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Elenchi dei Vescovi (e non solo) pro e contro Fiducia Supplicans #fiduciasupplicans #fernández

Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

venerdì 29 novembre 2013

S. Messa antica anche a Palermo

Si comunica alla redazione di messainlatino.it che lo scorso 24 novembre si è costituito a Palemo il Coetus Fidelium “Cardinal Ernesto Ruffini”, gruppo di fedeli laici che, nello spirito del Motu Proprio Summorum Pontificum, chiede la celebrazione della Santa Messa nella forma extraordinaria del Messale Romano.
Il “Coetus Fidelium” è formato da 50 membri che costituiscono il gruppo stabile che parteciperà alla Liturgia celebrata nella Parrocchia di San Basilio tutte le domeniche a partire dal 1° dicembre alle ore 17:30.
Nella stessa parrocchia la Messa secondo la forma extraordinaria è celebrata altresì tutti i sabato mattina alle ore 10:00.

Lettera di gratitudine dei fedeli al loro parroco don Alfredo Morselli

 Pubblichiamo questa toccante lettera, dedicata al caro Rev.do don Alfredo Maria Morselli, parroco di Stiatico e Casadio (Bo) che Mercoledi 27 Novembre, Festa della Medaglia Miracolosa, nonostante le sue veramente precarie condizioni di salute, ha celebrato la S.Messa cantata.
Procede claudicante ed appoggiandosi al bastone il nostro Parroco della Bassa. Eppure, mentre il coro intona l’introito con la voce delle schiere degli angeli (grazie sr. Lucilla e sr. Katharina!), quel claudicare è solenne, dignitoso e militarmente pieno d’onore. E’ il peso delle ferite, ma anche delle medaglie conquistate sul campo della buona battaglia.
E’ l’incedere del combattente con il corpo ferito nelle mille e mille battaglie della guerra giusta che ha combattuto per tutta la sua vita e che continuerà fino a che il Signore gli darà un briciolo di forza. E’ il claudicare di chi non si è arreso ed è stato colpito ripetutamente e gravemente dal Nemico, che però non è riuscito ad abbatterlo e nemmeno a fargli paura, il claudicare di un comandante che combatte in testa alla sua schiera per la Sua Patria, quella Celeste, il Re della quale gli ha ordinato di non cedere il passo, di contrattaccare, di agere contra, per riconquistare il confine occidentale della nostra civilità: la bellezza della Sacra Liturgia Antica.
E nonostante le ferite del corpo, che sono tante – ma guariranno – e quelle dello spirito – i tradimenti dei falsi amici, le insidie del Nemico, lo spirito dei tempi nostri, le vicissitudini personali e famigliari, le amarezze pastorali – ed anzi grazie a quelle ferite, unite alla Piaghe del Comandante Supremo gloriosamente appeso alla Croce, il nostro ufficiale di un’esercito armato fino ai denti di quell’arma terribile a ripetizione che è il Santo Rosario della Vergine Maria, portandone con dignità le insegne – a dispetto di quella parte preponderante dell’esercito che le ha buttate alle ortiche per paura e diserzione – procede verso il monte sacro della battaglia e dichiara guerra al nemico: Introibo ad altare Dei!
E succede così che in una freddissima sera padana una schiera di soldati fedeli del Re riempia con ordine e dignità ed in silenzio partecipe il campo di battaglia, la Chiesa Parrocchiale di S. Venanzio Martire di Stiatico, nella pianura Bolognese che già degrada verso il basso delle fluviali valli Ferraresi. Ognuno è al suo posto, la Chiesa trabocca. E’ sera e ci sono 5 gradi sottozero: non importa; ci si prepara alla battaglia con fiducia seguendo il comandante di mille battaglie. Judica me Deus et discerne causam meam de gente non sancta ... mentre l’artiglieria celeste continua il fuoco di copertura cantando l’introito.
Arringa le sue truppe seduto, il comandante. L’omelia è un dotto richiamo alla battaglia  sotto l’insegna della gloria del Re: la Croce grondante del Sangue del Salvatore; si ricorda oggi la Patrona di tutti i combattenti di questa battaglia di civiltà e d’amore: Maria SS., l’Immacolata, e la sua fedele attendente, S. Caterina Labourè, che riceve l’ordine di forgiare un’altra arma nuova e preziosa, che condurrà alla vittoria folle di combattenti della buona battaglia: la Medaglia Miracolosa.
Quando la battaglia entra nel vivo e il comandante agisce nella Persona del Re (Cristo Re), è costretto a farlo da una sedia di dolore, anzichè ritto e prostrato come prima delle tante ferite. I suoi aiutanti di campo sono sconcertati, ma lui procede con le insegne gloriose e sferra al Nemico il colpo mortale: HOC EST ENIM CORPUS MEUM ... e , pur seduto e dolorante par di vederlo là, sul Monte del Golgota, mentre comanda al fedelissimo Michele di finire l’odiato avversario con la spada trionfante della Verità.
Caro Don Alfredo, la salute tornerà, tempora bona veniant! Ma ieri sera, alla Santa Messa in rito Tradizionale in occasione della Festa della Medaglia Miracolosa hai dimostrato come la solennità non sia questione di pizzi e merletti, scarpe con la fibbia e armamentari vari della stupidità che solitamente vengono attribuiti a noi amanti del rito antico: la solennità è questione di cuore, e si può esser solenni anche quando la salute ti costringe a recitare il Canone seduto su una sedia di dolore.
Per questo impegno, per questa costanza, per non aver mai mollato, per la tua sofferenza unita a quella di Cristo, per le tue parole, grazie di cuore, vecchio amico e vero sacerdote di Cristo! Grazie per il tuo saluto finale, gridato senza paura, al quale con entusiasmo ci uniamo tutti: Viva Cristo Re!
Latro Poenitens
La delegzione ferrarese del Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum porge all’amico e maestro Don Alfredo Maria Morselli i suoi più affettuosi ringraziamenti a nome di tutti gli amanti della Messa di Sempre.

Papa Francesco: "la fede non è un fatto privato, adorare Dio fino alla fine, nonostante apostasia e persecuzioni"

di Alessandro De Carolis
da  Radio Vaticana

Ci sono “poteri mondani” che vorrebbero che la religione fosse “una cosa privata”. 
Ma Dio, che ha vinto il mondo, si adora fino alla fine “con fiducia e fedeltà”. 
È il pensiero che Papa Francesco ha offerto durante l’omelia della Messa celebrata giovedì mattina (28 novembre 2013 ) in Casa S. Marta.  (si veda qui Vatican Insider)
I cristiani che oggi sono perseguitati – ha detto – sono il segno della prova che prelude alla vittoria finale di Gesù.  
Nella lotta finale tra Dio e il Male, che la liturgia di fine anno propone in questi giorni, c’è una grande insidia, che Papa Francesco chiama “la tentazione universale”. 
La tentazione di cedere alle lusinghe di chi vorrebbe averla vinta su Dio, avendo la meglio su chi crede in Lui. Ma proprio chi crede ha un riferimento limpido cui guardare. 
È la storia di Gesù, con le prove patite nel deserto e poi le “tante” sopportate nella sua vita pubblica, condite da “insulti” e “calunnie”, fino all’affronto estremo, la Croce, dove però il principe del mondo perde la sua battaglia davanti alla Risurrezione del Principe della pace. Papa Francesco indica questi passaggi della vita di Cristo perché – sostiene – nello sconvolgimento finale del mondo, descritto nel Vangelo, la posta in gioco è più alta del dramma rappresentato dalle calamità naturali: “Quando Gesù parla di questa calamità in un altro brano ci dice che sarà una profanazione del tempio, una profanazione della fede, del popolo: sarà la abominazione, sarà la desolazione della abominazione. 
Cosa significa quello? Sarà come il trionfo del principe di questo mondo: la sconfitta di Dio. 
Lui sembra che in quel momento finale di calamità, sembra che si impadronirà di questo mondo, sarà il padrone del mondo”. 
Ecco il cuore della “prova finale”: la profanazione della fede. Che tra l’altro è ben evidente – osserva Papa Francesco – da ciò che patisce il profeta Daniele, nel racconto della prima lettura: gettato nella fossa dei leoni per aver adorato Dio invece che il re. 
Dunque, “la desolazione della abominazione” – ribadisce il Papa – ha un nome preciso, “il divieto di adorazione”: “Non si può parlare di religione, è una cosa privata, no? Di questo pubblicamente non si parla. I segni religiosi sono tolti. 
Si deve obbedire agli ordini che vengono dai poteri mondani. Si possono fare tante cose, cose belle, ma non adorare Dio. 
Divieto di adorazione. Questo è il centro di questa fine. 
E quando arrivi alla pienezza – al ‘kairos’ di questo atteggiamento pagano, quando si compie questo tempo – allora sì, verrà Lui: ‘E vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria’. I cristiani che soffrono tempi di persecuzione, tempi di divieto di adorazione sono una profezia di quello che ci accadrà a tutti”. 
Eppure, conclude Papa Francesco, nel momento in cui i “tempi dei pagani sono stati compiuti” è quello il momento di alzare il capo, perché è “vicina” la “vittoria di Gesù Cristo”: “Non abbiamo paura, soltanto Lui ci chiede fedeltà e pazienza. 
Fedeltà come Daniele, che è stato fedele al suo Dio e ha adorato Dio fino alla fine. E pazienza, perché i capelli della nostra testa non cadranno. Così ha promesso il Signore. Questa settimana ci farà bene pensare a questa apostasia generale, che si chiama divieto di adorazione e domandarci: ‘Io adoro il Signore? Io adoro Gesù Cristo, il Signore? 
O un po’ metà e metà, faccio il gioco del principe di questo mondo?’. 
Adorare fino alla fine, con fiducia e fedeltà: questa è la grazia che dobbiamo chiedere questa settimana”. 

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Riflettendo sulle parole del Santo Padre postiamo un recentissimo triste aggiornamento sulla situazione (totalmente snobbata ed ignorata dai mass media) dei Cristiani in Siria ringraziando il Centro Studi Federici che è l'unico ad aggiornarci quotidianamente (purtroppo) sulla continua persecuzione dei nostri eroici fratelli nella fede.
A.C.

Siria: l’olocausto cristiano

 “Finita la tragedia dopo aver svuotato gli arsenali e dato lavoro alle proprie industrie, si presenteranno per ricostruire la Nazione. 
Con la fattura da pagare: se il denaro non sarà disponibile, sistemeranno i conti portando via quello che troveranno, petrolio o gas che sia. Se non ci sarà nessuna risorsa, il popolo lavorerà come schiavo” (Mons. Nazzaro, Vescovo di Aleppo) Il massacro dei cristiani siriani L’Arcivescovo siro-ortodosso Alnemeh: 

“A Sadad il più grande massacro di cristiani in Siria”
 

 Sadad – “Quello avvenuto a Sadad è il più grave e ampio massacro di cristiani avvenuto in Siria da due anni e mezzo”: è perentorio l’Arcivescovo Selwanos Boutros Alnemeh, Metropolita siro-ortodosso di Homs e Hama, nell’illustrare a Fides il tragico bilancio di vittime nella cittadina cristiana di Sadad, invasa dalle milizie islamiste una settimana fa e poi riconquistata dall’esercito siriano. 
“I civili innocenti, martirizzati senza alcun motivo, sono 45, e fra loro diverse donne e bambini, molti buttati in fosse comuni. Altri civili sono stati minacciati e terrorizzati. 
I feriti sono 30 e le persone scomparse sono tuttora 10. 
Per una settimana, 1.500 famiglie sono state tenute come ostaggi e scudi umani. Fra loro bambini, vecchi, giovani, uomini e donne. 
Alcuni di loro sono fuggiti a piedi percorrendo 8 km da Sadad ad Al-Hafer per trovare rifugio. 
Circa 2.500 famiglie sono fuggite da Sadad, portando con sé solo i vestiti che avevano indosso, a causa dell’irruzione dei gruppi armati e oggi sono profughi sparsi tra Damasco, Homs, Fayrouza, Zaydal, Maskane, e Al-Fhayle”. L’arcivescovo prosegue manifestando tutta la sua amarezza: “In città mancano del tutto elettricità, acqua e telefono. 
Tutte le case di Sadad sono state derubate, e le proprietà saccheggiate. 
Le chiese sono danneggiate e dissacrate, private di libri antichi e arredi preziosi, imbrattate di scritte contro il cristianesimo. 
Le scuole, gli edifici governativi, gli edifici comunali sono distrutti, insieme con l'ufficio postale, l'ospedale e la clinica. 
Ai bambini di Sadad è stato rubato il futuro. 
Molte case non potranno nemmeno essere ricostruite”. 
“Quanto accaduto a Sadad – afferma – è il più grande massacro dei cristiani in Siria e il secondo in tutto il Medio Oriente, dopo quello nella Chiesa di Nostra Signora della Salvezza in Iraq, nel 2010”. 
L’Arcivescovo Selwanos Boutros Alnemeh conclude: 
“Abbiamo gridato soccorso al mondo ma nessuno ci ha ascoltati. 
Dov'è la coscienza cristiana? 
Dov'è la coscienza umana ? 
Dove sono i miei fratelli? 
Penso a tutte le persone sofferenti, oggi nel lutto e nel disagio: ho un nodo alla gola e mi piange il cuore per quanto è successo nella mia arcidiocesi. 
Quale sarà il nostro futuro? 
Chiediamo a tutti di pregare per noi”. Sadad è una piccola città di 15.000 persone, in maggioranza cristiani siro-ortodossi, situata 160 km a Nord di Damasco. 
Conta 14 chiese e un monastero con quattro sacerdoti. 
La città era rimasta finora fuori dal conflitto.

giovedì 28 novembre 2013

Gnocchi e Palmaro rispondono ad una provocazione

Gnocchi e Palmaro hanno risposto ad un articolo apparso su “il Foglio” di ieri, Francesco non ci vuole imbalsamati (http://www.ilfoglio.it/soloqui/20808), dove l’autore criticava le loro posizioni. Lo stesso quotidiano, nello stesso giorno, ha pubblicato la risposta, dallo spirito arguto e letterario, fresco e intraprendente di una coppia che avrebbe fatto buona compagnia a Giovannino Guareschi, a Gilbert Chesterton come ad Ernest Hello, il quale affermava: «L’uomo mediocre rimpiange che la religione cristiana abbia dei dogmi: egli vorrebbe che insegnasse la morale e basta; e se gli dirai che la morale della chiesa cristiana scaturisce dai suoi dogmi, come l’effetto dalla causa, ti risponderà che esageri»
(C.S.).

Ma senza dottrina non si è Cristiani
Non bastano esperienza, fascino e attrazione per seguire Gesùdi Gnocchi e Palmaro, da il Foglio del 27.11.2013

Non ci fosse il brillìo della scrittura, basterebbe quel suo sguardo appassionato verso Cristo a rendere degna di attenzione la cavalcata ribalda di Emmanuel Exitu fra le miserie spirituali di G&P. Anche se quello sguardo appassionato Emmanuel lo nega preventivamente con foga generosa, un po’ inquisitoria e un po’ giacobina, a un prossimo che non ha mai incontrato.
E’ vero che le sue diecimila battute ricalcano temi, argomentazioni, parole, totem e maestri conficcati a viva forza in tante altre lettere planate sulla scrivania di G&P in questi tempi: tutte uguali, tutte disperatamente aggrappate fin dalle prime righe alla dequalificazione dell’interlocutore per poi giungere, svolta dopo svolta, all’incontro con don Giussani, senza mai il brivido di trovare dietro l’angolo qualcosa o qualcuno di inatteso, senza un fremito che possa épater le bigot. Che noia. Ma qui la passione si sente davvero e si sente pure un certo fiato intellettuale che il mittente nasconde e non nasconde. Non a caso, esibisce fin dal cognome d’arte un’identità presa a prestito da un’opera letteraria, facendo di sé una semplice citazione, ma riuscendo in più di un momento a sfuggire all’abbraccio soffocante del pensiero e della vita altrui. E, quando se ne libera, parla, dice, impreca, graffia e, senza tema di venir smentiti, ama. Quel G&P trattato in terza persona singolare è frutto e segno di un interesse che riconosce almeno un po’ di umanità nell’interlocutore. Un cadeau avvolto in una piccola invenzione letteraria che non lascia indifferenti e induce G&P a rispondere in prima persona singolare: per intendersi meglio sulle questioni che contano.
A cominciare dal Gesù che non avrei mai citato e che, invece, è il sangue e l’anima di ogni parola e di ogni spazio con cui sono state composte quelle pagine capaci di scandalizzare persino una creatura a prima vista così disincantata e anticonvenzionale come Emmanuel Exitu. Quelle parole basta rileggerle, o forse leggerle davvero, per rendersi conto che non serve confessare a ogni passo “l’incontro con Gesù” per sentire il Figlio di Dio nelle proprie vene e nella propria anima, per farne la propria vita. Se rubo le parole di Giovannino Guareschi per descrivere la lacrima con cui il Cristo crocifisso guarisce il bambino di Peppone, non sto facendo l’intellettuale. Sto solo dando forma al pudore che mi fa sentire incapace di descrivere con pensieri solo miei il mio sguardo quotidiano su Gesù in croce. E, magari, su quella lacrima pitturata con pennellate così perfette, ci ho pianto, ci ho meditato, ci ho riflettuto: ci ho pregato. Per questo non mi sento soffocare dentro lo la luminosità di quella splendida casa che è la liturgia, l’edificio più bello che l’uomo abbia mai contribuito a erigere, perché è di origine divina.
Per una creatura, non esiste momento più incantevole di quello in cui apparecchia la casa perché sta arrivando il Signore a offrire ancora una volta la sua morte e a portare in dono ancora una volta la sua vita. Tutto trepida d’attesa per quanto non vi è di più grande nell’universo, e profuma ancora una volta del nardo sparso sui piedi di Gesù nella casa di Simone il lebbroso la sera prima dell’ultima cena. Non c’è momento in cui torno  davvero bambino come quando, con ingenuità poveretta, riesco a catturare una goccia dell’acqua santa che il sacerdote, alter Christus, distribuisce lungo la navata prima di salire all’altare di Dio, al Dio che letifica la mia giovinezza. E’ come essere accanto a quella donna che riesce a toccare il lembo del mantello di Gesù e fare come lei. “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. E io, che ero in ginocchio, mi alzo e mi sento in pace perché Gesù mi ha guardato.
Ma non c’è nulla di sentimentale in tutto questo. Per guarire nel corpo e nell’anima, l’uomo, che è una creatura razionale e quindi liturgica, ha bisogno di ben altro che il sentimento. La piccola ma incresciosa vicenda bambino con le mani oranti ripreso dal Papa ha colpito tanto Emmanuel perché dice questa verità e sta alla radice del senso religioso. Ma lui, Emmanuel, non lo ha ancora capito. E’ andato a caccia del filmato su Youtube e poi ha compiuto l’operazione più inutilmente intellettuale che si potesse concepire: ha immaginato i pensieri del Papa mentre riprendeva il chierichetto con le mani giunte. Non ha compreso che qui non si tratta di discorsi, ma di gesti: di rito. Quando riconosce la necessità di adorazione che si fa strada nel cuore dell’uomo, la ragione si umilia, si purifica, si ritrae e fa spazio all’orazione: non parla. La liturgia introduce a un mondo celeste in cui leggi, gesti e parole sono stati stabiliti una volta per sempre da Dio. Farli propri non significa chiudersi in case soffocanti, preda di qualche imbalsamatore, ma accedere a una vita più bella che viene uccisa da una vivacità solo umana. Quel bambino, che ha ricomposto le mani giunte dopo che il Papa gliele aveva disgiunte, tutto questo lo ha già nel suo sangue cristiano, senza bisogno di “vacanzine”, di “scuole di comunità” e di nottate esegetiche sui testi di don Giussani. Gli è bastato imparare a servire la messa da un maestro bravo e devoto.
Naturalmente, servono anche i testimoni viventi, ed Emmanuel cita sacerdoti missionari ai confini del mondo, laici che hanno affrontato la malattia testimoniando che morire da santi è possibile. Ma la dottrina della comunione dei santi ci assicura che sono veramente vivi, oltre a questi contemporanei, tutti i membri della Chiesa di ogni tempo. A cominciare dai santi: Agostino e Benedetto, Ambrogio e Carlo Borromeo, Francesco e Domenico, Filippo Neri e Ignazio di Loyola, don Bosco e padre Pio. Sono tutti più vivi di noi, pregano per noi e ascoltano il nostro orare. Le guglie delle cattedrali gotiche pullulano di statue che rendono visibili migliaia di cristiani defunti che sono vivi nel mistero del Paradiso.
Questi cristiani ci raccontano la storia di una fede che impone di cambiare vita e abbandonare l’uomo vecchio. Non chiede un’adesione intellettuale e filosofica, ma esige un cambiamento di vita. Il Nuovo Testamento mostra una predicazione che sul piano morale è letteralmente senza sconti. Paolo scrive ai dissoluti pagani del corrotto impero romano e, tuttavia, non omette nessun insegnamento che sia necessario per una vita santa. E’ probabile che, a quei tempi, tessalonicesi, romani, filippesi, efesini non se la passassero così bene dal punto di vista del sesto e del nono comandamento. Ma la Chiesa primitiva, spesso citata per contrapporla a quella costantiniana e medievale, non si è inventa un cristianesimo riveduto e corretto a beneficio dei peccatori incalliti. La verità di Cristo, della sua Persona e della sua sequela deve essere insegnata tutta intera.
La gradualità si esprime nel perdono e nella pazienza del confessionale, non deformando la dottrina per emendarla dalle spigolosità che non piacciono all’indio Guarani e, magari, neanche alla casalinga di Voghera, al giornalista milanese o al regista bolognese. Se nel confessionale la Chiesa lava il peccato e sconfigge il nemico, dal pulpito la stessa Chiesa comunica tutto l’orrore del peccato e denuncia tutta la pericolosità del tentatore.
Senza dottrina, senza distinzioni sottili, non si diventa bravi cristiani. Lo diceva Chetserton nel 1934: “Le discussioni teologiche sono sottili ma non magre. In tutta la confusione della spensieratezza moderna, che vuol chiamarsi pensiero moderno, non c’è nulla forse di così stupendamente stupido quanto il detto comune: ‘La religione non può mai dipendere da minuziose dispute di dottrina’. Sarebbe lo stesso affermare che la vita umana non può mai dipendere da minuziose dispute di medicina. L’uomo che si compiace dicendo ‘Non vogliamo teologi che spacchino capelli in quattro’, sarebbe forse d’avviso di aggiungere ‘e non vogliamo dei chirurghi che dividano filamenti ancora più sottili’. È un fatto che molti individui oggi sarebbero morti se i loro medici non si fossero soffermati sulle minime sfumature della propria scienza: ed è altrettanto un fatto che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i suoi dottori di teologia non avessero argomentato sulle più sottili distinzioni di dottrina”.
Ma sarebbe non conoscere l’uomo, a cominciare da se stessi, se si pensasse che basta apprendere il bene per sceglierlo sempre. Lo credeva, sbagliandosi, Socrate, professando un intellettualismo che faceva coincidere conoscenza della verità morale con la coerenza di vita. Ma già Ovidio nelle “Metamorfosi” diceva: “Video meliora proboque, deteriora sequor”, vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori. “Veggio 'l meglio ed al peggior m'appiglio” confessa Petrarca. E Paolo di Tarso nella, “Lettera ai romani”: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”. Però questa conoscenza dell’animo umano non deve produrre il testacoda logico secondo cui conoscere la verità morale non serve: possedere la dottrina non basta, però è necessario. Come direbbe Pascal, è il ben pensare che porta al ben agire, e Chesterton, gli fa eco spiegando che la strada dell’inferno è lastricata di tutto, tranne che di buone intenzioni. La ragione indaga e insegue la verità e la volontà poi deve trovare la motivazione che la inclina al bene: l’amore per Cristo, la passione per gli altri nei quali vedo Gesù, l’incontro di veri testimoni del Vangelo.
L’esperienza, dunque, poiché il cristianesimo esige non solo di essere conosciuto, creduto, pensato, ma anche vissuto. Ma “esperienza” è concetto ambiguo che porta inevitabilmente con sé una quota di soggettivismo e rischia di relativizzare la fede. Se è vero che il cristianesimo è incontro con Cristo, bisogna insegnare dove ordinariamente avviene: nella Chiesa e nei suoi sacramenti. Certamente il Signore può trovare altre strade per intercettare un’anima, dalla bellezza di un tramonto all’affetto di una “compagnia”. Ma Cristo si incontra nei sacramenti, dal battesimo alla confessione passando per l’eucarestia, e nella preghiera. Per questo vado a messa, mi confesso, mi comunico, mi inginocchio e prego. Perché nel corso della giornata vorrei avere occhi solo per vedere Gesù, orecchi solo per ascoltare Gesù, bocca solo per lodare Gesù e baciare le sue piaghe, mani solo per carezzare Gesù, ma so che, senza di Lui, non ho la forza per farlo.
Il resto è terreno sdrucciolevole, sul quale i sentimenti rischiano di accecare la ragione e l’esperienza rischia di mangiarsi la verità. Un territorio dove concetti tremebondi e ambigui come “fascino”, “attrazione”, “risposta alla domanda dell’uomo” possono illudere che seguire Cristo sia l’assecondare una gradevole strada in discesa, mentre è proprio il contrario. L’uomo deve combattere contro tutte quelle pulsioni che lo spingono lontano da Gesù. E deve vigilare perché il peccato e il male diventano persino un veicolo privilegiato da pilotare per tenere comodamente insieme l’incontro con Cristo e una vita lontana dal Decalogo, dando del moralista a chi lo fa notare e beffando proprio quel Gesù che ammonisce “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”.
Per uno di quei paradossi che ne fanno l’unica religione vera, il cristianesimo è esaltante perché indica a tutti il povero orizzonte di quelli che il vecchio Chesterton chiamava i cristiani comuni. Quelli che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza, che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia, che condannano chi colpisce per primo e assolvono chi ferisce in propria difesa. Quelli che pensano, e quindi compiono, ciò che la dottrina ha sempre insegnato e, loro sì, sono avviati verso il Paradiso.
A questo punto è arrivato il momento dei saluti e, francamente, caro Emmanuel, sarebbe imbarazzante inviargieli da parte della “premiata ditta d’imbalsamazioni”, “pretestuosa nel maneggio delle fonti e piena di risentimento”, “mitragliatrice senza pietà chi esce dalle righe”, espressione di “spirito travagliesco” con tanto di “uso selettivo di fonti, distorsione di dettagli fuori contesto, sguardo volutamene parziale sul magistero”. Se le basta, li accetti dal suo G&P.

Tolentino : Basilica di San Nicola , Santa Messa Solenne per la festa di Sant'Andrea Apostolo

Tolentino, Basilica di San Nicola ,
Cappella delle Sante Braccia Sabato 30 novembre ore 16,00 Santa Messa Solenne ( in terzo ) del Parroco Don Andrea Leonesi nel giorno della Festa di Sant'Andrea Apostolo,  suo onomastico .
Al termine  processione in Cripta per la preghiera davanti il Corpo del Santo Taumaturgo , "  Protettore delle Anime Purganti " ( Papa Bonifacio IX e Papa Leone XIII ) e " Protettore dell'unità della Chiesa " ( Papa Eugenio IV ).
L'Organista Urbaniese M.° Lorenzo Antinori suonerà l' Organo Tamburini ( 1905 ) a trasmissione pneumatica collocato nella cantoria della Cappella.
Si ringrazia la Comunità dei Reverendi Padri Agostiniani, in particolare il P.Priore P.Massimo Giustozzo e il Sagrista P.Giuseppe Prestia.


 *** 
Domenica 1 dicembre - ore 17:30
prima d'Avvento

  Tolentino - chiesa del Sacro Cuore (detta dei "sacconi ")

 SANTA MESSA cantata nella forma extraordinaria del Rito Romano
venerazione della Reliquia di Papa San Pio X

donata di recente dalla Santa Sede, primo dono del Pontificato di Papa Francesco, il prossimo anno ricorrerà  il centenario della morte del grande Papa che aveva riassunto lo scopo del suo pontificato con il motto “ Instaurare omnia in Christo “ .
Il Santo Papa viene anche ricordato per la salutare riforma che ebbe il coraggio di fare per la Musica Sacra.
Dopo il Motu Proprio di Papa Pio X “ Tra le sollecitudini “ del 1903 nacquero e si rafforzarono tanti cori liturgici che hanno  ridonato il giusto decoro alle celebrazioni immettendo negli animi dei fedeli santa devozione e  amore per la Liturgia e per la Chiesa Cattolica.
E i frutti si sono visti ...



Pregheremo anche per la costituenda Confraternita, pluri-regionale, prettamente dedicata alla Liturgia, al decoro della Casa di Dio , all'aiuto alle Parrocchie e alle Comunità bisognose secondo le normative CEI nello spirito del Motu Proprio " Summorum Pontificum ".

mercoledì 27 novembre 2013

Echi tridentini in cinematografia (U.Grosbard, 1981)

Un lettore ci segnala, per la categoria "Echi tridentini nel cinema", qualche fotogramma e un breve video del film "L'assoluzione".
Diretto da Ulu Grosbard nel 1981, il giovane Robert De Niro interpreta un ambizioso monsignore in carriera (assistente dell'Arcivescovo di Los Angeles nel 1947, incaricato e interessato all'aspetto "temporale" della diocesi che alla fine del film ritroverà la dimensione spirituale del proprio sacerdozio), e Robert Duvall, suo fratello poliziotto, duro e impulsivo, che sarà determinante per la "conversione" del fratello sacerdote.
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sotto, un filmato

de Mattei: "Ciellini e rossomalpeli: hanno snaturato la fede cattolica". Giusta invettiva su Il Foglio contro i nuovi modernisti, luterani di oggi


Processo ai nuovi modernisti
Ieri luterani e gesuiti equivoci, oggi ciellini e rossomalpeli.
Così avete snaturato la fede cattolica
di R. de Mattei, da Il Foglio del 26.11.2013
Le reazioni su questo giornale di mons. Luigi Negri, di don Francesco Ventorino e del prof. Massimo Borghesi, al mio articolo sulla “liquefazione della Chiesa” (“Il Foglio”, 12 novembre 2013) mi impongono di tornare su una questione di fondo del dibattito cattolico contemporaneo: quella riguardante la definizione della fede, indubbio fondamento della vita cristiana.
Il dato di fatto da cui partire, e su cui spero anche i miei interlocutori convengano, è il crollo della fede, verificatosi nella Chiesa negli ultimi cinquant’anni. Inaugurando il 27 gennaio 2012 l’Anno della Fede, Benedetto XVI si esprimeva in questi termini: “Come sappiamo, in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi. Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità nell’impegno della Chiesa intera ai nostri giorni”. Ma l’Anno della fede si è chiuso – occorre dirlo – senza che si intraveda in alcun modo una risposta forte delle autorità ecclesiastiche di fronte alla crisi in atto. La stessa enciclica Lumen Fidei ignora in maniera sorprendente questo drammatico problema. Ma cos’è la fede? La risposta a questa domanda non ammette equivoci, dopo la definizione del Concilio Vaticano I, riproposta dal nuovo Catechismo della Chiesa cattolica: la fede è l’adesione della ragione, mossa dalla grazia, alle verità rivelate da Dio, per l’autorità di Dio stesso che ce le rivela. Le verità rivelate sono dette tali perché sono contenute, in maniera esplicita o implicita, nella rivelazione divina, conclusa con la morte dell’ultimo apostolo. La Sacra Scrittura e la Tradizione raccolgono queste verità, che formano la fede oggettiva e immutabile della Chiesa. In alcuni casi tali verità oltrepassano la nostra ragione e sono dette misteri. I due misteri centrali del Cristianesimo sono la Trinità e l’Incarnazione del Verbo. Essi sono superiori alla nostra ragione, ma non le si oppongono. Crediamo queste verità perché ci sono rivelate da Dio. Ma l’esistenza di Dio prima di essere una verità di fede, è verità filosofica, che può essere dimostrata dalla ragione, così come può essere dimostrata dalla ragione l’esistenza e l’immortalità dell’anima. La fede interessa non solo la teologia, ma la filosofia, come mostra bene Antonio Livi (si veda ad esempio il suo Razionalità della fede nella rivelazione, Leonardo, Roma 2005). L’inconoscibilità della natura di Dio non va confusa con la certezza razionale della sua esistenza. Solo dopo aver assodato che Dio esiste possiamo credere in Lui e nella sua rivelazione. Per questo sant’Agostino dice che dobbiamo “Credere Deum, Deo, in Deum”, cioè credere Dio come oggetto della fede; credere a Dio come motivo della fede; credere in Dio come suo fine.
Lutero per primo stravolse il concetto tradizionale di fede. L’uomo, integralmente corrotto dal peccato originale, è per lui incapace di conoscere il vero e amare il bene. La fede non consiste nella ragione e nella volontà, imputridite dal peccato, ma nella “fede fiduciale”, che nasce da un sentimento di disperazione profonda ed ha il proprio oggetto nella misericordia di Dio, invece che nelle verità da lui rivelate. Appellandosi a questa visione pietista e individualista della fede, Lutero e suoi continuatori fanno dell’esperienza religiosa l’unico criterio della vita cristiana. In tutta la tradizione evangelico-protestante la religione è vista come un “incontro” salvifico con Dio, in cui la fede soggettiva assorbe e dissolve quella oggettiva. Nella Esquisse d’une philosophie de la religion (1897) di Auguste Sabatier (1839-1901) arriva a compimento la riduzione protestante della fede a sentimento. L’atto di fede è inteso come incontro con la potenza oscura e misteriosa da cui l’anima dipende e da cui dipende il suo destino. Tutto ciò che è dogma e riflessione teologica non è altro che la trascrizione simbolica di un'esperienza religiosa collettiva in continua evoluzione.
Negli stessi anni in cui appare l’opera di Sabatier, Maurice Blondel (1861-1949) pubblica l’Action (1893), prima espressione di quella filosofia dell’azione che, con il protestantesimo liberale, costituisce il retroterra immediato del modernismo. Secondo Blondel l’azione, e non il pensiero, attinge la verità dell’essere. La massima tradizionale secondo cui “agere sequitur esse” viene capovolta: l’azione precede l’essere e l’uomo trova la verità e la stessa fede nell’azione. L’azione è la sintesi del pensare e dell’agire, il vincolo tra il pensiero e l’essere. Blondel vuole dunque sostituire alla apologetica tradizionale, che si propone la dimostrazione razionale delle verità del Cristianesimo, una nuova apologetica basata sul principio di immanenza. Il metodo dell’immanenza pretende di trovare la verità della religione e dei misteri della fede partendo dalla coscienza dell’uomo, dai suoi bisogni, dalle sue aspirazioni, da tutto ciò che sgorga dalla sua esperienza di vita.
Tesi analoghe erano espresse dal teologo del modernismo George Tyrrell (1861-1909), che dopo essersi convertito dal protestantesimo al cattolicesimo entrò nella Compagnia di Gesù, ma presto ne contestò l’insegnamento. Anche per Tyrrell, la religione è un’unione del cuore con Dio che fa a meno della verità dei dogmi. Il Dio di Tyrrell, come quello di Blondel, è immanente alla coscienza, che lo riconosce nella propria esperienza religiosa. Non è la verità a determinare l’esperienza, ma l’esperienza a costituire il criterio supremo della verità. “Trait d’union” tra Blondel e Tyrrell fu Henri Brémond (1865-1930), anch’egli gesuita, insofferente della disciplina e dell’insegnamento della Compagnia. La corrispondenza tra Brémond e Tyrrell è istruttiva a questo proposito (Lettres de George Tyrrell à Henri Brémond, Aubier, Parigi 1971). Brémond, in preda a crisi di nevrastenia, confidava a Tyrrell di voler lasciare i gesuiti per vivere, come Tyrrell, con un’amante. Il suo ideale – scriveva – sarebbe stato quello di una “vita clericale adogmatica”. Tyrrell risponde al confratello di essere prudente e di abbandonare la Compagnia senza precipitare le cose. Quando qualche anno dopo Tyrrell morirà, dopo essere stato scomunicato da san Pio X, Brémond sarà al suo capezzale e, seguendo i suoi consigli, vivrà poi nel mondo come un semplice sacerdote cripto-modernista, intraprendendo una carriera letteraria che lo porterà all’Académie française. La sua poderosa Histoire littéraire du sentiment religieux en France (1915-1933, 11 volumi), già nel titolo riassume le tesi degli amici Blondel e Tyrrell: la fede ridotta a intuizione poetica, esperienza di vita mistica che vanifica ogni verità dogmatica.
 Tra i diretti continuatori di questa linea di immanenza vitale fu il padre Henri de Lubac (1896-1991), anch’egli, come Brémond e Tyrrell, appartenente alla Compagnia di Gesù, ma a differenza di loro gesuita fino all’ultimo giorno della sua vita. De Lubac, come Blondel, pone nella coscienza dell’uomo la possibilità di incontrare Dio con le proprie forze, distruggendo la fondamentale distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale. Il cardinale Siri, in Getsemani. Riflessioni sul Movimento Teologico Contemporaneo (Fraternità della Santissima Vergine, Roma 1980), ha ampiamente confutato questi errori teologici. Pio XII, con l’enciclica Humani generis (1950), condannò le tesi di de Lubac e degli altri esponenti della nouvelle théologie progressista, ma dopo la sua morte furono proprio loro i protagonisti del Concilio Vaticano II, a cui diedero l’orientamento di fondo. De Lubac fu creato cardinale da Giovanni Paolo II ed è oggi citato spesso da Papa Francesco, anche se pochi ne hanno letto le opere, criptiche e prolisse.
Negli anni del postconcilio, de Lubac appartenne all’ala “moderata” della nuova teologia progressista. Ma la sua moderazione, più che nel contenuto, è nei toni. Basta paragonare il suo diario del Concilio Vaticano II a quello del domenicano Yves Congar, per rendersi conto della differenza tra il suo linguaggio misurato e quello violento e spesso grossolano di Congar. Ciò non impedì a de Lubac di essere un entusiasta ammiratore e divulgatore delle opere del suo confratello Pierre Teilhard de Chardin, una delle figure estreme dell’eterodossia cattolica del Novecento, verso cui lo stesso Blondel aveva manifestato delle riserve.
De Lubac apparteneva a quella categoria di uomini che detestano le conseguenze delle proprie idee. Criticò il disfacimento postconciliare, ma non volle ammettere che le radici di quanto accadeva stavano proprio negli errori della nouvelle théologie. Nel 1972 fu tra i promotori della rivista “Communio”, e don Luigi Giussani, che negli stessi anni lanciava Comunione e Liberazione, lo riconobbe come un suo maestro. I discepoli di don Giussani protestano quando gli attribuisco una equivoca nozione di fede, e “Rosso Malpelo” (Gianni Gennari), mi accusa su “Avvenire” di dire “bugie”, ma la verità è consegnata alla storia.
Invito a leggere il libro di don Giussani, Un avvenimento di vita cioè una storia. Itinerario di quindici anni concepiti e vissuti, con un’introduzione del cardinale Ratzinger (Il Sabato, Milano 1993). Il volume raccoglie le interviste e gli appunti da conversazioni pubbliche che il fondatore di CL ha tenuto tra il 1976 e il 1992. Il libro non contiene nessuna esplicita negazione delle verità di fede e vuole manifestare anzi l’attaccamento alla Chiesa di don Giussani. Ma alla fine delle 500 pagine si rimane con una sensazione di vuoto intellettuale. Al lettore non rimane che questo messaggio: non serve né l’apologetica, né l’approfondimento razionale della verità. Ciò che conta è vivere. Ma vivere che cosa? Si tratta, spiega don Giussani, di “rendere la fede un avvenimento” (p. 339). Comunione e Liberazione nasce da una “intuizione del Cristianesimo come avvenimento di vita e quindi come storia” (p. 349). “Il metodo consiste in questo: che l’intuizione diventa esperienza (…). L’esperienza è il luogo in cui si vede se ciò che è intuito vale per la vita” (p. 351). La fede è incontrare Cristo, riconoscere la sua presenza nella storia e nella propria vita. Ma chi è Cristo? La risposta ciellina è scoraggiante: colui che si incontra. Il problema di fondo è che, al di fuori della tautologia dell’incontro, Cielle non è andata e non potrà mai andare, proprio per la sua pretesa di ridurre il cristianesimo a pura esperienza ed esigenza dello spirito.
Il Cristianesimo, certo, è anche esperienza, ma l’esperienza è per sé stessa, incomunicabile; mentre ciò che si può comunicare sono i princìpi che precedono l’esperienza e da cui l’esperienza dipende. Nessuno mette in dubbio l’esistenza dell’esperienza religiosa che, sotto certi aspetti, è la forma più alta di vita cristiana. L’esperienza è infatti una conoscenza immediata e diretta della realtà. Ma l’esperienza religiosa non solo non nega la credibilità razionale della fede, ma la presuppone. Nella prospettiva di Cielle invece cade l’apologetica e tocca alla vita, e non alla razionalità dei motivi, dare la dimostrazione dell’esistenza di Dio e della verità della Chiesa. L’esperienza religiosa però ha valore solo se sottomessa alla ragione, alla rivelazione e al magistero. Oggi si è smarrita la vera nozione di fede, perché la si riduce a sentimento del cuore, dimenticando che essa è un atto razionale, che ha come oggetto la verità. L’intelletto è la sola facoltà spirituale che può far proprie le verità proposte dalla rivelazione. Per i modernisti di oggi, come per i protestanti di una volta, la fede appartiene alla sfera affettiva e irrazionale. L’oggetto della fede, le verità credute, diventa secondario. Si rigetta in blocco il realismo greco-cristiano, negando valore al Logos, ai primi princìpi della ragione e al primato della metafisica. Ciò che conta è l’esperienza individuale del credente, quello che egli vive nella sua sensibilità. L’esperienza intima del soggetto diviene l’unica esperienza della vita cristiana e la coscienza religiosa l’essenza della vita della Grazia. Questa “esperienza di fede” rifugge dalle affermazioni dogmatiche, nella convinzione che ciò che è assoluto divide e solo ciò che muta e si adatta può unire gli uomini tra loro e a Dio. In questa religione dell’umanità caratteristica dei nostri tempi l’affermazione netta della verità è un atto di intolleranza verso il prossimo e il compromesso tra la fede e il mondo diviene il modello di ciò che definito “incontro” con Dio. La fede però non è irenica: si alimenta con lo studio, con la discussione, anche con la polemica. Quando si discute con passione, vuol dire che si crede e il calore della polemica è talvolta la misura dell’amore verso ciò in cui si crede. Ma all’interno dello stesso clero, chi crede oggi, e in che cosa?
Perché l’esperienza religiosa sia vera e non sia un’illusione ci vuole invece un criterio di verità. Il problema di fondo è come determinare l’autenticità dell’esperienza. L’esperienza religiosa può essere solo esperienza del vero Dio e della vera religione: non è un generico sentimento di dipendenza dall’assoluto. E’ esperienza religiosa quella di un buddista immerso nel Nirvana? De Lubac pensa di sì e forse anche alcuni discepoli di don Giussani.
Ogni errore ha delle conseguenze. La scarsa sensibilità liturgica di Comunione e Liberazione non è casuale. La massima della Chiesa secondo cui la lex orandi traduce la lex credendi presuppone l’esistenza di una integra e coerente dottrina, di cui la liturgia è visibile espressione. Ma se la dottrina è assorbita dalla vita, la liturgia non può che essere condannata all’estinzione. L’amore per la liturgia tradizionale presuppone necessariamente l’amore per le verità tradizionali. E il tanto bistrattato “tradizionalismo” non è altro che questo: amore alla verità della Chiesa in tutte le sue espressioni, da quelle liturgiche a quelle politiche e sociali. I cosiddetti “tradizionalisti”, che sono solo cattolici senza compromessi, si richiamano all’insegnamento immutabile della Chiesa: non idolatrano il potere, ma credono nella Regalità sociale di Gesù Cristo, ossia sul suo diritto a regnare su ogni uomo e sulla società intera. L’“esperienza religiosa” a cui si rifanno è quella di coloro che testimoniarono col sangue la loro visione cristiana della società, come i Vandeani in Francia e i Cristeros in Messico. Nulla a che fare con l’amoralismo politico di cui negli anni Cielle ha dato prova. Sarebbe vano cercare un filo conduttore negli ospiti illustri del Meeting di Rimini, dalle sue origini ad oggi: personalità di destra e di sinistra, conservatori e progressisti si sono alternati e si alternano in una passerella del potere, che se è priva di continuità intellettuale e politica, non manca di intima coerenza nel suo radicale pragmatismo. Il lungo idillio di Comunione e Liberazione con Giulio Andreotti deve far riflettere. Andreotti fu l’incarnazione dell’amoralismo politico e tra la filosofia della prassi ciellina e la politica della prassi andreottiana, l’incontro era obbligato. L’uomo che andava a Messa ogni mattina, non esitava a firmare, nel 1978, la legge abortista in Italia. La fede svincolata dai princìpi razionali e dai “valori non negoziabili” rende disponibili a qualunque avventura. Così oggi Roberto Formigoni, quando “apre” all’affidamento di bambini alle coppie gay, non è incoerente con la “filosofia della prassi” a cui si ispira.
Il prof. Massimo Borghesi ritiene che negli anni Settanta, fu “la pedagogia dell’esperienza” di CL e non il tradizionalismo a “salvare” la Chiesa. Io ritengo invece che Comunione e Liberazione abbia semplicemente intercettato la parte sana del mondo cattolico rimasta “orfana” negli anni bui del postconcilio, senza essere in grado di dare a questi giovani gli strumenti teologici e filosofici di cui avevano bisogno, a cominciare da una retta nozione di fede. Molti di essi, oggi non più giovani, erano e sono di ottima qualità ed è soprattutto a loro che mi rivolgo quando affermo che Comunione e Liberazione non ha costituito un argine alla crisi della fede dei nostri giorni, ma ha contribuito all’infiacchimento della fede e alla sua crisi attuale, senza negare naturalmente le buone intenzioni di nessuno e con il massimo rispetto per i miei interlocutori, a cominciare da mons. Luigi Negri, al quale contraccambio stima e amicizia

martedì 26 novembre 2013

Evangelii Gaudium. il Papa " Il vero sacerdozio è quello ministeriale ed è riservato agli uomini." Ma pericolo per il decentramento di governo, di pastorale. E anche... dottrinale?


ESORTAZIONE APOSTOLICA
EVANGELII GAUDIUM
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E AI FEDELI LAICI
SULL' ANNUNCIO DEL VANGELO
NEL MONDO ATTUALE


104. Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere. Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere. Non bisogna dimenticare che quando parliamo di potestà sacerdotale « ci troviamo nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità ».[73] Il sacerdozio ministeriale è uno dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo, ma la grande dignità viene dal Battesimo, che è accessibile a tutti. La configurazione del sacerdote con Cristo Capo – vale a dire, come fonte principale della grazia – non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto. Nella Chiesa le funzioni « non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri ».[74] Di fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi. Anche quando la funzione del sacerdozio ministeriale si considera “gerarchica”, occorre tenere ben presente che « è ordinata totalmente alla santità delle membra di Cristo ».[75] Sua chiave e suo fulcro non è il potere inteso come dominio, ma la potestà di amministrare il sacramento dell’Eucaristia; da qui deriva la sua autorità, che è sempre un servizio al popolo. Qui si presenta una grande sfida per i pastori e per i teologi, che potrebbero aiutare a meglio riconoscere ciò che questo implica rispetto al possibile ruolo della donna lì dove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa.

 
e sul decentramento



16. Non credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”.

32. Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato. A me spetta, come Vescovo di Roma, rimanere aperto ai suggerimenti orientati ad un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione.

40. Inoltre, in seno alla Chiesa vi sono innumerevoli questioni intorno alle quali si ricerca e si riflette con grande libertà. Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo.

47. [...] Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa.

94. Questa mondanità può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro. Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. L’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico. Non è possibile immaginare che da queste forme riduttive di cristianesimo possa scaturire un autentico dinamismo evangelizzatore.”

95. Questa oscura mondanità si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente opposti ma con la stessa pretesa di “dominare lo spazio della Chiesa”. In alcuni si nota una cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia. In tal modo la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi.

96. [...] Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele.

280. [...] Tuttavia non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni momento. Questo si chiama essere misteriosamente fecondi!

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 Un esame dell'Esortazione apostolica, incentrata sull'estratto di cui sopra.


 Evangelizzazione senza controllo
di F. Colafemmina, da Fides et Forma del 26.11.2013

Alcune chicche dall’esortazione al caos evangelico di Papa Francesco. Come ebbe a dire a Kiko Arguello poco dopo la sua elezione il Papa sembra auspicare una Chiesa dove si faccia “casino”, dove non ci sia più una autorità centrale che “trattiene”. Dove si possano delegare alle Conferenze episcopali anche definizioni dottrinali con il Papa ridotto a garante dell’ecumenismo, a saggio vegliardo che consiglia e guida. Magari il suo sistema funzionerà.  Ma l’incognita è legata a questa azione del Papa che demolisce l’immagine, la struttura impalpabile del rapporto fra un Papa e la sua Chiesa così come l’abbiamo conosciuta. Perché è certo che il “mondo” saprà accettare e avvicinare questa “nuova” Chiesa ben diversa dalla precedente. Resta da capire invece cosa ne sarà di quella Chiesa precedente, se verrà rottamata diventerà difficile capire quale autorità possa avere una figlia che rinnega sua madre. Il Papa trasferisce tutto su un piano imprevedibile e spiritualmente indefinito, dove le strutture non servono più e l’autorità è ridimensionata. Dove la cura dottrinale e liturgica sono ridotte a caricaturali simulacri di narcisismo ed estetismo ipocriti, dove l’ascolto e l’accettazione dell’altro e il rapporto dialettico in genere assurgono a cardine dell’evangelizzazione.

Drammaticamente – ossia con una certa teatralità – il Papa finisce per derogare dalle sue prerogative. E così, relativizzando la sua autorità, somiglia ad un monarca che esercita il potere al solo scopo di demolirlo, o di distribuirlo ad altri. Che riconosce la propria autorità solo al fine di privarsene. Il che è bello ed umile se non fosse che l’umiltà starebbe nell’astenersi dal modificare ciò che si è ricevuto, dal depotenziare la struttura del Papato al fine di adattarla alle presunte necessità del tempo. Questo è relativizzare, storicizzare il Papato, rendere il papato dei secoli o dei mesi scorsi una sorta di tradimento inautentico dell’istituzione divina. Sostenere, in sintesi, che tutto ciò che c’è stato finora sia stato plasmato sul mondo e le sue necessità. E oggi che il mondo è cambiato, deve cambiare il Papato.

E’ interessante poi notare che il Papa smorza ogni potenziale critica rammentando che il vero cristiano è gioioso. E qui mi sembra di averlo preceduto con la mia lettera ai tradizionalisti tristi. Fondamentalmente però non c’è nulla di cui rattristarsi in tutta questa rivoluzione del Papa (che è poi dei Cardinali che l’hanno eletto e che hanno promosso attivamente questa rivoluzione). E tuttavia neppure argomenti per i quali gioire. Propongo una terza via: quella un po’ stoica dell’impassibilità!

In ogni caso – e qui il tono dovrebbe passare dal mesto, gioioso o impassibile che sia, all’ironico o persino al comico – dopo aver letto l’intera esortazione apostolica mi resta un dubbio amletico: quale sarebbe la buona novella che dovremmo annunciare noi cattolici oggi? Se si tratta di banalizzare il messaggio cristiano in una sorta di abbraccio globale, beh, sono certo che ci riusciremo. Perché nell’esortazione è curioso constatare che parole come “peccato” e “conversione” vengano usate non per connotare la dinamica evangelizzatrice, ma per definire la trasformazione, la palingenesi della Chiesa stessa. Come “paradiso” e “inferno”, “vita eterna” o “aldilà” siano del tutto assenti. E come il concetto di redenzione trascolori in una dimensione “sociale”.
Insomma più contraddizione, più confusione di questa tra passi avanti e passi indietro, interviste date e poi più o meno ritrattate, colpi a destra e colpi a manca, Vaticano II à la Marchetto e Vaticano II à la “basta coi profeti di sventura”, insomma, più casino di così si muore!

Quarta Giornata della Tradizione a Verbania - 19 gennaio 2014


La Chiesa di Vocogno e la Cappella dell’Ospedale di Domodossola,
dove si celebra la Messa Tradizionale,
Domenica 19 gennaio 2014
organizzano la

Quarta giornata della
TRADIZIONE
L’inverno della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II
Una crisi nella Chiesa che non sembra finire;
prospettive per una resistenza

Il Chiostro - Hotel
Via F.lli Cervi 14 – Verbania

Ore 14:30 Accoglienza


Ore 15.00  Dibattito
A partire dal libro di Cristina Siccardi
L’inverno della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, i mutamenti e le cause
(Sugarco Edizioni)
presente l’autrice

Ore 17.30 SANTA MESSA in rito antico 

Possibilità di cena al ristorante.
Prenotazioni entro il 12 gennaio:
tel. n° 349/2848054



Effetto Putin a Roma: "schiaffo -russo- di Anagni" al Papa, e chiesa profanata? E' vero?

"Anagni" per Bergoglio?
Ieri, 25 novembre 2013 durante l'incontro privato,e molto formale come si conviene, tra Putin e Papa Francesco, sono stati affrontati temi caldi: la comunità cattolica russa e l'aiuto per i cristiani in Siria contro i persecutori islamici.
Subito dopo il colloquio, il Papa ha regalato a Putin un mosaico con una veduta dei Giardini Vaticani.
Il presidente russo ha invece donato al Pontefice un'icona della Madonna di Vladimir, una delle più venerate della Chiesa ortodossa. Terminato lo scambio di doni, Putin ha richiamato l'attenzione del Papa sull'icona, gli ha chiesto se gli piacesse: a quel punto è successo un fatto particolare e denso di significato: Putin, "presidente di tutte le Russie" (ci si passi questa antica espressione, per sottolineare l'autorevolezza e l'importanza l'autorità istituzionale che rappresenta), davanti alle telecamere e agli obiettivi, non curante in quel momento del ruolo istituzionale che ricopriva, da semplice fedele si è fatto il segno della croce (secondo l'uso ortodosso). Il Papa, sicuramente colto anche egli di sorpresa da un atto così pio,  si è a sua volta fatto il segno della croce (all'uso cattolico). Subito dopo Putin si è chinato sull'cona mariana per baciarla. Il Papa allora,  ha fatto altrettanto, baciando devotamente la sacra immagine.
La devozione del Papa ci era nota: un po' meno quella di Putin. Sicuramente la testimonianza di fede e di coerenza religiosa del presidente della Repubblica russa è un insegnamento per molti. Non bisognerebbe vergognarsi di testimoniare la propria fede in Cristo e la devozione ai Santi.
Il Papa potrebbe prendere nota, e inginocchiarsi un po' di più davanti al Santissimo (durante la Messa o all'Adorazione Eucaristica) anzichè inchinarsi o stare in piedi.

(si veda al minuto -1.05) - Video da Il Corriere






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 Chiesa profanata per la protesta contro Putin. (il Giornale)

Per l'arrivo di Putin in italia si è mobilitata l'arcigay di Trieste promuovendo una manifestazione a cui parteciperà anche Luxuria.
A Roma sembrerebbe che alcune attiviste (che si sono autodefinite "cagne sciolte", come si intuisce dal loro blog, in cui è apparsa la foto sotto") abbiano messo un manifesto oscenodentro una chiesa.
Sembra che siano le solite ragazze (di centri sociali?) che entrano nelle chiese, si denudano, mettono striscioni diffamanti. Ieri hanno attaccato Putin per la vicenda delle Pussy Riot. 

In Russia chi profana una chiesa finisce in Siberia.
In Italia, invece, i magistrati sono superiori a “queste piccolezze” e amici di questa “bella gioventù” che lasciano spaccare le Madonne, rompere i crocifissi, denudarsi in una chiesa, mettere striscioni osceni.

tratto dal loro blog:

Non dimentichiamo neanche il ruolo della chiesa nel determinare provvedimenti che limitano la libertà delle donne e delle persone lgbtqi. Siamo per questo convinte che sacra romana chiesa e chiesa ortodossa riusciranno a trovare dei punti d’incontro: un accordo tra patriarchi sui nostri corpi si trova sempre. Non ci fermeremo finché non cadranno l’ultimo papa, l’ultimo zar e l’ultimo re