro fattore di limitazione del potere, questa volta verso l’alto, e lo subordina al vero e al bene, cioè alla morale e al diritto naturali – stato di diritto è quello soggetto al diritto, non quello fonte monopolista del diritto –, ma per le stesse ragioni non all’economia, ch’è di rango inferiore. E ciò anche in democrazia, che non si può permettere di mettere ai voti il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, come resi noti da Dio nel cuore di ogni uomo e dalla tradizione migliore dell’u-manità, e messi in chiaro dal magistero della Chiesa, che non è mai un così è, se vi pare…. Alla stregua del dialogo tra Gesù e Pilato, lo stato non può ritenersi superiorem non recognoscens anche nell’ordine morale. L’autorità civile non è fonte di sé stessa, non è autoreferenziale e deve rispondere dei suoi atti. Lo stato non si risolve nel proprio potere, nelle proprie decisioni, nelle proprie leggi, nelle proprie costituzioni. Queste sono solo limitatamente criteri di giudizio. In ultima analisi, sono sottoposte a giudizio di legittimità, da parte di Dio e della sua legge, ma anche delle tradizioni in essa fondate. Ogni realtà deve culto a Dio, la società civile non fa eccezione. Ovviamente, se confessionale, come può essere quando è religiosamente omogenea, non può coartare la libertà religiosa di alcuno, ma talvolta proteggere la propria identità limitandone le pubbliche manifestazioni. Questo è doveroso quando si tratta di culti che vìolino i principi della legge naturale. I diritti fondamentali, oggi detti di cittadinanza, non possono essere negati ai seguaci di altre religioni, e quello che può essere preteso – e sottratto a negoziazione e votazione – è il rispetto del diritto naturale, come veicolato dalle tradizioni dei popoli e in una certa misura dal buon senso o senso comune. Questo vale anche per la seconda tavola del decalogo.
3.1.3. Direttive per l’azione.
3.1.3.1. È evidente che i principi e i criteri di giudizio della DSC siano anche impegnativi e norma per l’azione. Il laico cristiano (cfr. supra) ne trae motivo e indirizzo per l’azione e l’apostolato politici, sociali e civico-culturali, sia in positivo che in negativo, e sotto la sua responsabilità. A prescindere dal vescovo-pilota, egli confrontando la DSC (quella vera) con la situazione e le tendenze del tempo e della società in cui vive, ha l’obbligo morale di agire, d’intervenire, rispettando la gerarchia dei principi nell’individuare le priorità, privilegiando sempre il certo rispetto all’opinabile e ponendo attenzione a non portare acqua al mulino del nemico – sì, c’è il nemico, e non solo nella dimensione preternaturale, quanto meno come falso profeta e falso maestro (cfr. san Giovanni Paolo II, Discorso nella veglia con i giovani, Denver 14-8-1993):
«[…] tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre» (Gaudium et Spes, n. 13)  
sostenendo uomini e progetti nominalmente buoni, ma inseriti in un quadro operativo cattivo. Per esempio, quanto alla certezza, la tutela della vita ha una dimensione chiara e non opinabile, non si può uccidere l’innocente, ed è una direttiva per l’azione altrettanto certa e non opinabile, e perciò prioritaria, adoperarsi per contrastare la «legalizzazione» dell’omicidio in ogni sua forma. La cura dei poveri, invece, ha vie e modi opinabili, e spesso è un falso scopo, che induce a sostenere in buona fede (ma la stupidità non è un diritto) i cattivi, come è avvenuto e avviene con ideologie anticristiane, quale il socialcomunismo.

4. La DSC, la Rivoluzione e la Contro-Rivoluzione.
4.1. La Rivoluzione è sforzo teso a negare – meglio, sfidare – Dio instaurando l’anti-decalogo, ancor prima che per sottrarsi alla sua legge, per negarlo dimostrandogli che si può fare meglio di Lui e quindi prenderne il posto, farsi dio. La Rivoluzione è dunque satanica – nel senso che fa proprio il proposito gridato da Lucifero, non serviam (cfr. Ger, 2, 20) e gli dà eco storica (cfr. RC-R e Pio XII, RMNel contemplare” del 12-10-1952, che ne significano il carattere di processo, in cui ogni negazione attira la successiva) –, quindi induce al male, rende difficile fare bene il bene (cfr. Pio XII, RM di Pentecoste, 1-6-1941).
4.2. La Contro-Rivoluzione dev’essere perciò angelica, cioè rispettosa della legge di Dio, intenzionata a farla osservare quanto possibile e instaurarla, come s’è detto, nei limiti propri della vita sociale. In questa prospettiva, essa, è intenzionalmente al servizio di Dio e della sua gloria. Ma per essere davvero serva, deve sapere che è serva inutile, altrimenti celebrerebbe sé stessa. Non è la C-R che salva, nemmeno storicamente, la Chiesa, che piuttosto nella sua dimensione sacramentale ne è l’anima. E tuttavia questa non dev’essere una tentazione quietista. Serva inutile, ma serva, che deve operare per contrastare, angelicamente, l’instaurazione dell’anti-decalogo, e favorire un ordine sociale conforme al decalogo. Lotta contro il male, e per il bene: ascetica sociale, che presuppone l’ascesi individuale dei suoi militanti.
4.3. La DSC, in questa chiave, è la risposta preventiva e latente alla Rivoluzione, che giudica prima ancora che – e anche se non – avvenisse. Come il decalogo è risposta preventiva e latente al peccato, che giudica, prima ancora che – e anche se non – fosse commesso. Cioè, promuovere la DSC come norma, fattore regolatore d’una cultura cattolica e quindi d’una civiltà cattolica, è il programma, il codice d’azione della C-R, in quanto dice qual è la via, per la città degli uomini, verso il riconoscimento della legge di Dio e quindi verso la sua Città, e per evitare quella di Satana (che sia questa intesa simbolicamente, ovvero realisticamente). Naturalmente, tanto quanto la Rivoluzione, come la vita degli uomini singoli o in società, è dinamica, altrettanto la è la DSC e la dev’essere la C-R. Sicché, secondo il ritmo sfida-risposta, che fa, dell’una e dell’altra realtà, lavori sempre in corso – in quanto intesi ad attingere dai principi di sempre per applicarli a situazioni sempre mutevoli, a morbi sempre nuovi che esigono diagnosi e terapie rinnovate, in modo da dare le indicazioni e combattere le battaglie di oggi –, sia la DSC che la C-R sembrano venire dopo le tendenze, le idee e i fatti della R. Ma vengono dopo nella dimensione congiunturale della storia, non nei principi che giudicano la storia. Da essi estraggono nova et vetera, ma non li escogitano in funzione dei sempre nuovi volti dell’errore e del male sociali, da condannare ed arginare.

5. Opzione Benedetto (OB) e la DSC.
5.1. OB vuol essere una possibile via della C-R nel XXI secolo. Il suo modo è la costruzione di rifugi (come questo qui in corso) per proteggere il vero il bene il bello – il fuoco – dall’inclemenza del tempo storico, affinché custoditi vengano trasmessi, e così conosciuti, sempre più praticati fino ad essere di nuovo fattori culturali e di civiltà, per la gloria di Dio e il bene anche soprannaturale degli uomini. La DSC è parte integrante del fuoco da conservare, anche smascherandone le contraffazioni.

II
Le proposizioni sociali nella Chiesa.
1. Dico proposizioni sociali quelle che, pur trattando temi anche lato sensu sociali, non hanno lo spessore di costituirsi in dottrina, ovvero non ne sono determinazioni, in quanto non compaginabili ad essa, talvolta addirittura in contrasto con quanto ormai nella DSC acquisito consolidato e pacifico, oppure non ne rispettano i requisiti epistemologici – per esempio, constano di giudizi storici, o legati alla contingenza, ovvero resi in materia opinabile per definizione, o addirittura su argomenti che non rientrano nella competenza del magistero – o consistono in proposte tecniche.
2. Nella Chiesa, perché sebbene pronunciate da autorità ecclesiastiche, anche la più alta, o comunque da esponenti della Chiesa anche laici, non possono essere ritenute della Chiesa e perciò vincolanti per il fedele, pur godendo di autorevolezza morale, ovvero risultando non false o erronee, se non proprio nella loro lettera vere. E ciò per le ragioni di cui sopra.
3. Vero che il discernimento tra della e nella è richiede un’enorme prudenza e normalmente appartiene allo stesso magistero, però è vero anche che
3.1. ai laici, come già ricordato, tocca l’attuazione della DSC, e perciò un po’ devono pur capirci;
3.2. se ci sono dei parametri ben precisi, non è difficile erigere un confronto tra questi e la proposizione, per esempio quando questa somiglia troppo ad una soluzione tecnica o a un programma politico-sociale, mentre il magistero ha ripetutamente escluso che questi siano di competenza della DSC, che dà indicazioni di massima e non è un’ideologia;
3.3. quando in questione sono teorie scientifiche e soprattutto economiche – a meno che queste non siano in sé stesse da condannare come quelle socialiste, ma su base antropologica non tecnica –, nessuno può pensare che il magistero dica una parola dirimente e perciò vincolante, anzi;
3.4. quando in una materia è stato enunciato con chiarezza perentoria un principio che trascende la contingenza – come da parte di Pio XII sui limiti della potestà fiscale – eventuali dicta che non ne tengano conto o lo contraddicano sono nella e non della Chiesa, chiunque li abbia pronunciati, a fortiori se influenzati da finalità d’altro tipo.
4. Non è il caso di farne un elenco, ma è evidente che nella materia economico-sociale sono frequenti le proposizioni di tal genere, la cui valenza è ridotta anche per la totale assenza di riferimenti all’essenziale finalità soprannaturale della DSC, e al principio dei principi, il rispetto del primo comandamento. Tutto il resto – anche la “pace”, la “giustizia”, la “salvaguardia del creato”, i valori del “regno” sui quali si dovrebbe realizzare il consenso universale e la relativizzazione (consenso comune) delle religioni e delle dottrine – «si rivela un insieme di chiacchiere utopistiche prive di contenuto reale» (Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, I, trad. it, Rizzoli, Milano 2007, p. 78).