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mercoledì 19 luglio 2017

La dottrina della giustificazione di Lutero nel commento alla Lettera ai Romani

Dagli amici di  Cultura e Identità  (nuovo fascicolo 16\2017) una nuova e approfondita analisi sul pensiero di Martin Lutero.
Sul sito  web www.culturaeidentita.org    si possono trovare  le indicazioni per  gli indici delle annate 2009-2012 della versione cartacea e i numeri arretrati della versione online — o inviare una  e-mail a .  info@culturaeidentita.org.
L

Ermanno Pavesi

1. Quando inizia la Riforma?

L’inizio della Riforma protestante viene normalmente identificato con la pubblicazione delle Novantacinque Tesi sulle indulgenze da parte di Martin Lutero (1483-1546), avvenuta nel novembre del 1517, pubblicazione che viene assunta come evento d’inizio della Riforma, di cui quest’anno ricorre il cinquecentesimo anniversario.
Anche se può essere seducente assegnare una data precisa all’inizio della Riforma, questo è discutibile per vari motivi. Nel saggio introduttivo all’edizione italiana delle lezioni Lutero sulla Lettera ai Romani di san Paolo di Tarso, monsignor Franco Buzzi, Prefetto e Dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che ha curato l’opera, ricorda che gli stessi specialisti di Lutero non sono concordi nel datarne l’inizio e propongono date che variano dal 1505 al 1519[1]. Queste divergenze sono comprensibili se si tiene conto che la Riforma protestante, cioè il movimento che porta diverse chiese, specialmente in area germanica, a separarsi dalla Chiesa cattolica, è nata dalla elaborazione da parte di Lutero del suo pensiero teologico originale in un processo durato molti anni di progressivo confronto con la teologia e la dottrina cattoliche, e che la formulazione di tesi antitetiche alla dottrina cattolica, ancorché in tempi e con “velocità” differenti, ha portato allo scontro aperto con la gerarchia. Non stupisce, quindi, che alcuni autori considerino certe opere solo come “pre-riformatrici”, mentre altri le considerino già espressione di un pensiero riformatore. Fissare l’inizio della Riforma al 1517 non è solo arbitrario, ma è soprattutto fuorviante, perché identifica l’elemento centrale della Riforma nella questione delle indulgenze, una questione che per Lutero rappresentava solamente un aspetto particolare e che anche per specialisti protestanti ha un ruolo marginale.
Si deve tener presente che la bolla Exsurge Domine di Papa Leone X (1513-1521) del 15 giugno 1520 elenca quarantuno tesi che Lutero avrebbe dovuto ritrattare entro sessanta giorni, pena la scomunica, e che solo sei di queste tesi, quelle dalla XVII alla XXI riguardano le indulgenze, mentre le restanti trentacinque trattano di altre questioni. Lutero però, non solo non le ha ritrattate, ma, al contrario, ha continuato a difenderle e in alcuni casi le ha formulate in maniera ancora più radicale[2].
In particolare egli ha sostenuto che la questione più importante di tutte riguardava la negazione del libero arbitrio[3], cioè la capacità di compiere opere autenticamente buone e meritevoli davanti a Dio per la salvezza individuale, una tesi, quindi, rilevante per la dottrina della giustificazione. La mancata ritrattazione di Lutero ha avuto come conseguenza la sua scomunica con la bolla Decet Romanum Pontificem del 3 gennaio 1521.
La dottrina della giustificazione ha avuto un ruolo fondamentale alle origini della Riforma e continua ad averlo tuttora, cosi che gli incontri ecumenici a vari livelli fra cattolici e protestanti vertono spesso sulla questione della giustificazione e hanno portato a documenti comuni, come nel caso della Dichiarazione congiunta fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999. In essa si legge: «Premessa 1. La dottrina della giustificazione ha avuto un’importanza fondamentale per la Riforma luterana del XVI secolo. Essa l’ha considerata l’“articolo primo e fondamentale” e, al tempo stesso, la dottrina che “governa e giudica tutti gli altri aspetti della dottrina cristiana”. Essa è stata particolarmente sostenuta e difesa, nella sua accezione riformata e nel suo valore particolare a fronte della teologia e della Chiesa cattolica romana del tempo, le quali sostenevano e difendevano da parte loro una giustificazione dagli accenti diversi. Dal punto di vista riformato, la giustificazione era il fulcro attorno al quale si cristallizzavano tutte le polemiche. Gli scritti confessionali luterani e il Concilio di Trento della Chiesa cattolica emisero condanne dottrinali che sono valide ancora oggi e che hanno un effetto di separazione tra le Chiese.
2. Per la tradizione luterana, la giustificazione ha conservato tale particolare valore. Per questo motivo essa ha assunto fin dall’inizio un posto importante anche nel dialogo ufficiale luterano-cattolico.
 […]
13. Le interpretazioni e applicazioni contraddittorie del messaggio biblico della giustificazione sono state nel XVI secolo una causa primaria della divisione della Chiesa d’Occidente, che si è espressa e ha anche avuto effetti sulle condanne dottrinali»[4].
Lutero ha trattato sistematicamente e diffusamente la questione della giustificazione in una serie di lezioni a commento della Lettera ai Romani iniziate nel semestre estivo del 1515, la redazione finale è ricordata in una lettera del settembre 1516[5]. Il presente articolo analizza quest’opera che presenta un quadro già abbastanza definito del pensiero teologico del Riformatore. 

2.  La questione della giustificazione nella crisi spirituale di Lutero

Nelle sue opere Lutero fornisce alcune indicazioni sul suo travaglio spirituale e come abbia trovato la tranquillità per mezzo di un’interpretazione personale delle lettere di san Paolo e della Sacra Scrittura. A volte ne parla in prima persona, altre volte, invece, descrive in forma generale le crisi spirituali, in particolare l’ansia, l’angoscia e la depressione provocate in lui dalle concezioni della giustificazione basate sulla teologia scolastica, a sua volta basta sulle opere di Aristotele (384/383-322/321 a.C.). In un passaggio ricorda come si era tormentato a lungo meditando giorno e notte sulla giustizia divina e quindi su come comportarsi per non dover temere la dannazione. Nel suo zelo iniziale aveva cercato di impegnarsi sempre più intensamente nelle pratiche religiose, le opere, ma questo non lo aveva rassicurato, anzi lo aveva portato alla disperazione. Solo la convinzione che la giustizia di Dio non deve esser ottenuta attivamente, con le opere, ma può essere solo ricevuta passivamente come un dono di Dio, lo ha liberato dal tormento della punizione eterna con l’impressione che gli si «spalancassero le porte del paradiso». Egli scrive: «Finalmente Dio ebbe compassione di me. Mentre meditavo giorno e notte ed esaminavo la connessione di queste parole: “La giustizia di Dio è rivelata nel Vangelo come è scritto: Il giusto vivrà per fede’, incominciai a comprendere che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, e per mezzo della quale il giusto vive, se ha fede. Il senso della frase è dunque questo: il Vangelo ci rivela la giustizia di Dio, ma la giustizia passiva, per mezzo della quale Dio nella sua misericordia, ci giustifica mediante la fede, come è scritto: “il giusto vivrà per mezzo della fede”». «Subito — continua — mi sentii rinascere, e mi parve che si spalancassero per me le porte del paradiso. Da allora la Scrittura intera prese per me un significato nuovo […]. Così quel passo di S. Paolo divenne per me la porta del Paradiso»[6].
La presunzione di potersi salvare solo con le proprie forze è attribuita all’influenza del diavolo che «[…] grava altri di stolida fatica, affinché si sforzino d’essere puri e santi, assolutamente privi d’ogni peccato. E finché essi avvertono di peccare e sentono che qualcosa di male s’insinua di nascosto in loro, li atterrisce col giudizio e tormenta la loro coscienza, fino a condurli alla soglia della disperazione, [e facendo presa sul loro] fervore per la giustizia, non può convincerli facilmente a fare il contrario. Perciò comincia con l’aiutarli nel loro proposito, in modo che con impegno eccessivo s’affrettino a liberarsi da ogni concupiscenza. Tosto che non ci riescono, li rende tristi, abbattuti, pusillanimi, disperati e agitatissimi nella loro coscienza» (p. 356).
La sua nuova interpretazione lo ha portato a prendere le distanze dal concetto di giustizia che aveva provocato i suoi tormenti e i suoi scrupoli di coscienza, arrivando addirittura a provarne disgusto: «Poi (per parlare di me) il sentire il vocabolo “giustizia” provoca in me tanta nausea, che non proverei tanto dolore, se qualcuno mi derubasse. Tuttavia è un’espressione che i giuristi hanno sempre in bocca. In questa materia non c’è al mondo gente più ignorante dei giuristi e degli uomini ‘benintenzionati’ e ‘dalla ragione sublime’. Poiché anch’io ho sperimentato in me ed in molti che proprio là dove noi eravamo giusti, Dio se ne rideva di noi nella nostra giustizia» (p. 642).
Ciò che Lutero trova inammissibile è l’applicazione del concetto di giustizia commutativa al rapporto fra l’uomo e Dio, soprattutto riguardo alla giustificazione, cioè alla salvezza.
«Dio infatti non ci vuole salvare mediante la nostra propria giustizia e sapienza , ma per mezzo d’una giustizia e d’una sapienza che provengono dall’esterno; non mediante una giustizia che derivi e nasca da noi, ma per mezzo di quella che viene a noi provenendo da un altro luogo; non mediante quella che germina dalla nostra terra, ma mediante la giustizia che viene dal cielo. Perciò bisogna essere istruiti in una giustizia che proviene totalmente dal di fuori e ci è estranea. A questo scopo, in primo luogo, bisogna che sia estirpata la nostra propria giustizia» (p. 186).

3. Le due giustizie

Lutero distingue nettamente due tipi di giustizia e di sapienza, quelle terrene da quelle celesti, che non hanno niente in comune. Da una parte c’è una giustizia umana e terrena, dall’altra una giustizia che viene dal cielo, che ci è estranea, che viene totalmente dal di fuori e, per riuscire a comprendere quest’ultima, diventa necessario liberarsi della propria concezione di giustizia. Lo stesso vale per il concetto di sapienza.
Il monaco critica in particolate la concezione di giustizia di Aristotele. Il filosofo greco definisce la giustizia come «[…] quella disposizione di animo, per la quale gli uomini sono inclini a compiere cose giuste e per la quale operano giustamente e vogliono le cose giuste»[7]. La giustizia riguarda diversi ambiti del comportamento umano e quindi anche la pratica di differenti virtù, di converso nelle «[…] azioni ingiuste v’è sempre il riferimento a qualche vizio»[8]. Il concetto di giustizia è sempre collegato a un comportamento attivo, in particolare a un comportamento virtuoso «[…] e per questo spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù»[9], soprattutto nei confronti degli altri, «[…] e il migliore non è chi fa uso della virtù riguardo a se stesso, bensì riguardo ad altri: e questo è opera difficile»[10].
Aristotele distingue una giustizia generale dalle forme particolari di giustizia, una delle quali è la giustizia commutativa, ben espressa nel concetto di “suum cuique tribuere”, dare a ciascuno quello che gli spetta di diritto. Nella giustizia commutativa è importante il concetto di equità che deve esistere tanto tra le persone contraenti, quanto per le cose: «[…] e quali sono i rapporti tra le cose, tali dovranno essere anche quelli tra le persone: se infatti esse non sono eque non avranno neppure rapporti equi, bensì di qui sorgeranno battaglie e contestazioni, qualora persone eque abbiano e ottengano rapporti non equi oppure persone non eque abbiano e ottengano rapporti equi. Ciò è ancora evidente dal punto di vista del merito: tutti infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba esser il giusto secondo il merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito»[11].
Lutero è critico anche nei confronti dell’utilizzo della giustizia commutativa nella società civile: partendo dal presupposto che tutti sono peccatori, tutti commettono ingiustizie e a tutti può essere imputata qualche ingiustizia, ciascuno prima di pretendere giustizia per sé, cioè che gli venga attribuito ciò che gli spetta, il suum, dovrebbe riflettere sulle ingiustizie delle quali lui stesso è responsabile: «Benché colui che arreca un torto lo faccia ingiustamente, ciò non vale per colui che lo subisce: egli patisce giustamente. Infatti, con quale diritto il diavolo possiede gli uomini? E con quale diritto il carnefice malvagio impicca il ladro? Certo non per un suo diritto, ma per quello stabilito dal giudice. Così gli uomini che presumono nella loro giustizia non vogliono badare al giudice supremo, ma badano soltanto al loro giudizio. Siccome, in rapporto a chi si comporta ingiustamente, risultano innocenti, pretendono d’essere innocenti in tutto e per tutto. Dunque, poiché nessuno è giusto davanti a Dio, proprio a nessuno può essere fatta ingiustizia da qualche creatura, anche se si può far valere un proprio diritto contro di essa. Perciò a tutti gli uomini è stato tolto ogni motivo di contesa. Perciò ognuno a cui sia fatto un torto e a cui capiti un male, mentre fa del bene, distolga lo sguardo da questo male e consideri quanto grande sia il suo male sotto altri rispetti. Allora, nel male che gli capita, vedrà quant’è buona la volontà di Dio. Questo infatti significa rinnovare la mente, cambiare il proprio modo di pensare ed essere saggio nelle cose di Dio» (p. 643 )[12] .
Nel rapporto fra uomo e Dio non sarebbe assolutamente possibile applicare il suum cuique tribuere: da una parte, si deve tenere conto dell’asimmetria della relazione, cioè che ogni uomo è prima di tutto debitore di Dio e quindi non potrebbe accampare pretese per le proprie opere e dall’altra della concezione del merito, poiché dopo il peccato originale la natura umana sarebbe intrinsecamente malvagia e incline al male.
«Il peccato originale non è soltanto la privazione di una qualità della volontà, anzi non consiste neppure nella privazione di luce nell’intelletto, di forza nella memoria; no, esso, in senso vero e proprio, è la privazione totale del corretto funzionamento e della capacità di esercizio di tutte le facoltà, tanto del corpo quanto dell’anima, insomma dell’uomo intero, interiore ed esteriore. Inoltre esso è la stessa inclinazione al male, la nausea nei confronti del bene, la ripugnanza della luce e della sapienza; e viceversa: è amore dell’errore e delle tenebre, fuga e orrore di fronte alle opere buone e corsa verso il male» (p. 429).
Secondo Lutero il peccato originale ha compromesso negli uomini le facoltà naturali, l’uomo sarebbe dominato dalla concupiscenza e incapace di compiere delle opere veramente buone tali da essere gradite a Dio e da costituire un merito nella prospettiva della salvezza[13].
«La natura — scrive — […] è propensa al male ed è incapace di fare il bene; anzi piuttosto che amare la legge che obbliga ad agire bene e proibisce il male, l’ha in abominio; perciò, di per se stessa, non prova nessuna buona disposizione verso la legge, ma solo disgusto. Così essa rimane sempre schiava di una passione cattiva, che la porta ad agire contro la legge. A meno che non le giunga aiuto dall’alto, è sempre colma di cattivi desideri, benché costretta dalla paura della pena o adescata dal vivo desiderio di piaceri temporali, compia esteriormente delle opere» (p. 263).
Dopo il peccato originale l’uomo sarebbe dominato dalla concupiscenza e dall’amore di se stesso, e viene descritto come ripiegato su se stesso, curvatus, ciò che gli impedirebbe di amare autenticamente Dio e il prossimo e di usufruire legittimamente delle cose:
«La nostra natura, per il vizio del primo peccato, è ricurva in modo così profondo su di sé, che non solo piega verso di sé gli ottimi doni di Dio e ne gode — anzi si serve anche di Dio, per ottenere questi beni —, ma non si rende neanche conto di cercare ogni cosa, Dio compreso, per se stessa, in modo così iniquo, storto» (p. 415).
Per la sua curvatura su se stesso, l’uomo non sarebbe capace di superare il proprio egoismo e di praticare la carità, ciò che vizierebbe l’intenzione con la quale vengono compiute le opere, anche quelle che possono apparire buone.
«Poiché, anche se esteriormente fanno il bene, tuttavia non agiscono col cuore, e perciò non cercano Dio, ma piuttosto la gloria, il [proprio] guadagno o — se non altro — di schivare la pena. E perciò non fanno il bene ma piuttosto (se fosse lecito dirlo) lo subiscono, cioè sono costretti dal timore o dall’amore a fare quel bene che di loro libera iniziativa non farebbero. Coloro, invece, che cercano Dio fanno il bene in modo disinteressato e gioioso, solo per Dio, non per avere un certo possesso su qualche creatura, spirituale o corporale che sia. Ciò, tuttavia, non è opera della natura, ma della grazia di Dio» (p. 316).

4. Il ruolo della concupiscenza

Lutero richiama spesso il “non desiderare” dei Comandamenti e ne trae una semplice conseguenza: dal momento che nessuno non può non desiderare, non è assolutamente possibile ottemperare alla legge, ma si è sempre sotto il peccato: «Quando perciò la legge dice: “Non desiderare”, la concupiscenza è proibita in modo tanto radicale, che tutto ciò che si desidera al di fuori di Dio, anche ammesso che lo si desideri per Dio, è peccato» (p. 485).
Ai tempi di Lutero la psicologia riconosceva nell’uomo due passioni fondamentali: la concupisci-bile e l’irascibile. La concupiscibile fa desiderare e aspirare al bene, l’irascibile invece combatte gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento del bene. Lutero utilizza qualche volta questa distinzione per descrivere la perversione di entrambe le passioni come amore disordinato e ira ingiustificata, che possono presentarsi anche come vizi: «Questi due vizi li chiamiamo pertanto così: leggerezza e durezza. […] Sono infatti questi i peccati fondamentali dai quali provengono tutti i vizi dei prelati. E non c’è da meravigliarsi. Infatti la leggerezza ha le sue radici nella facoltà concupiscibile. Mentre la durezza si radica in quella irascibile» (p. 189).
Per Lutero, però, il problema è soprattutto la concupiscenza, l’amore per se stessi, che comprometterebbe ogni pensiero, desiderio o atto umano e sarebbe di per sé un peccato. L’uomo sarebbe incapace di compiere opere veramente buone, ma “compie male opere buone”, cioè anche quando compie opere che dal punto di vista umano sono buone, le farebbe solo o per timore di una punizione o per un proprio vantaggio personale, ma non con la corretta intenzione, cioè per amore di Dio o del prossimo. «L’uomo, infatti, non può cercare se non ciò che è suo e non può amare se non se stesso sopra tutte le cose. Questa è l’anima di tutti i suoi vizi. Perciò tali persone cercano se stesse anche nelle opere buone e nelle virtù, cercano cioè di piacere a se stesse e d’applaudirsi da sé» (p. 309). L’uomo sarebbe sempre sotto il peccato, non solo tutti i suoi sforzi per evitare peccati attuali, ma anche quelli per compiere opere buone per acquisire meriti davanti a Dio, sarebbero inutili a causa della concupiscenza, poiché «Questo peccato interno non può essere tolto in questa vita» (p. 381). Nonostante tutte le buone intenzioni, «[…] ora Dio ci ha rivelato che cosa pensa di noi e come ci giudica: tutti sono peccatori» (p. 297). L’uomo rimane quindi peccatore e senza meriti davanti a Dio: «[…] se Dio dovesse giudicare, non troverebbe in noi nulla di giusto e di puro. Il giudizio di Dio è invero d’una sottigliezza infinita. E non c’è nulla che sia fatto in modo tanto accurato, che non sia trovato trasandato davanti a lui; non c’è nulla di tanto giusto che non sia ingiusto davanti a lui; nulla di tanto verace che non sia menzognero, nulla di tanto puro che non sia impuro e profano» (p. 325). Solo la misericordia di Dio può non imputare i peccati e la concupiscenza che caratterizza tutte le opere umane, ma questo dipende solo da lui: «Esse infatti non sarebbero buone in sé, a meno che Dio non le reputi tali: e sono o non sono buone nella stessa misura in cui egli le considera o non le consideri tali. Perciò il nostro considerare o non considerare non conta nulla. […] Perciò è sbagliata la definizione che Aristotele dà della virtù. Secondo tale definizione, è la virtù a renderci perfetti e a rendere degna di lode l’opera dell’uomo: A meno che egli non intenda che la virtù ci perfeziona ed esalta le nostre opere nella considerazione degli uomini ed ai nostri occhi. Ma ciò è abominevole agli occhi di Dio: gli piace di più il contrario!» (p. 558).
Per la teologia cattolica il peccato originale ha certamente rotto l’armonia originaria interiore e ha indebolito le facoltà naturali, la ragione e la volontà, quindi la capacità di riconoscere e di perseguire il vero bene. In particolare si è infranta la padronanza delle facoltà spirituali dell’anima sul corpo[14]. Prima del peccato originale «L’uomo era integro e ordinato in tutto il suo essere, perché libero dalla triplice concupiscenza che lo rende schiavo dei piaceri dei sensi, della cupidigia dei beni terreni e dell’affermazione di sé contro gli imperativi della ragione»[15]. Mentre per Lutero il peccato originale ha avuto come conseguenza «la privazione totale del corretto funzionamento e della capacità di esercizio di tutte le facoltà, tanto del corpo quanto dell’anima» (p. 429), compromettendo la capacità delle facoltà intellettuali di riconoscere il bene e della volontà di perseguire il bene, per la teologia cattolica c’è stato un indebolimento di queste facoltà naturali, ma non la loro compromissione totale. «Il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale»[16]. L’uomo è capace, anche se in modo imperfetto, di riconoscere la legge di Dio scritta nel suo cuore: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato»[17]. A causa della natura corrotta le passioni «[...] che lo provocano al combattimento spirituale», alle quali l’uomo può resistere e delle quali non è sempre e necessariamente responsabile: commette un peccato solo chi cede alla tentazione. Lutero si distacca dalla dottrina cattolica sugli effetti del battesimo e ritiene che anche dopo il battesimo la concupiscenza non è solo una inclinazione al male, ma è già di per sé un peccato: «Dio, invero, ha in odio ed imputa […] la stessa concupiscenza in tutte le sue forme, quella concupiscenza per cui accade che siamo disobbedienti a questo comando: “Non desiderare”! […] È dunque questa l’Idra dalle molte teste, il mostro molto tenace, con cui combattiamo nella palude di Lerna, cioè in questa vita, fino alla morte» (p. 430).

5. La dottrina cattolica sulla giustizia

La concezione della giustizia come suum cuique formulata da autori come Platone (427-347 a.C.), Aristotele e Cicerone (106-43 a.C.), è stata ripresa da autori cristiani: secondo sant’Agostino (354-430), per esempio, «[…] la giustizia è virtù cha dà ad ognuno il suo»[18]. La pratica della virtù della giustizia diventa un habitus della persona, che in questo modo può migliorarsi e contribuire al proprio perfezionamento, come ricorda san Tommaso (1225/1226-1274): «Giustizia è quel contegno (habitus) in virtù del quale un uomo di ferma e costante volontà attribuisce a ciascuno il suo proprio diritto»[19]. Questo presuppone che la ragione permetta di arrivare a una certa conoscenza della natura dell’uomo e del suo fine, una conoscenza che può essere ulteriormente illuminata dalla Rivelazione, senza un conflitto fra fede e ragione. In altri termini, conoscenze della filosofia riguardo alla natura e al fine dell’uomo, così come ai mezzi per raggiungerlo, possono essere riprese e integrate dalla teologia. Lutero ha criticato i teologi scolastici, perché hanno utilizzato conoscenze e metodi della filosofia, in particolare di quella aristotelica, per descrivere la natura umana e perché sarebbe anche illusoria la pretesa di definire ciò che è bene per l’uomo: «[…] essi, in modo assai pericoloso, discutono del “bene” dedotto dalla filosofia, mentre Dio l’ha mutato in male» (p. 556). La sapienza terrena sarebbe utile nelle attività pratiche, come la costruzione di edifici e l’agricoltura, ma non le sarebbe possibile formulare una conoscenza dell’uomo partendo da dati sensibili, in quanto «[…] è la natura stessa, ferita e corrotta in ogni sua parte, al punto che, senza la grazia, non solo è incurabile, ma anche totalmente inconoscibile» (p. 506). Solo la “sapienza di Dio” sarebbe valida, ma essa «[...] è nascosta e ignota al mondo» (p. 310).
Per la teologia cattolica e per san Tommaso era chiaro che nei rapporti fra Dio e l’uomo non era possibile applicare i principi della giustizia commutativa: «[…] la giustizia commutativa, mediante la quale si costituisce l’uguaglianza fra Dio e che dà e la creatura che riceve, non può competere a Dio secondo l’accezione propria, poiché i benefici di Dio eccedono sempre i meriti della creatura»[20]. L’uomo non può quindi pretendere una ricompensa da parte di Dio corrispondente ai suoi meriti: «Qualsiasi cosa possa venire offerta a Dio da parte dell’uomo: essa è dovuta; ed è pertanto impossibile una restituzione nella misura dell’equivalente, tale che l’uomo dia tanto quanto deve»[21].
L’uomo deve perciò avere fede e sperare nella misericordia di Dio, ma in tutti i suoi limiti «[…] con la sua libera volontà, potrà prepararsi alla giustizia davanti a Dio»[22].




[1] Cfr. Franco Buzzi, Saggio introduttivo a La teologia di Lutero nelle “Lezioni sulla Lettera ai Romani”, in Martin Lutero, La Lettera ai Romani (1515-1516), ed. it. a cura di Idem, 2a ed., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996, pp. 5-180 (p. 5).
[2] Cfr. Assertio omnium articulorum Martini Lutheri per bullam Leonis X. Novissimam damnatorum, in WA [Dr. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, 112, voll., Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1897], vol. VII, pp. 94-151. Le traduzioni dalla WA sono dell’Autore.
[3] Ibid., p. 148.
[4] Dichiarazione congiunta fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione, del 31-10-1999, alla pagina , consultata il 9-5-2017.
[5] Il testo latino è pubblicato nel volume LVI della WA, ed. 1938, pp. 155-528. La maggioranza delle citazioni in questo articolo si riferiscono all’edizione italiana dell’opera di Lutero: La Lettera ai Romani (1515-1516), a cura di Franco Buzzi, 2a ed., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996, e verranno indicate nel testo solo con il numero della pagina.
[6] Roberto Coggi O.P., Ripensando Lutero, PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004, p. 68.
[7] Aristotele, Etica nicomachea, 1129, a 9-11, trad.it., in Idem, Opere volume settimo, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 105.
[8] Ibid., 1130 a 29-30, p. 109.
[9] Ibid., 1129 b 27-28, p. 107.
[10] Ibid., 1130, a 7-8, p. 108.
[11] Aristotele, op., cit., 1131, a 22-28, p. 114.
[12] Lutero è spesso radicale nelle sue valutazioni: quelli che hanno commesso un’ingiustizia non possono pretendere giustizia neanche quando sono innocenti. Questo principio, cioè che chi è vittima di un’ingiustizia deve sopportarla come una punizione che rientra nel piano di Dio, viene applicato in diversi contesti. Per esempio, Lutero non ritiene legittimo combattere i turchi: si tratta di una delle tesi condannate dalla bolla Exsurge Domine, esattamente la XXXIV, «Combattere contro i Turchi è opporsi a Dio, che visita le nostre iniquità per loro mezzo» (cit. in R. Coggi O.P., op. cit. p. 103).

[13] Dopo aver sostenuto che l’uomo «[...] è sempre proclive al male, al punto di non poter essere sollevato ed orientato al bene, se non per grazia di Dio», Lutero deve ammettere: «È tuttavia vero lo concedo che si possa fare e volere qualcosa di buono con quella disposizione danimo, non tutto però! Infatti, non siamo inclini al male fino al punto che non resti in noi nessuna parte propensa al bene, comè appunto manifesto nella sinderesi» (p. 309; cfr. anche p. 369).
[14] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 400.
[15] Ibid., n. 377.
[16] Ibid., n. 405.
[17] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale “Gaudium et spes” sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del 7 dicembre 1965, n. 16.
[18] Sant’Agostino, La città di Dio, trad. it., a cura di C. Borgogno, F.S.P., terza edizione, Edizione Paoline, Roma 1963, p. 1.069.
[19] San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II, II, 58, 1, cit. in Josef Pieper, Sulla giustizia, trad. it., Morcelliana, Brescia 1962, p. 11. Questa formula è ripresa anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto» (n. 1.807).
[20] Idem, Commento alle sentenze di Pietro Lombardo. Volume 10-Liber IV. Distinctiones 43-50. L’escatologia individuale e generale, trad. it., ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2002, 4 Dist. 46, q. 1, a. 1, p. 383.
[21] Idem, Summa theologiae, cit., II, II, 80, 1, cit. in J. Pieper, op. cit., p. 106.
[22] Enchiridion symbolorum, a cura di Heinrich Joseph Dominicus Denzinger (1819-1883) e Adolph Schönmetzer, S.J. (1910-1997), n. 1.525, cit. in Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2.068.

2 commenti:

  1. Interessante disquisizione filosofico-teologica che però ha valore solo in sede accademica. Se ci impelaga in un dibattito scolastico si trovano quelli che, cavillosamente stiracchiando, concludono che Lutero non è così lontano dal cattolicesimo e altri ( a ragione)che lo è. Basta e avanza la, fuori discussione, palese deviazione dottrinale da una fede millenaria e l'odio aggressivo di tipo nazista che il protestantesimo ha condotto contro la Chiesa. Lutero e le sette cha ha generato sono opposte alla dottrina cristiana e cattolica anche sul piano sociale ed è strano, e sospetto, che colui che batte la grancassa del pauperismo, abbia in simpatia l'individualismo capitalista figlio ed erede del protestantesimo.

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