Post in evidenza

Elenchi dei Vescovi (e non solo) pro e contro Fiducia Supplicans #fiduciasupplicans #fernández

Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

lunedì 14 maggio 2018

Giovanni Formicola: "Il Sessantotto, contro il Sessantotto. Cinquant’anni dopo". Prima Parte


Pubblichiamo l'intervento integrale dell'Avvocato Giovanni Formicola al Convegno di Parma  "Sessantotto e Humanae Vitae. Due antropologie contrapposte" del 7 aprile scorso con Formicola e Mons. Luigi Negri di cui Mil ha fatto stato (QUI).
Oggi la PRIMA PARTE, domani la SECONDA PARTE.
L

Il Sessantotto, contro il Sessantotto. Cinquant’anni dopo
1. I Sessantotto sono due[1], entrambi esito del plurisecolare processo rivoluzionario gnostico e anti-cristiano in corso, che si articola in profondità nelle tendenze-inclinazioni-costumi, nelle idee e nei fatti[2]. Ennesima sfida della storia.
1.1. Uno – mutuando la definizione dal titolo del pregevole studio del compianto Enzo Peserico[3] – è quello del piombo. È la versione politica del Sessantotto, ultimo colpo di coda rivoluzionario del comunismo in Occidente. Essa è declinata in termini di agitazione e violenza gruppuscolare, di organizzazione terroristica che si dà una struttura militare, di cui sono forma paradigmatica le Brigate rosse, spacciati come risposta alla violenza del sistema. I suoi sono gli Anni di Piombo. È una stagione di violenza programmata, che insanguina le strade, e lascia dietro di sé un lungo corteo di giovani e giovanissimi figli strappati ai genitori, di orfani, di vedove, di uomini e donne menomati per sempre nel corpo e nell’anima. E questo con il cinico pretesto che ad essere colpita è la divisa, la toga, la funzione sociale repressiva o contro-rivoluzionaria, non la persona, che naturalmente trae conforto, e con essa i familiari e gli amici, per il fatto di non essere stata colpita in quanto tale.
Quasi tutti i protagonisti – rectius, gli assassini –, sopravvissuti a quella stagione, sono ormai in libertà (e addirittura pontificano). Eppure anch’essi hanno ucciso magistrati, esponenti delle istituzioni e delle forze dell’ordine, come hanno fatto i mafiosi. Ma per questi ultimi, se non pentiti, non v’è alcuna prospettiva di uscire dal carcere da vivi. Qui si riflette il pregiudizio – minoritario, ma potente – favorevole ai terroristi e ai militanti dei gruppuscoli violenti rossi, che può essere sintetizzato nella stanca litania, però lottavano per un ideale, di giustizia, libertà, eguaglianza e fratellanza. Non mi spendo per confutare tale pregiudizio in sé stesso («il comunismo è intrinsecamente perverso»[4], giammai un bel sogno: attenti ai sognatori, generano mostri), se non ricordando con Solzenicyn che se il mezzo è ignobile, anche il fine è ignobile[5]. E comunque, il comunismo avrebbe voluto – vuole – prendersi tutta la vita e anche l’anima di ognuno, la mafia solo (si fa per dire) un po’ (si fa per dire) di danaro e potere.
L’esplosione della violenza rivoluzionaria e terroristica del Sessantotto di piombo può sembrare causata da un moto di ribellione contro il moderatismo delle forze storiche della sinistra socialcomunista, in particolare del Pci. E da un rifiuto – sessantottino, appunto – delle strutture di partito rigidamente autoritarie, gerarchiche e burocratiche, in nome di un certo spontaneismo armato verso la guerra civile rivoluzionaria. Ma non bisogna farsi ingannare. Se queste sono state le motivazioni della gran parte dei militanti, il fenomeno non però è né indipendente né estraneo al movimento comunista internazionale del suo tempo, di cui costituisce articolazione secondo la dialettica paura/simpatia: i terroristi e gli ultras fanno paura, e quindi il Pci istituzionale fa simpatia e rassicura. Basti pensare ai finanziamenti, all’organizzazione e all’addestramento, specialmente nei campi palestinesi (non capisco come si possa essere dalla parte di costoro), assicurati dai servizi segreti dell’impero sovietico, e all’album di famiglia del Pci.
In effetti,
«In Occidente il Pci e il Pcf dovevano rassegnarsi al dominio imperialista e rinunciare a lottare subito per il potere. Essi avevano però il dovere di prepararsi a farlo, anche costituendo unità di combattimento e depositi di armi, in vista dell’inevitabile conflitto tra Mosca e Washington, che non bisognava però provocare finché la seconda avesse goduto del monopolio atomico»[6]. E perciò, il Partito conserva quell’apparato clandestino illegale ed armato[7] la cui esistenza ed organizzazione era condizione di adesione alla Terza Internazionale[8]. In occasione della riunione costitutiva del Cominform a Szklarska Poreba, in Polonia, il 22-27 settembre 1947, «Longo [Luigi (1900-1980)] con dignità e una certa fierezza, “Vi assicuro” dice fra l’altro “che il nostro partito dispone di un apparato clandestino di speciali squadre che sono dotate, per il momento in cui sarà necessario, di ottimi comandanti e di adeguato armamento”»[9]. E tutto questo è reso possibile anche da una certa benevolenza complice della polizia, che, come Togliatti riferisce nel 1946 all’amba-sciatore sovietico a Roma, «lascia in pace le forze di sinistra e nello stesso tempo dimostra il suo attivismo nel perseguire e liquidare l’attività dei fascisti e dei monarchici. Se la polizia di Roma avesse voluto in questi giorni dare un’occhiata a cosa succede in certe sezioni dei partiti di sinistra avrebbe scoperto alcuni seri mezzi di difesa»[10]. Non è da escludere che «l’apparato», come i comunisti denominavano la loro organizzazione armata clandestina[11], «inabissatosi», sia poi riemerso all’epoca del terrorismo prima gruppuscolare e poi professionalmente e militarmente organizzato[12].
1.2. L’altro Sessantotto, recita il titolo cui mi rifaccio, è quello del desiderio – specie quello attinente alla sfera dell’eros, tanto che viene detto anche Rivoluzione sessuale, ma meglio sarebbe dire erotica. Del desiderio che pretende copertura giuridica, che vuol diventare diritto[13].
Non foss’altro che per ragioni di attualità, mi diffondo soprattutto su questo.
           2. «A quarant’anni di distanza, ciò che resta di quel complesso movimento politico, culturale e sociale che chiamiamo, per brevità, il Sessantotto è soprattutto una sorta di “pensiero socializzato” largamente operante nella mentalità corrente e nei comportamenti diffusi in ampi settori della nostra società». Questa considerazione, con la quale il prof. Roberto Pertici – docente di storia contemporanea nell’ateneo bergamasco – apre il suo saggio, prezioso e originale per l’approccio al tema, intitolato L’altro Sessantotto italiano: percorsi nella cultura anti-progressista degli anni Sessanta[14], coglie la realtà del fenomeno che non ha perso di attualità, anche cinquant’anni dopo, e continua la sua corsa, rimane «corrente» e «operante».
La felice sintesi in una breve frase – nella quale, chi può, avverte l’eco dell’a-nalisi strutturale dei fenomeni rivoluzionari dello storico e sociologo francese Augustin Cochin (1876-1916) – dell’essenza e della vigenza del Sessantotto come «categoria culturale permanente», infatti, permette di risparmiare molte parole e di tenére rem.
E subito dopo, un’altra considerazione illuminante spiana la via verso una com-prensione sempre migliore del nostro tema. Comprensione senza la quale, è ovvio, non sono possibili né un giudizio (diagnosi, per quel che mi riguarda, apparendomi chiaro il suo carattere di morbo) corretto, né un’azione (terapia) adeguata. Perché è solo vero che la cultura del Sessantotto è segnata dal «prepotente riemergere della “passione rivoluzionaria”, dell’idea, cioè, che l’unico tipo veramente risolutivo di mutamento politico-sociale sia quello che rompe radicalmente con la tradizione: la Rivoluzione (con l’iniziale maiuscola) diventa così la soluzione del problema della storia. Questa “cultura della Rivoluzione” [che invero a me sembra è presente da ben più di due secoli, e rimonta almeno al tempo dell’umanesimo secolarizzato e anti-cri-stiano[15]] […] matura nel tardo Settecento, nella negazione di uno dei temi centrali della tradizione cristiana (lo status naturae lapsae, il peccato originale) e nella sua riduzione a problema politico e sociologico» (pp. 184-185). Tale evidenza spiega il fenomeno rivoluzionario – e quindi il Sessantotto come parte di esso – nella sua radice, e soprattutto nella sua incapacità strutturale di mantenere le promesse di cui è generoso, che fatalmente si rivelano per quel che sono: minacciose utopie, destinate a scontrarsi sanguinosamente con la realtà dell’umana natura, che resiste ai tentativi di trasformarla, di ri-crearla e divinizzarla secondo un progetto ideologico[16].
È perciò naturale – com’è naturale orientarsi per chi possiede le coordinate – insieme con il professor Pertici riconoscere «[…] la vera svolta culturale degli anni Sessanta […]: l’affermarsi vittorioso e per molti aspetti inarrestabile (almeno fino a oggi) della “mentalità progressista”, come presupposto tacito della pratica culturale in Italia come in Europa occidentale. Intendo riferirmi a quella forma mentis che avverte il passato e la tradizione essenzialmente come un condizionamento oppressivo da cui liberarsi […]. In quegli anni si parlò continuamente di filosofia militante, politica della cultura, rinnovamento radicale attraverso la scienza, liberazione dai pregiudizi, demitizzazione, secolarizzazione: tutte articolazioni di un medesimo atteggiamento mentale. Comune a esse era un sottinteso fondamentalmente relativistico: i criteri del vero e del falso, del bene e del male venivano, di fatto, sostituiti dai loro equivalenti moderni, quelli di “progressivo” e di “reazionario”, di “innovativo” e di “tradizionale”» (p. 188).
In quest’opera di contestazione (uno dei nomi del Sessantotto) e demolizione della cultura e del senso comune tradizionali e cristiani – pertanto italiani –, l’autore individua uno strumento privilegiato, in qualche modo forgiato dall’opinione, elaborata e diffusa in alcuni ambienti intellettuali, che fosse «fallita» l’intera tradizione occidentale per il fatto che era sboccata nel fascismo e nel nazismo. Da qui l’esigenza di farne piazza pulita e di ricostruire tutto ab imis. Opinione peraltro condivisa anche da gruppi e ambienti cattolici che furono poi detti, e talvolta si dissero da sé, «progressisti». Vengono così contestati «sessantottescamente», quando non la stessa Chiesa e il ruolo del suo Magistero, certamente del cattolicesimo la storia e la cultura filosofica (troppo «ellenistica», questa), nonché la dottrina politico-sociale (troppo conservatrice, quando non reazionaria) e finanche la lex orandi, la liturgia, progressivamente secolarizzata, quando non contaminata da modelli tribali, patetici e infantili[17], specialmente per quel che riguarda il canto in chiesa, oggettivamente brutto e dissonante (per non parlare dell’architettura e l’iconografia, e non ne parliamo). L’assembleari-smo, con il collegialismo ideologico, è proposto e talvolta imposto contro la struttura gerarchica della Chiesa. La Messa ormai è detta da tanti «assemblea», sia pure con un «presidente», ed eccessivo appare il coinvolgimento dei laici in sacris. Tale posizione «cattolica» non è estranea neppure al suddetto Sessantotto politico. Anzi è autorevolmente ritenuta una delle cause dei moti sessantottini e addirittura dei fenomeni terroristici: la teologia della liberazione indurrà non pochi chierici alla lotta armata[18].
2.2. A questo punto mi permetto una digressione sul Sessantotto nella Chiesa, ovvero il Sessantotto cattolico, cioè dei cattolici.
«La Chiesa attraversa, oggi, un momento di inquietudine. Taluni si esercitano nell’autocri-tica, si direbbe perfino nell’autodemolizione. È come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio. Si pensava a una fioritura, a un’espansione serena dei concetti maturati nella grande assise conciliare. C’è anche questo aspetto nella Chiesa, c’è la fioritura. Ma poiché bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu”, si viene a notare maggiormente l’aspetto doloroso. La Chiesa viene colpita pure da chi ne fa parte»[19].
Se leggo questi versi senza presentarli – «Dio! Spezza i loro denti nella loro bocca»; «Il giusto gioisce perché vede la vendetta;/ i suoi passi, li lava nel sangue del malvagio» –, credo che pochi riconosceranno il Salmo 58 (vv. 7 e 11), eliminato (censurato?[20]) nel 1971 dalla liturgia delle ore a causa di «certe difficoltà psicologiche»[21], così come è stata eliminata la supplica della Veglia di Pasqua «Ut inimicos Sanctae Ecclesiae humiliare digneris, te rogamos audi nos!». Sembrano anche questi fenomeni di quell’autodemolizione denunciata dal beato pontefice, per cui nella Chiesa si tende a relativizzare, con falsa umiltà, la propria assolutezza e unicità[22] – ovviamente come sacramento, come Corpo mistico, come Madre e Maestra di Verità e Arca di salvezza –, cancellando o sottacendo ogni riferimento a nemici da combattere, e così anche ad ogni dottrina che divida, che ponga in rapporto di crisi con il mondo e con le altre religioni. Si giunge fino al punto di correggere, mediante censura, la Parola di Dio, in una sorta di Marcionismo di ritorno che si applica anche al periodo cosiddetto pre-conciliare. È quasi un fraternalismo senza Padre, in quanto si risolve in una dimensione orizzontale, irenista, pacifista, che sostituisce il dialogo – che è certo una modalità umana e perciò cristiana di rapporto con il prossimo – al-l’insegnamento con autorità. Come scrive nel decennale del Sessantotto un altro compianto esponente della cultura schiettamente cattolica, Emanuele Samek Lodovici (1948-1981), «[…] al posto della capacità d’indignarsi, di utilizzare santamente l’ira che, come dicevano i classici, aiuta la ragione “ad ergersi più gagliarda contro il male” [così Gregorio Magno, Moralia in Job, 5, 45; san Tommaso aggiunge anche che  fortis assumit iram ad actum suum], abbiamo avuto e abbiamo tutte quella clorotiche, timide, melense, cremose esortazioni all’abbraccio, all’amore […]. Tommaso e Aristotele […] consigliavano di guardarsi dall’illecita pietà, dal confondere l’amore con la comprensione, perché dietro la pietà per gli altri vi può stare nascosta la pietà per sé stessi, vi può stare nascosta una sorta di servizio reso anticipatamente ai nostri difetti, perdonandoli in altri». Cioè a dire, si preferisce ignorare che «il male c’è, ed è all’opera tragicamente nel mondo»[23], pur di non impegnarsi a combatterlo, anche, se non specialmente, interiormente
Inquadro questi fenomeni, così rapidamente e solo emblematicamente riassunti (trascuro la TdL solo perché meno attuale), in un Sessantotto nella Chiesa non perché i grandi fenomeni della Rivoluzione non si fermano sul sagrato. Anzi, per il loro carattere universale, totale, dominante e unitario[24], essi penetrano come «fumo di Satana [anche nel] tempio di Dio»[25], e come vedremo, da esso in un certo senso principiano. Ma per due ragioni, che rimandano agli elementi costitutivi del Sessantotto.
Il primo è la disobbedienza – quidditas della Rivoluzione, ch’è eco storica del non serviam[26] luciferino, nel prologo in cielo[27] di questa diuturna battaglia –, che emerge quasi in purezza nel Sessantotto, costituendone la cifra, almeno nel senso di cui tra poco. E i fatti di cui s’è detto, tutt’ora attuali, la esprimono. Si disobbedisce a Dio tanto quanto non corrisponde alla propria psicologia, fino a censurarne, anche tacendola o eccependone l’incertezza (non ne abbiamo registrazioni), la Parola. Si disobbedisce alla Tradizione e alle tradizioni. In modo tipicamente sessantottino, si radicalizza e semplifica l’idea – già illuminista, idealista e modernista – che il nuovo, finanche nella liturgia e nelle devozioni, è criterio positivo, mentr’il vecchio è negativo e va abbandonato. Si disobbedisce, più che altro riducendola ad un ruolo formale e tutt’al più di coordinamento di mille e mille impegni, all’autorità, ma quando questa è percepita rivoluzionaria diventa più assoluta di qualsiasi assoluto.
Il secondo è la fretta, una fretta esistenziale ed escatologica, per la quale diamo voce a Benedetto XVI e a Joseph Ratzinger.
«[…] Nel dopo-Concilio, la cesura del ‘68, l’inizio o l’esplosione – oserei dire – della grande crisi culturale dell’Occidente. […] comincia, esplode la crisi della cultura occidentale, direi una rivoluzione culturale che vuole cambiare radicalmente. Dice: non abbiamo creato, in duemila anni di cristianesimo, il mondo migliore. Dobbiamo ricominciare da zero in modo assolutamente nuovo; il marxismo sembra la ricetta scientifica per creare finalmente il nuovo mondo. E in questo – diciamo – grave, grande scontro […] una parte era del parere che questa rivoluzione culturale era quanto aveva voluto il Concilio, identificava questa nuova rivoluzione culturale marxista con la volontà del Concilio; diceva: questo è il Concilio. Nella lettera i testi sono ancora un po’ antiquati, ma dietro le parole scritte sta questo spirito, questo è la volontà del Concilio, così dobbiamo fare»[28].  
«[…] ’68: la politica si erge a religione, e la religione si converte in passione politica. La fede nella trascendenza e nel destino eterno dell’uomo vien meno […]. Rimane però l’aspettativa d’una salvezza incondizionata […] che […] dev’essere ora conquistata in questo mondo mediante le sole proprie forze. Così però si carica la politica di un’attesa alla quale essa non può corrispondere. La religione fattasi politica esige troppo dalla politica stessa e diviene così fonte di disintegrazione dell’uo-mo e della società»[29].
La Gerusalemme non cala dal Cielo, ma sale, deve salire per opera dell’uomo dalla terra e sulla terra deve avvenire. Non si può attendere l’al di là. I poveri stanno ancora aspettando.
2.3. Torniamo al Sessantotto universale. Questo rifiuto dell’attesa, questo culto dell’hic et nunc è gnostico. Come magistralmente è stato illustrato da Eric Voegelin[30] – a mio avviso il più grande scienziato della politica del XX secolo – l’incertezza dell’esito finale (eschaton, di cui la Rivoluzione gnostica è la pretesa immanentizzazione), unita con tutte le cause di sofferenza nella vita (Esiodo enumera la povertà, la malattia e la morte, la necessità di lavorare, le relazioni tra i sessi), induce ad un paradigma – che si ripresenta nelle forme più diverse attraversando la storia –, radicalmente rivoluzionario. Radicalmente, in quanto non contro questo o quell’ordine storicamente costituito, ma contro l’ordine stesso dell’essere, che assume mal fatto e che quindi contesta in sé, prim’ancora che nelle determinazioni fattuali. Esso, oltre al giudizio critico sull’essere – per cui la colpa non è mia se le cose non vanno bene, ma di com’è fatto il mondo –, si nutre dell’idea ch’è possibile con una formula (gnosi/ideologia), da applicare al reale attraverso l’azione, ricuperare qui e ora il paradiso perduto (e negato da un dio cattivo, che ci tiene prigionieri), cioè liberare l’uomo, diventato nuovo, definitivamente dal male (inteso male) e dalla sofferenza. Al di là della specifica consapevolezza dei suoi attori, anche di vertice, è questo lo spirito che ha innescato e anima il processo rivoluzionario, che da oltre cinque secoli ha colpito la civilizzazione cristiana per colpire la Chiesa – togliendole l’habitat accogliente –, cioè la continuazione nella storia della presenza del Signore Gesù. La gnosi[31] nega il peccato originale nel senso del dogma cattolico – cioè come colpa del primo uomo e unica causa strutturale e meta temporale del male e delle ingiustizie nel mondo creato –, e mette sotto accusa il Creatore in vari modi, che qui è inutile specificare. Il peccato originale, ridotto «a problema politico e sociologico», può essere eliminato dall’a-zione umana organizzata ideologicamente (gnosticamente), come la zizzania che infesta il campo, nonostante che la Parola di Cristo smonti preventivamente e sconsigli vivamente questa utopia rivoluzionaria[32].
E così, quella che chiamo Rivoluzione – ma il suo nome potrebb’essere anche modernità, in senso non cronologico – individua un peccato originale immanente al mondo da sradicare. Crede così di sanare per sempre la religione – lo spogliamento non può cominciare dalle mutande – e la Chiesa dai suoi difetti umani, eliminando il sacerdozio ministeriale e quindi la gerarchia docente. E se pure questa fosse zizzania, sradica con essa il buon grano dell’Eucaristi. Spezza perciò il legame con la Verità assicurato dal magistero, illudendosi di liberare il credente. La prima Rivoluzione, Cristo sì, Chiesa no[33], il protestantesimo. Crede poi di sanare i mali politici eliminando ogni autorità intermedia tra il potere pubblico e il singolo. Sopprime allora i corpi storici, la cui aggregazione forma la società organica, che atomizza, e la stessa autorità regale. Spezza anche i legami tra potere e morale, relegando Dio in Cielo, il che nega a Chiesa ogni facoltà d’intervento nella vita temporale. Lascia così i singoli e i corpi naturali soli e inermi di fronte al potere anonimo e incontrollato dello stato moderno, che basta a sé stesso e occupa tutta la scena quando diventa popolare. E nella migliore delle ipotesi è il potere totale della maggioranza, che troppo spesso però continua a scegliere Barabba. La seconda Rivoluzione, Dio sì, Chiesa no, illuminismo e Rivoluzione in Francia. Crede, successivamente ancora, di sanare i mali economici negando Dio, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e il patrimonio familiare, cioè la famiglia, con il divieto o quanto meno le imposte progressive di successione, spezzando il legame ordinato con il creato, e con l’odio e la lotta di classe il buon legame tra padrone e dipendente. La terza Rivoluzione, Dio è morto, marxismo e comunismo leninista. Infine, riprende, socializzandola, la sua dimensione culturale che ne fu prologo con l’umanesimo[34] ateo. La quarta, secondo la ricostruzione proposta da Plinio Corrêa de Oliveira[35], è logica conseguenza delle prime tre. Esse contenevano in nuce il suo paradigma permissivo e libertario: negazione del magistero autorevole, della gerarchia religiosa e divorzio nel protestantesimo; sadismo erotomaniaco e libertinismo nell’illuminismo e nella Rivoluzione detta francese; soppressione della famiglia e libero amore nel primo progetto bolscevico. Proclama la terminale abolizione emancipazione da autorità e legge morale, e cerca il paradiso perduto nella società permissiva[36]. Lo scatenamento degl’istinti, delle emozioni e delle passioni, inevitabilmente correlati a insofferenza per le regole e per l’autorità, non è più o non è più solo fatto individuale e caratteriale, ma teorizzato e socializzato, attitudine e paradigma diffuso in qualunque status sociale e generazionale e garantito pubblicamente. Si tratta ormai di eliminare insieme con la proprietà (socialcomunismo) la morale tradizionale, e spezzare ogni altro legame residuale fuori e dentro (emblematica è la recisione del cordone ombelicale ad mortem) di sé. La IV Rivoluzione è perciò micro-strutturale[37], è come la polvere che s’è sollevata e che tutto ha coperto e intossicato dopo la caduta delle torri gemelle, cioè dopo la caduta diffusa ed emblematica delle istituzioni e degl’istituti macro-sociali che proteggevano la persona anzitutto da sé stessa e dagli effetti del peccato originale. È Rivoluzione iper-edonista. Difficile perciò da afferrare, anche concettualmente.
La Rivoluzione nelle sue tre fasi che precedono quella culturale, può avere, per prima icona, l’etiope, ma che respinga Filippo (At., 8, 26-40), rimanendo solo solo con il suo Libro di cui può fare quel che vuole. Poi, seconda icona, quella del filosofo-legista intento a scrivere una costituzione perfetta, in forza della quale non ci sarà più bisogno d’essere buoni[38], mentre intorno a lui cadono le teste. Terza icona, quella dell’operaio bolscevico muscoloso e dalla mascella quadrata (si noti come questi modelli corrispondano a quelli del fascismo, unico socialismo dal volto umano della storia), tutto proteso verso l’avvenire armato di falce e martello, strumenti idonei a costruire il GULag. Quale sarà l’icona del Sessantotto? Qualcuno potrebbe pensare all’operaio di cui sopra, che si è fatto crescere barba e capelli, ed è diventato irsuto. Può essere. Bisogna però aggiungere – e questa è la cifra – che s’è anche strappato via la veste e le vesti[39]. Ha scelto d’inselvatichirsi. L’uomo, infatti, nasce nudo, ma poi viene vestito e si veste. Gli abiti rappresentano la civilizzazione, il passaggio tramite l’educazione del barbaro, che ciascuno di noi è alla nascita, alla civiltà, al quale transito l’unica alternativa è appunto l’inselvatichimento. Ma è un uomo selvatico che conserva la tecnologia e la sua potenza. L’icona antropologica del Sessantotto è dunque il neo-selvaggio tutto istinto e passione, tutto diritti e senza doveri, che non ragiona più logicamente – la barbarie della riflessione[40] che non si sottomette più al reale e al suo ordine, a gerarchie e impegni. Il rifiuto riguarda l’essere e il suo Creatore. Il paradiso, la liberazione dal male, è l’erba voglio a disposizione, che grazie all’iper potere tecnologico non è stata mai così abbondante.
O se volete, considerando la cosa da un altro versante, icona del Sessantotto – cioè d’una sua articolazione, la dialettica di rivalsa femminista, contro la propria natura orientata alla fecondità e contro il maschio, ch’esso innesca e alimenta – può essere anche una donna che impugna, anzi ostenta compiaciuta, una pompa di bicicletta che procura aborti, emblema, la donna non il gonfiatore, dell’inversione morale[41].
Il protestantesimo nega il Padre negando il sacerdozio; la Rivoluzione in Francia negando anche il re e ogni autorità intermedia; il Comunismo, negando anche il padre e il padrone. Il Sessantotto è il rifiuto finale anche dell’auto-paternità, è una volontà di potenza che nega ogni dipendenza – anche dal dato di natura: Io sono mia, anche se non mi sono fatta da sola – e obbedienza, e come dicevo prima in modo metafisico. Non si è cioè al cospetto di meri episodi di ribellione e disobbedienza ai genitori, ai maestri, ai propri superiori, alle istituzioni, alle autorità d’ogni tipo. È una libido dominandi – vissuta nella dimensione solipsistica – che si rivolta «contro la propria natura e contro Dio»[42]. È un’anti-antropologia, contrapposta a quella naturale e rivelata all’uomo da Dio stesso, dell’obbedienza alla quale l’enciclica ad esso contemporanea, Humanae vitae, è un’alta testimonianza. Alcuni slogan tipici del Sessantotto sintetizzano questa sua cifra. Dio è morto; Lotta dura contro natura; Vietato obbedire; Vietato vietare; Vogliamo tutto, e subito; Fantasia al potere (contro, come si disse, la camicia di forza della ragione aristotelica: ed infatti in una scalmana diffusa hanno completato il proprio impazzimento architettura, pittura, musica, etc.). L’utopia egualitaria e libertaria – che si è sempre risolta nel suo contrario, supremazia assoluta e senza limiti di pochi o pochissimi su tutti e soppressione d’ogni autentica libertà, a cominciare da quella religiosa e di dire la verità – si svolge in modo peculiare. La ragione viene liberata dalla logica e da qualsiasi residuo di metafisica – il che causa il caos semantico, la babele dei significati, e il pensiero minimo, che impedisce ogni autentico dialogo, ch’è tale solo se si eleva alla trascendenza[43]; gl’istinti dal pudore[44] e dall’auto-controllo –, il che causa il disordine morale diffuso, ma anche il disordine sociale e l’incremento dei fatti di violenza. L’egualitarismo e il libertarismo – i valori della Rivoluzione, generati da orgoglio e sensualità dominanti e sfrenati – sopprimono la gerarchia interiore (la Rivoluzione in interiore homine), per cui ogni pulsione viene legittimata. E la volontà – tale s’è al servizio della ragione, e si svolge nell’ordine dell’essere da questa individuato – liberata diventa libito, libido, voglia[45]. Persino le forme di cortesia sono bandite, i titoli di riguardo calpestati, in nome della libera spontaneità anti-formalista, e dell’egualitarismo tuteggiante.
L’uomo spirituale[46], che sa di dover essere salvato, soccombe all’uomo psichico, che pretende solo di essere accontentato. Come un bimbo viziato e capriccioso.
Dicono niente erotismo, anche se non soprattutto virtuale, ultraprecoce, la criminalità infantile, gl’insegnanti terrorizzati dal teppismo gratuito degli allievi ma anche dalla prepotenza dei genitori, l’incapacità diffusa di concentrarsi e di seguire un filo logico, il rifiuto panico del silenzio e della contemplazione? Il vento seminato è diventato tempesta. E la felicità promessa sembra per l’ennesima volta assente dal quadro. Gl’istinti sono liberati, ognuna è sua, ma il male, anche il male di vivere non è scomparso, anzi s’è accentuato. Basterà porre mente ai crimini sessuali che venivano attribuiti alla repressione del desiderio e dell’eros, e al loro contrappasso, #MeToo, che demonizza anche l’approccio, detto una volta corteggiamento.
Il principio anti-antropologico del Sessantotto è dunque da rinvenire
nell’«[…] egotismo – […] soggettivismo-volontarismo del pensiero e della morale»[47].
«L’amor Dei e l’amor sui,[…] sono tradotti [da Santayana] in uno spirito che armonizza la psiche – collocandola nel mondo – e nell’egotismo, il quale si illude che la psiche sia in grado di possedere la forza e la dirittura morale per imporsi sul mondo. L’egotismo è ribelle alla saggezza dello spirito, la cui funzione è di adattare la natura umana ai fatti, “cosicché vivendo in armonia con loro, possa vivere in armonia con sé stessa”. Lo spirito che è diventato “egotista” scambia i suoi pensieri sul mondo per il mondo stesso e regredisce dalla moralità razionale al dettato pre-razionale della passione. Il criterio generale della crisi […] è la perdita di esperienza e saggezza che fu incarnata nel cristianesimo, e la rinascita, in suo luogo del “paganesimo”»[48].
         Una delle cause culturali profonde dell’egotismo è stata – almeno in area anglo-americana e germanica – la pseudo riforma protestante, che ha negato l’ascesi negando la mistica, così riducendo la virtù ad un’esistenza regolata, al decoro borghese, al successo professionale. Il sostanziale naturalismo morale, cioè moralismo, che ne è seguito e si è fatto largo con lo spirito piccolo borghese («un rapporto assoluto con le cose relative» [Kierkegaard]) anche in area cattolica, ha lasciato solo e irredento l’uomo. Ma lo ha lasciato anche carico di amore inespresso, d’insoddisfa-zione e di angoscia per il Weltschmerz, il «dolore del mondo». E a causa di tale «chiusura del Cielo», senz’altra guida che sé stessa e tutta in sé stessa concentrata, parte dell’umanità moderna confida soltanto nella sua volontà, cui attribuisce un potere quasi magico, nella prospettiva di aiutare il mondo spiritualmente disgregato, che ha perso l’ordine perché ha perso il significato che lo fonda. Ma questo tipo umano non può dare ordine perché gliene mancano le coordinate e i principi, ed allora il suo «generoso» slancio si risolve in un’attitudine ben descritta nella figura, tragica – e per noi altamente simbolica dell’itinerario rivoluzionario – dell’Empedocle protagonista di una tragedia di cui Nietzsche ci ha lasciato gli appunti.
         «Empedocle: “Come divinità vorrebbe aiutare; come uomo, pietosamente vorrebbe distruggere. Come demone, egli distrugge se stesso”»[49].
Il Sessantotto è proprio questo. Dalle buone intenzioni distruttive del (cattivo) ordine vigente per redimere da esso il mondo, che lasciano solo morte, macerie, miseria e disperazione (basti pensare all’esito d’ogni episodio rivoluzionario, sempre e ovunque), alla definitiva auto-distruzione dell’uomo invece che il superuomo eman-cipato da ogni vincolo e inibizione, fino all’onnipotenza, detta auto-determinazione, sulla propria e altrui natura[50]. E non mi riferisco agli innumerevoli morti, dal Sessantotto al momento in cui vi parlo, per suicidio (e non motivato dalla disoccupazione). O per quel suicidio differito nel tempo che è l’assunzione di droghe[51], come modo di modificare l’insopportabile – senza fede speranza e carità – reale, non nei suoi costitutivi (impossibile), ma nella sua percezione soggettiva, da inferno a paradiso (artificiale, cioè falso). E neppure ai morti morali per depressione, o a quelli spirituali per accidia totale. Che pure, gli uni e gli altri, sono – certo non in modo assoluto e totalizzante – anche effetti del Sessantotto. Mi riferisco all’auto-distruzione che consiste nel ridurre l’uomo ad un fascio di pulsioni e istinti da soddisfare nella ricerca d’un piacere che non basta; che consiste nel trasformarsi e nel trasformare il soggetto umano in un prodotto di laboratorio; che consiste nella pretesa d’essere signore dell’altrui e propria vita non già più in un campo di concentramento, ma nella stanzetta d’un ambulatorio. È la nuova (rectius, inversione) morale, costruita sulla critica alla morale borghese, che spesso non era altro che la morale vera, e se ne fosse stata degenerazione sarebbe stata piuttosto da restaurare.
         In altri termini, se
         «[…] da oggi in poi l’uomo è il solo creatore possibile delle proprie leggi e il solo costruttore possibile della propria storia [Hannah Arendt]
         Se
         «[…] l’uomo è il nuovo legislatore, e sulle tavole cancellate del passato egli scriverà le “nuove scoperte della morale” […]
         Allora
         «Ciò suona come un incubo nichilistico»[52].
         3. Sì il Sessantotto è in tutti gli effetti e atteggiamenti sin qui evocati. In Italia, la sua prima immediata ricaduta istituzionale – poi ci sarà una tragica squenza, dall’aborto alle unioni civili omoerotiche –, nel 1970, è il divorzio. Esso è alle origini, con la liberazione della donna – ovviamente qui intesa in senso ideologico, e in quanto tale in realtà schiavizzazione delle donne, ridotte sempre più spesso a genere di consumo e deprivate della dimensione naturale sponsale e materna[53] –, della fine del matrimonio[54]. Infatti, come può un uomo reso instabile strutturalmente, in quanto costituito dalle sue voglie, assumere un impegno definitivo, un compito per la vita, qual è il matrimonio? E con la crisi del matrimonio va in crisi la natalità, il che prepara un gelido futuro, uno scenario come quello descritto ne La strada[55], solitudine e lotta per la sopravvivenza.
Il Sessantotto è quindi nell’attuale riduzione della vita – ovviamente e grazie a Dio non per tutti – al caos esistenziale, siccome privata dei legami vitali che la nutrono e le danno senso. Primo fra tutti quello educativo, leso in modo mortale dalla negazione della verità e dell’autorità che da essa è legittimata. L’individuo, lasciato solo, sprofonda nel nichilismo, nella misura in cui ha perso il mondo, inteso come cosmo, realtà ordinata e finalizzata, nella quale l’esistenza – pur con tutti i suoi dolori – può continuare senza doversi ottundere in un flusso ininterrotto e insaziabile di emozioni e di piaceri.     
«[…] il […] caos […] quella forma di esistenza per cui la società moderna non è altro che “l’orgia illimitata dell’io senza mondo”»[56].
Lungi dall’essere il paradiso in terra, è anticipazione dell’inferno nella storia.
4. Eppure, non perdiamo, non dobbiamo perdere, oltre la speranza teologale, neanche quella umana.
Anzitutto, abbiamo un vantaggio, abbiamo visto come va a finire: reificazione e dissoluzione dell’uomo.
E poi perché abbiamo alle spalle, ma anche davanti, l’esperienza di uomini come Benedetto da Norcia (480-547) e i suoi primi seguaci. Essi conservarono in un tempo anch’esso buio – è ozioso porsi il problema di quale sia il più buio – lo spirito volto al futuro, ma soprattutto all’eternità, che risponde sempre alla fida del tempo, anche a quella del Sessantotto. Iniziarono a porre le basi – forse al di là delle loro stesse intenzioni, ch’erano semplicemente di quaerere Deum – per la restaurazione della civiltà. Accesero fuochi, per illuminare e riscaldare, invece di lamentarsi. Anche noi ci siamo qui riuniti oggi e continuiamo a riunirci, ovunque almeno due o tre siano disponibili, allo scopo della custodia e conservazione (ch’è il nostro modo di conoscere, amare e servire Dio), in vista della sua trasmissione, di quello che nel suo citato capolavoro, Cormac Mac Carthy chiama il fuoco, cioè un’antropologia vera, ch’è al principio – non negoziabile – dell’ordine e del bene sociali. Fuoco oggi minacciato d’estinzione – ma non del tutto estinto: noi siamo qua, pochi se si vuole, ma mi pare vivi – dai gelidi venti del relativismo nichilista e dal superomismo voglioso e tecnologico, manipolatore della vita, della morte, della generazione e finanche dell’identità biologica dell’uomo e della donna. Ci formiamo e ci prepariamo alla discussione razionale, ch’è già in sé un contro-Sessantotto, come la dice Eric Voegelin, ancora una volta nella prospettiva di conservare e restituire razionalità, e quindi verità, bene e bellezza, ad un mondo impazzito.
La crisi del mondo generato dalla Rivoluzione indusse tanti ad aderire al rimedio che aggravava lo stesso male, portandolo al parossismo. Questa fu l’occasione a suo tempo perduta dal mondo cattolico. Agli uomini in crisi andavano proposte, invece che un annacquamento conciliante, con più forza la fede e l’ascesi eroica, rivelando almeno agli spiriti migliori che la crisi di cui soffrivano non dipendeva da una demolizione incompiuta, ma proprio dalla demolizione sino allora compiuta, e che si trattava di ricostruire l’uomo e poi il cristiano. Ma nessun’occasione storica è definitivamente persa. Ci possiamo attendere dalla Chiesa, in quanto continuazione nel tempo della presenza e dell’opera del Salvatore ed eco dello Spirito Suo, che ci trasmetta «autentiche certezze, poiché solo creando convinzione apre lo spazio per ciò che le è stato consegnato […]. La Chiesa […] deve preparare la via al divino […] nell’obbedienza allo Spirito […] e così aiutare la società a trovare la sua autentica fisionomia morale»[57].
È in atto un percorso che va dal libertinismo individuale al libertarismo come ideologia. Stigma di una società opulenta cui il Sessantotto – con la sua furia iconoclasta e demolitrice di principi, valori, autorità, gerarchie, istituzioni tradizionali, a cominciare dalla famiglia, e soprattutto di ogni sacralità e spirito religioso – ha fatto da battistrada. Ma c’è stato un «altro sessantotto italiano». Quello che ha rifiutato «l’immanentizzazione dell’eschaton cristiano»[58]. Rifiuto che porta a riconoscere il vero discrimine tra le culture nell’accettazione o non della trascendenza (fare, almeno, veluti si Deus daretur), a partire dall’intuizione del principio di realtà – contro ogni «perfettismo» –, che garantisce dall’essere vittime dell’infatuazione utopistico-rivo-luzionaria e delle sue tragiche, omicide e distruttive conseguenze. Questo altro Sessantotto è la destra – i partiti non c’entrano, va intesa come la intende la Scrittura[59], la parte dei buoni, ma buoni davvero – reale, tanto diffusa e maggioritaria nel nostro paese, quanto, quasi si trattasse di un lebbrosario, «non rappresentata nel sistema politico italiano». Destra «le cui radici si possono trovare nella diffidente accettazione della democrazia, nella frequente polemica “antimoderna”, nel rifiuto della politicizzazione della società e […] in un anticomunismo, si direbbe, “esistenziale”. È un’area che elettoralmente si sposterà sui partiti che via via le sembreranno corrispondere a questo sentire diffuso, ma sempre, in definitiva, “turandosi il naso”»[60]. E per «anticomunismo esistenziale» – ma potremmo dire per antisessantottismo esistenziale – lo stesso autore, con grande puntualità ed in modo assolutamente condivisibile, intende «l’avversione spontanea, profonda, immediata di tanta piccola e piccolissima gente, per lo stravolgimento violento della “naturalità sociale”»[61], stravolgimento di cui il Sessantotto sembra essere l’episodio – tuttora in corso – terminale.

----------------------------------------------------------------------------------------------------------

[1] Naturalmente, il Sessantotto né inizia l’1 gennaio, né termina il 31 dicembre. Nel 1968 esplode e si diffonde un fenomeno in fieri da decenni e preparato ideologicamente da secoli, che oggi è diventato costume e pensiero egemoni.
[2] Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it, presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009, in particolare la parte terza, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Vent’anni dopo (pp. 151 – 185), che fu edita per la prima volta in Italia da Cristianità, Piacenza 1977, pp. 167-195. La periodizzazione del processo rivoluzionario, che l’autore riprende oltre che dai maestri del pensiero contro-rivoluzionario anche dal magistero della Chiesa, è stata sostanzialmente confermata – ovviamente con altri scopi e ad altri propositi – anche dal magistero successivo. In particolare, ultimamente, quello di Benedetto XVI (2005-2013) nella lettera enciclica Spe salvi del 30 novembre 2007 (nn. 16-23, come secolarizzazione della speranza), e nel discorso detto «di Ratisbona» del 12 settembre 2006, in cui quello che secondo il professor Plinio è il processo rivoluzionario, è considerato – senza alcun riferimento, è ovvio, alle problematiche della scuola contro-rivoluzionaria –, sotto il profilo teologico e culturale, quale de-ellenizzazione del rapporto fede-ragione.
[3] Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008.
[4] Cfr. Pio XI (1922-1939), Lettera Enciclica Divini Redemptoris promissio sul comunismo ateo, del 19 marzo 1937.
[5] Cfr., Aleksandr Solzenicyn (1918-2008), Il primo cerchio, trad. it. Mondadori, Milano 1989, p. 718.
[6] A. Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991 (vol. II), il Mulino, Bologna 2011, p. 78.
[7] «Secondo dati del ministero degli Interni tra il 1946 e il 1953 erano stati scoperti 173 cannoni, 719 mortai, 35.000 fucili mitragliatori, 37.000 pistole e rivoltelle, 250.000 bombe a mano, 309 radiotrasmittenti» (M. Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano 1984, p. 128), «27.123 fucili e moschetti da guerra, 995 mitragliatrici, 5,746 quintali di esplosivo, 5.480.879 munizioni» (P. Di Loreto, Togliatti e la «doppiezza». Il PCI tra democrazia e insurrezione (1944-1949), il Mulino, Bologna 1991, p. 320). Cfr., G. Donno, La Gladio rossa del PCI, cit.. Per una chiave di lettura, che prende spunto da un inopinato decreto d’archiviazione dell’inchiesta penale sull’«apparato» del PCI, cfr. M. Ronco, Gladio rossa, l’«inchiesta impossibile», in Il Secolo d’Italia. Quotidiano del MSI-DN, 30-10-1994.
[8] Cfr. M. Geller e A. Nekrič, Storia dell’URSS dal 1917 a Eltsin, Bompiani, Milano 1997, p. 139.
[9] M. Mafai, op. cit. p. 53.
[10] Colloquio verbalizzato tra l’ambasciatore M. A. Kostylev e Togliatti, del 24 maggio 1946, cit. in E. Aga Rossi e V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 1998, p. 242.
[11] Cfr. P. Di Loreto, op. cit., p. 64.
[12] Cfr. G. Cantoni, La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980, p. 107.
[13] «[…] il Novecento, dopo una rivoluzione sessuale egoistica e senza saggezza, è approdato a traguardi di permissivismo, di ostentata volgarità e di pubblica spudoratezza, che sembra non aver paragoni adeguati nella vicenda umana» (Giacomo Biffi [1928-2015], Intervento al convegno «La passione per l’unità: Vladimir Solov’ëv», organizzato dal Centro culturale E. Manfredini e dalla Fondazione Russia Cristiana, Bologna 4 marzo 2000, http://www.francocenerelli.com/antologia/biffi.htm#Vladimir%20Sergeevic%20Solovev:%20un%20profeta%20inascoltato, visitato il 7 maggio 2018).
[14] Pubblicato dall’Istituto di Studi Politici «S. Pio V» di Roma come estratto dal volume a cura di Benedetto Coccia 40 anni dopo: il sessantotto in Italia fra storia, società e cultura (Editrice Apes, Roma 2008, pp. 183-251, pp. 183-184).
[15] Si tratta, né più né meno, dell’«itinerario culturale e socio-politico dell’umanesimo europeo, segnato dall’ateismo non solo nel suo esito marxista» (Sinodo dei Vescovi. Assemblea Speciale per l’Europa, Dichiarazione «Siamo testimoni di Cristo che ci ha liberato», del 13-12-1991).
[16] La diabolica e perciò ingannevole promessa, eritis sicut dii (Gn, 3,5), che non potrà mai essere mantenuta siccome irrealizzabile, è però foriera di disastri. Essa si risolve nel suo opposto, il totale deperimento dell’uomo, fino alla sua dannazione, storica certamente, e quanto verosimilmente all’eterna, solo Dio sa.
[17] "Quale necessità c'è di danza? Nei misteri dei greci ci sono le danze, nei nostri invece silenzio e ordine, rispetto e compostezza" (San Giovanni Crisostomo, Homiliae super Epistulam ad Colossenses, XII).
[18] «La rivolta parigina degli studenti, che dette avvio al movimento del ’68, non fu un fenomeno d’urto abbattutosi dal-l’esterno contro la Chiesa, bensì è stata preparata e innescata dai fermenti postconciliari del cattolicesimo e da correnti della teologia protestante americana rivoluzionaria, che cronologicamente l’hanno preceduta. Il fatto che a Parigi, sulle barricate, venisse celebrata l’eucarestia come affratellamento dei combattenti per la libertà anarchica e come segno di speranza del messianismo politico che credeva in un nuovo mondo, destinato ad essere partorito nel terrore, mostra il carattere essenzialmente religioso, o meglio, pseudoreligioso del fenomeno. Quest’implicazione teologica risalta in maniera inequivocabile anche nel terrorismo tedesco e italiano degli anni ’70. Il processo di formazione del terrorismo italiano dei primi anni ’70 rimane incomprensibile se si prescinde dalle crisi e dai fermenti interni al cattolicesimo postconciliare» (Joseph Ratzinger, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1992, p. 125).
[19] Beato Paolo VI (1963-1978), Discorso ai membri del pontificio seminario lombardo, 7-12-1968.
[20] Cfr., André Wénin, Salmi censurati. Quando la preghiera assume toni violenti, Dehoniane, Bologna 2017.
[21] Ibid., p. 13, virgolettato nel testo, attribuito al beato Paolo VI.
[22] Cfr., Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dominus Iesus, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 6 agosto 2000.
[23] I cattolici nella tempesta, in Dov’è finito il ’68? Un bilancio per gli anni 80, Ares, Milano 1979, pp. 144-145, e p. 149. La sottolineatura è dell’autore.
[24] Cfr. P. C. de Oliveira, op. cit., parte I, cap. III.
[25] Beato Paolo VI, Omelia per il IX anniversario dell’Incoronazione, 29-6-1972.
[26] Cfr., Ger., 2, 20.
[27] Cfr. Ap., 12, 7-10.
[28]Incontro con il clero delle diocesi di Belluno-Feltre e Treviso, 24-7-07.
[29]J. Ratzinger, Svolta per l’Europa?, cit. p. 128.
[30] Cfr., E. Voegelin (1901-1985) Il mito del mondo nuovo. Saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, trad. it., Rusconi, Milano 1976 (II ed.) (1959), e La nuova scienza politica, trad. it., Borla, Torino 1968 (1952).
[31] L’essenza della gnosi è quella di «essere una rivoluzione radicale. Schierandosi dalla parte del serpente, di Caino, di Giuda, dei grandi “banditi” dell’umanità, essa esprimeva il suo intento vero e proprio: respingere il cosmo nella sua interezza insieme col suo Dio, che smaschera quale cupo tiranno e carceriere, vede in Dio e nelle religioni solo il sigillo e la chiusura definitiva di quella prigione che è il cosmo. […] non è che la forma radicale della protesta contro tutto ciò che fino allora era apparso santo buono e giusto, e che ora veniva demistificato come prigione di cui la gnosi prometteva di mostrare la via di scampo» (J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, trad. it., Morcelliana, Brescia 1973 [1971], pp. 23-24).
[32] Cfr. Mt., 13, 24-30.
[33] Pio XII (1939-1958), Discorso Nel contemplare agli Uomini di Azione Cattolica, del 12 ottobre 1952, le successive due citazioni hanno la stessa fonte.
[34] «Gli umanesimi non sono tutti uguali, né sono equivalenti sotto il profilo morale». (Benedetto XVI, Ai Vescovi della Conferenza Episcopale Slovena in visita ad limina Apostolorum, 24 gennaio 2008.
[35] Cfr., Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, cit., parte III, pp. 177-185.
[36]«[…] la società permissiva toglierebbe di mezzo i superstiti credenti in un’autorità trascendente dei valori. Confinandoli, al limite, in campi di concentramento “morale”, senza persecuzione fisica, è vero, ma chi può seriamente pensare che le pene morali siano meno atroci che le pene fisiche? Al limite del processo c’è un genocidio spirituale; negazione del diritto dell’individuo […] alle sue tradizioni, al pudore (la liberalizzazione totale delle passioni, come principio della società permissiva, coincide infatti con la negazione totale del pudore). Che la guerra di religione vi prenda la forma non più di guerra tra diverse ed opposte fedi religiose, ma di guerra contro la religione in nome di “nessuna religione” non cambia nulla alla sostanza, anzi aggiunge la perversione della menzogna» (A. Del Noce, La società permissiva. Appunti per una critica, in L’Europa, V, 10, 30-6-71, pp. 43-56, ora in Idem, Fascismo e antifascismo. Errori della cultura, Leonardo, Milano 1995, pp. 136-37).

[37] Il suo primo senso «è stato il passaggio dell’attacco anticristiano dalla macrostruttura alla microstruttura, dalla rivoluzione contro il Dio-padrone e lo Stato-padrone alla rivolta contro il Sé-padrone; il grido ni Dieu ni maître è un grido che il ’68 ha rivolto in modo particolare contro la morale. […] pornografia a tutti i livelli, giuridicizzazione dell’adulterio, dell’omosessualità, della bestialità […], legalizzazione dei contraccettivi, introduzione del divorzio, dell’aborto, progetti di legge per l’ammissione dell’eutanasia, etc.. […] il senso ultimo del ’68, il suo senso unitario fu questo e questo solo: una rivoluzione culturale (intendendo per cultura non solo quella intellettuale, ma anche e soprattutto il modo di vivere, il costume» (Luca Monterone [pseudonimo di E. Samek Lodovici], Di rimbalzo sulla stampa, in dov’è finito il ’68?, cit., pp. 11-12).
[38] Thomas Stearns Eliot (1888-1965): «In un’età che avanza all’indietro progressivamente», gli uomini «[…] cercano sempre d’evadere// Dal buio esterno e interiore// Sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono» (Cori da «La Rocca», trad. it. in Idem, Poesie, a cura di Roberto Sanesi, VII, p. 425 e VI, p. 419). Cfr. Spe salvi n. 24.
[39] Non mi riferisco alla mera impudicizia, bensì anche, se non soprattutto, alla liberazione egualitarista dall’abito proprio, ch’è certo convenzionale nella sua determinazione specifica, ma antropologicamente essenziale, naturale. Non è necessario che il proprio status, la propria vocazione, il proprio ruolo sociale, abbia quell’abito, ma che abbia un abito adeguato ad esprimerli e renderli conoscibili a tutti, ivi compresi i fattori gerarchizzanti, il cui rifiuto precipita nel-l’indifferenziato e in un certo senso nella perdita del senso del proprio dovere e della propria responsabilità.
[40] Cfr. Giovan Battista Vico (1668-1744), Principi di scienza nuova, in Opere filosofiche, Sansoni, Firenze 1971, p. 700
[41] «Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi» (Fil., 3, 19). Cfr. anche, sull’inversione morale, quando si passa dalla licenza al diritto, dal diritto all’obbligo (come quello di abortire il secondo figlio, o il figlio malato), Michael Polanyi, Personal Knowledge: Towards a Post-critical Philosophy, Routledge, London 1958, pp. 231-235.
[42] E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, cit., p. 41.
[43] Cfr. E. Voegelin, Anamnesis. Teoria della storia e della politica, Giuffrè, Milano 1972, pp. 179-193.
[44] «Zeus, impietosito, temendo l’estinzione del genere umano, mandò Ermes a portare agli uomini il pudore (aidòs) e la giustizia e gli disse di donarli a tutti gli uomini, perché senza pudore e rispetto e giustizia la città non può sussistere e senza città non si può conservare ed accrescere il genere umano nei vincoli di solidarietà ed amicizia», cfr. Platone (428/427-348/347 a C.), Mito di Epimeteo nel dialogo Protagora.
[45]«Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» J. Ratzinger, Omelia nella Messa pro eligendo Romano pontifice, 18-04-2005).
[46] Cfr. 1 Cor., cap. 2.
[47] George Santayana, Egotism in German Philosophy [L’io nella filosofia germanica, trad. it. L. Zampa, Barabba, 1920], poi The nature of Egotism and of the Moral Conflicts that Disturb the World, New York, 1940, p. IX, cit. in E. Voegelin, Anni di Guerra, Rubbettino, Soveria Mannelli [CZ] 2001, p. 66.
[48] ibid., p. 67.
[49] F. Nietzsche, Entwürfe zu einen Drama: «Empedokles» (1870-1871), cit. in ibidem, p. 70.
[50] «La natura di una cosa non può essere cambiata; chiunque tenta di “alterarla” distrugge la cosa. L’uomo non può trasformarsi in un superuomo; il tentativo di creare un superuomo è un tentativo di assassinare l’uomo. Storicamente, all’assassinio di Dio non tiene dietro il superuomo ma l’assassinio dell’uomo: al deicidio dei teorici gnostici tiene dietro l’omicidio dei professionisti della rivoluzione» (E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, cit., p. 125).
[51] «Per Bloch il […] mondo è tutto segnato dal male […] l’uomo […] si sa moralmente obbligato ad oltrepassare il cattivo mondo della fattualità, per edificarne uno migliore. Seguendo tale logica […] la droga è una forma di protesta contro la situazione di fatto. Colui che l’assume, si rifiuta di rassegnarsi alla pura e semplice realtà di fatto. È alla ricerca di un mondo migliore. […] il nocciolo è pur sempre la protesta contro una realtà sentita come carcere. Il “grande viaggio”, che gli uomini ricercano nella droga, è così la forma pervertita della mistica […]. L’umile e paziente avventura dell’ascesi, che a piccoli passi verso l’alto s’avvicina al Dio che si china verso di noi, viene sostituita dal potere magico […] della droga; l’itinerario morale e religioso dall’applicazione della tecnica. La droga è la pseudomistica di un mondo che non crede, ma che tuttavia non può scuotersi di dosso la tensione dell’anima verso il paradiso» (J. Ratzinger, Svolta per l’Europa?, cit., p. 15).
[52] E. Voegelin, Anni di Guerra, cit., p. 170.
[53] Anche questo è di lunga gittata, con il Sessantotto conquista la scena, non compare. Cfr. Francesco Tanzilli, Per la donna, contro le donne. Margaret Sanger [1879-1966] e la fondazione del movimento per il controllo delle nascite, Studium, Roma 2012.
[54] Cfr. Roberto Volpi, La nostra società ha ancora bisogno della famiglia? Il caso Italia, Vita e Pensiero, Milano 2012, in particolare, pp. 31-55.
[55] Cfr. Cormac McCarthy, La strada, trad. it., Einaudi, Torino 2007.
[56] Hugo von Hoffmannsthal (1874-1929), Das Schrifttum als geistiger Raum der Nation, cit. in Damir Barbarić, Presentazione a H. von Hoffmannsthal, La rivoluzione conservatrice europea, Marsilio, Venezia 2003, p. 22. È curioso come in questa dimensione orgiastica l’uomo creda di trovare la propria realizzazione, quando invece si denuda, si degrada con le peggiori perversioni morali e la pazzia deliberata indotta e favorita dall’assunzione allo scopo delle più svariate droghe. In questo senso, l’esperienza di Fiume (1919-1921) è un’avanguardia, concentrata nel tempo e nello spazio, del Sessantotto; allo stesso modo in cui quella di Münster (1534-1535) è un concentrato della Rivoluzione, un’epitome delle sue fasi, “Sessantotto” compreso. Sull’una e sull’altra, cfr. un mio piccolo studio in appendice.

[57] J. Ratzinger, Svolta per l’Europa?, cit., p. 144 (1991).
[58] R. Pertici, op. cit., p. 243.
[59] «La mente del sapiente si dirige a destra e quella dello stolto a sinistra» (Qo, 10, 2).
[60] R. Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960): lineamenti di una storia, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di Loreto Di Nucci e Ernesto Galli della Loggia, il Mulino, Bologna 2003, pp. 263-334, p. 295
[61] Ibid., p. 289.