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giovedì 31 ottobre 2013

Twitter e i followers di Papa Francesco (Gnocchi-Palmaro, il Foglio)

Papa Innocenzo III (1161-1216), Lotario dei Conti di Segni, è stato il più potente Sovrano della Chiesa che la storia della cristianità conosca: per lui Chiesa ed impero non erano che due aspetti complementari dello stesso mandato divino.
Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, attraverso i mezzi della comunicazione globale, sta divenendo il più famoso personaggio di tutto il mondo contemporaneo e virtuale, così come rivelano Gnocchi e Palmaro nel loro realistico, quanto intriso di cattolica amarezza, articolo comparso su “il Foglio” di ieri e che qui presentiamo. Francesco ha raggiunto dieci milioni di followers su Twitter, ovvero dieci milioni di fans. Inoltre milioni di persone cliccano «mi piace» Bergoglio su facebook. Milioni di persone chattano da un continente all’altro per dirsi: «W Papa Francesco»… Ma tutto questo è goliardico, come lo fu il Flash mob dei 1200 Vescovi a Copacabana, durante la GMG di quest’estate: questa è l’epoca dei grandi giullari (dal provenzale-occitano joglar, a sua volta derivante dal lemma latino iocularis) non solo politici, ma anche religiosi.
Innocenzo III, grandissimo per cultura, per genio politico e profondamente religioso, aveva in mano un mondo reale e non virtuale; tuttavia, un giorno, di fronte a lui si presenta Francesco di Assisi, che la gente chiama il «Giullare di Dio». Il Sommo Pontefice lo aveva già visto una notte, in sogno, quando gli apparve una Chiesa che stava per crollare a causa delle eresie dilaganti e dei peccati; ma a sorreggerla e salvarla non era il Papa, bensì un mite ed umilissimo uomo ignoto, vestito di sacco che ora si genuflette davanti a lui per chiedergli di poter vivere la povertà stessa di Cristo e degli apostoli, e di poter annunciare alle genti il Vangelo della conversione.
Cristina Siccardi
L’ospedale da campo dei follower

Quanto costa la tentazione di un cristianesimo senza fatica e senza
Sacrificio, nella Chiesa che conta i propri seguaci su Twitter. Ma una
Cosa è unirsi al Corpo di Cristo, altro è sentirsi parte della community

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

Non è necessario essere così vecchi per avere un’idea di che cosa fosse un Cronicon e, magari, averci anche data un’occhiata. Era il diario in cui ogni sacerdote annotava i fatti salienti della parrocchia che gli era stata affidata in cura. Alcuni brillavano come piccoli gioielli letterari, perché i vecchi preti, finito il breviario, non avevano da stare dietro alla tv, a Facebook o a Twitter. Pregavano, studiavano, leggevano e, se avevano del talento per la scrittura, lo riversavano nelle cronachette quotidiane del loro gregge. In ogni caso, ciascuno a suo modo, tramandavano memoria del memorabile, tra cui non mancavano mai di annotare quante comunioni avessero distribuito.
Oggi, invece, si fa il censimento dei follower di Twitter. Ma  una cosa è contare le comunioni di un gregge di cui si conosce pecora per pecora e un’altra cosa è contare i clic di un universo sconosciuto. Una cosa è unirsi al Corpo Mistico di Cristo cibandosi fisicamente della sua carne e del suo sangue e un’altra cosa è sentirsi parte di una community senza la necessità di mostrare il proprio corpo.
L’enfasi sui dieci milioni di follower raggiunti su Twitter da papa Francesco non contribuisce a tenere separati i piani. Anzi, finisce per sostituire il concetto di conversione con quello di successo, l’unico che il mondo sia in grado di capire e di promuovere. I mezzi di comunicazione, che sono naturaliter mondani, non possono permettersi di trattare merce che comporti fatica come il cambiamento radicale di vita. Tutto deve essere facile e alla portata di tutti: se la chiesa cattolica vuole esserci, deve diventare un fenomeno che possa essere trattato come tutti gli altri. La pax mediatica non si estende oltre i confini e le leggi della mediasfera.
Ma l’idea che al cattolico sia consentito avere con il mondo un rapporto pacificato è un’illusione che non si può neppure definire pia. Si fonda sulla convinzione che non esisterebbe un’ostilità mondana nei confronti di Cristo. Anzi il mondo attenderebbe solo l’annuncio del Vangelo che, fino a oggi, l’inadeguatezza della Chiesa e della sua tradizione avevano reso impossibile. Questo equivoco nasce dal superamento della classica distinzione di due concetti di mondo che convivono in tutti i Vangeli e nella tradizione. C’è un mondo oggetto dell’amore di Dio che deve essere amato dal cristiano. Ma c’è poi la parola mondo usata da Cristo per indicare il regno del nemico, che ha nell’angelo ribelle il suo principe incontrastato. Un cattolicesimo che si dimentichi di questa natura del mondo non è più, a rigore, un vero cattolicesimo. Diventa una religione della “buona volontà”, destinata a sciogliersi in tv in maniera indolore, perfetta per una prima serata da grandi ascolti.
 “Il dialogo della Chiesa con il mondo di cui oggi tanto si parla” scriveva il domenicano Roger Thomas Calmel nel 1967 “non potrà mai essere quello di due interlocutori su un piano di parità, in qualsiasi modo si intenda il mondo. Le prime cose che colpiscono nell’incontro fra la Chiesa e il mondo sono la trascendenza della Chiesa e la sua irriducibilità (…). Ne risulta quindi che l’incontro della Chiesa col mondo non potrà mai assomigliare a quello di due cortesi compagni che inizino un dialogo da pari a pari, una sera d’estate, sotto gli alberi di un giardino pubblico. Il solo incontro autentico e salutare della Chiesa con il mondo è quello dei confessori senza macchia, dei dottori inflessibili, delle vergini fedeli e dei martiri invincibili, ricoperti dalla tunica scarlatta intinta nel sangue dell’Agnello (…). Dobbiamo separarci dal mondo quando non possiamo fare come vuole il mondo senza offendere Cristo”.
Parole che suonano strane, specialmente se ci si appresta ad allestire un ospedale da campo dove non si può andare tanto per il sottile. Ma, anche quando si prestano i soccorsi, tanto più se lo si fa per le anime, bisogna porre attenzione al luogo in cui si alzano le tende. Non tutti gli accampamenti sono uguali. A questo proposito viene in soccorso la dottrina tomista delle tre città. Vi à la città di Dio, la chiesa, essenzialmente soprannaturale, senza peccato benché costituita di peccatori. Il suo compito fondamentale è annunciare il Vangelo, celebrare il Santo Sacrificio, salvare le anime. Ovviamente ciò non significa che la Chiesa non porti un beneficio anche nell’edificazione della civiltà, e dunque non vi è opposizione fra la missione essenziale e primaria della Chiesa, la salus animarum, e la promozione di una civiltà più umana”.
La seconda è la città di Satana, composta dalle tre concupiscenze che l’uomo si porta dentro e dall’azione di Satana. Questa città è in perenne sviluppo, e reitera senza posa i suoi assalti su due differenti livelli. Innanzitutto, sul piano religioso, nella più intima essenza dell’uomo, attraverso i suoi falsi sacerdoti e i suoi falsi dogmi. E poi sul piano della società politica, dove si impegna per plasmare i costumi, cambiare le leggi, trasformare l’autorità che governa i cittadini.
C’è infine la città umana, nella quale si alternano le culture e le civiltà che si dipanano lungo i secoli. Questa città ha un’organizzazione, delle leggi, dei costumi, un’autorità che sono migliori o peggiori a seconda dell’influsso esercitato dalle due città perenni. La città degli uomini entra costantemente nella sfera di attrazione delle due città supreme, subendo l’imperiosa avanzata del principe del mondo. Tuttavia, la città di Satana non riesce mai a imporsi in tutto il territorio dell’uomo. In qualche chiesetta sperduta ci sarà sempre un sacerdote che celebra santamente la messa, in un piccolo appartamento una vecchietta solitaria sgranerà sempre con fede incrollabile il suo rosario, in un angolo nascosto del Cottolengo una suora accudirà sempre un bambino considerato da tutti una vita senza valore. Anche quando tutto sembra perduto, la chiesa, città di Dio, continua a irradiare su quella degli uomini la sua luce.
Un cattolico cresciuto all’ombra di questa dottrina, semplice ed efficace, dovrebbe sapere che la persecuzione del mondo nei confronti della chiesa è ingiusta, ma non irragionevole. Anzi, è proprio la pacificazione a risultare impossibile. Non fosse altro che per l’incessante, drammatica e universale richiesta di uniformarsi all’uomo della croce: un affronto imperdonabile e una richiesta incomprensibile per l’orgoglioso mondo moderno.
Ma, se anche questa continua a essere natura della chiesa, non si può dire che il compito sia svolto con efficacia. E’ quanto meno fondato il timore che il numero dei follower di Twitter sia inversamente proporzionale alla forza e alla chiarezza del messaggio. Una severa predicazione dei Novissimi, una minacciosa descrizione di un inferno tutt’altro che vuoto, la dolorosa via maestra che passa attraverso la porta stretta, l’asprezza del dogma, il rigore della ragione non sembrano materia per tanti clic di approvazione. Cattolici, diversamente credenti e non credenti preferiscono di gran lunga baloccarsi con un’idea giocosa della misericordia, quasi che ognuno possa continuare a essere com’è e fare ciò che fa senza che gliene venga mai chiesto conto. Una simile concezione della misericordia può riscaldare il cuore di un don Rodrigo, non certo quello dell’Innominato. Ed è certamente più twettabile di quella che, per esempio, insegnava padre Pio quando diceva: “Io ho più paura della misericordia di Dio che della sua giustizia. La giustizia di Dio è conosciuta: si sa quali sono le leggi che la governano e, se uno pecca ed offende la giustizia divina, può far appello alla misericordia, ma se abusa della misericordia a chi ricorre?”. Eppure, non si può dire che padre Pio non avesse seguito. Ma il consenso camminava lungo altre strade rispetto a quelle della rete. Chi va con il sofferente impara a soffrire, chi va con il blogger impara a bloggare.
La tentazione di un cristianesimo facile, senza fatica e senza sacrificio, sembra fatta su misura per uomini d’allevamento tirati su in un mondo in cui anche l’altro pilastro della formazione, la scuola, da decenni è stato minato. La perfetta radiografia di quest’altro disastro si trova in “Togliamo il disturbo”, là dove Paola Mastrocola prende in esame il “donmilanismo”, che ha la sua chiave di volta nella “Lettera a una professoressa” del prete di Barbiana. “L’idea più terribile, secondo me, si trova nel finale. Il libro si chiude con un sogno, il sogno di insegnanti nuovi e democratici che finalmente dicano ai loro allievi: ‘A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fratto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete dei sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie’. Vuol dire lasciare le persone come sono! Ognuno si tenga le ‘nozioni’ che ha già, che gli vengono dalla famiglia in cui è nato: ognuno abbia, dunque, la vita che già la sorte gli ha dato. Vuol dire una scuola che non aggiunge, non eleva, non sfida. Ma si adegua, si fa uguale, si camuffa. E inevitabilmente si abbassa. E così penalizza proprio i più deboli. Tutti bassi, ma tutti uguali. Bassezza comune, mezzo gaudio?”.
Così, l’abbattimento del gradino su cui stava la cattedra ha finito per snaturare il normale rapporto tra maestro e allievo. Il “tu” sostituito al “lei” ha fatto del docente un semplice pari del discente. Il declassamento del linguaggio formale a parlata quotidiana ha portato al mutamento dei contenuti insegnati. L’idea che l’istruzione e l’educazione iniziali di ogni studente fossero già sufficienti ha condotto alla convinzione di bastare a se stessi e alla negazione di qualsiasi necessità di migliorare.
I quattro assi lungo cui si è mossa la devastazione della scuola replicano la forma, il contenuto e il metodo grazie al quale è stata riformata la liturgia cattolica. Basta pensare all’abbattimento delle balaustre e al trasferimento degli altari nelle navate in forma di semplice tavolo, al sacerdote rivolto verso il popolo invece che verso Dio in qualità di semplice presidente dell’assemblea, al ripudio della lingua latina per quella vernacolare, all’irruzione della teologia del cosiddetto “mistero pasquale” che ritiene ogni uomo già salvo definitivamente, bastevole a se stesso e quindi nella condizione di non dover adorare Dio, ma di celebrare la propria festa. Forse, non è un caso se, all’origine della rivoluzione nella scuola in Italia ci sia un sacerdote.
A un mondo che, tanto nel vivere civile quanto in quello religioso, langue per mancanza di sacrificio e di riverenza, bisogna restituire Qualcuno e Qualcosa per cui sacrificarsi e da riverire. Benedetto XVI ci aveva provato ripristinando la Croce al centro dell’altare e la comunione ricevuta in ginocchio e sulla lingua. Non era una scena da ospedale da campo, ma toccava direttamente le anime perché era frutto della consapevolezza che l’uomo è una creatura razionale e, quindi, liturgica. Una creatura che, grazie ai gesti e alle parole avuti in dono, e dunque irreformabili, può elevarsi verso Dio e sfuggire al demonio. Nei “Detti dei padri del deserto” si spiega come il diavolo sia incapace di conoscere i pensieri degli uomini perché è di un’altra natura, ma che li possa indovinare osservando i movimenti dei corpi. Da qui discende l’importanza del comportamento esteriore e la venerazione che il cattolicesimo ha sempre nutrito per chi compia gesti perfetti creando un anello di purezza inviolabile e compiendo un esorcismo destinato a chi gli sta vicino.
Tutto questo costa fatica, esige disciplina e ascesi, chiede di sostare presso la Croce e soddisfare la giustizia divina cooperando alla passione di Gesù. Nasce da ciò che di più drammatico esista nella vita dell’uomo: il peccato inteso prima come offesa a Dio e solo dopo come danno alle creature. Ma se, come insegna la teologia dominante, l’uomo è salvo per il solo fatto di essere al mondo, se il peccato viene derubricato a fatto sociale, se non serve adeguare la ragione a una verità avvolta nel mistero, la fatica non ha più senso.
Dopo tale mutamento di orizzonte, la liturgia, culmen et fons della vita cristiana, assume una valenza prettamente sociale, parla dell’uomo all’uomo e si trasforma in trattato sociale. Non a caso oggi si raccolgono e si trasmettono con una foga persino eccessiva le omelie del pontefice mentre scivolano in secondo piano le sue celebrazioni. E’ un tic tipicamente moderno. Mentre un tempo lo splendore della liturgia faceva percepire come un’interruzione quasi fastidiosa il tempo pur breve di un sermone, oggi l’accento posto sul discorso fa sentire come invadente qualsiasi pretesa liturgica.
La nudità del discorso ha il sopravvento sulla velatura del rito. Ma il discorso, da solo, proprio perché nudo, non è capace di cogliere l’essenziale. La condizione dell’uomo che ha perduto lo stato di grazia con il peccato di Adamo lo rende inabile a tale compito. L’uomo, da solo, non è più in grado di percepire il senso ultimo delle cose e per questo la liturgia, fino a quando non si è arresa al fascino dei lumi, lo ha sempre aiutato rivestendo la materia che ha sotto gli occhi. La velatura diventa così il segno visibile del nimbo di Grazia e santità, divenuto invisibile agli occhi dell’uomo. Non vuole celare l’oggetto alla vista per farne un segreto. L’aspetto materiale delle cose velate è conosciuto, ma da solo non dice niente della loro natura ulteriore. A dirlo è invece il velo che le copre. E, se lo si fende e allo stesso modo si fendono gli altri veli che vi si sovrappongono, è un altro velo che si incontra: l’Ostia stessa, come canta un inno eucaristico molto popolare, “Sotto i veli che il grano compose”.
Forse è di questo splendore, umanamente inutile, ciò di cui ha urgentemente bisogno un mondo che ha smesso di usare l’intelligenza il giorno in cui ha perso il pudore.

mercoledì 30 ottobre 2013

Omelia di S. E. Mons. Filipazzi in occasione del 50° della promulgazione della "Sacrosanctum Concilium"


 Splendida omelia di S.E. Mons. Filipazzi, Nunzio Apostolico in Indonesia, per l'apertura della Conferenza nazionale in occasione dei 50 anni dalla promulgazione della Costituzione "Sacrosanctum Concilium" del Concilio Vaticano II. 
Da leggere assolutamente, da meditare. Deo Gratias!

a MAKASSAR il 15.10.2013


1. Questa Celebrazione Eucaristica apre la conferenza nazionale voluta per ricordare i 50 anni dalla promulgazione della Costituzione "Sacrosanctum Concilium" del Concilio Vaticano II. La celebrazione della Santa Messa accompagnerà e concluderà questi giorni di studio, riflessione e discussione. A tal riguardo, vorrei ricordare a tutti che la Santa Messa non è mai un atto secondario o solamente formale. 
            Non è un atto secondario rispetto alle conferenze e ai dibattiti di questi giorni. Infatti, la liturgia celebrata ha la precedenza sul suo studio, rimane infinitamente più grande e più importante di tutte le nostre considerazioni su di essa. La "Sacrosanctum Concilim" ci ha ricordato che "ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado" (SC, 7). Occorre coltivare tale consapevolezza di fede davanti alla liturgia, in modo da non ridurla mai a oggetto da manipolare a piacimento. Come rilevava Benedetto XVI, "purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana" (Discorso, 6 maggio 2011). Dobbiamo accostarci ad essa, sia quando la celebriamo sia quando la studiamo, con l'atteggiamento riverente di Mosè che si avvicina al roveto ardente, segno della presenza del Dio vivente.
            Allo stesso modo questa S. Messa non deve essere considerata un gesto formale, che si compie che si usa fare in occasione dei nostri incontri e nel corso delle nostre iniziative. Il fatto di aprire, condurre avanti e concludere questa conferenza liturgica con la Celebrazione Eucaristica richiama un altro insegnamento del Concilio Vaticano II, secondo il quale "la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia" (n. 10). Da questa sorgente di grazia che sono i Sacri Misteri celebrati dalla Chiesa deriva anche la luce e la forza per poter riflettere sulla liturgia e trarne opportune risoluzioni d'impegno. Allo stesso tempo, ciò che in questi giorni verrà detto e fatto dovrà tendere a che la liturgia sia sempre meglio celebrata e compresa e e possa portare frutto nella vita.
            "Il giusto per fede vivrà": nella prima lettura S. Paolo, citando il profeta Abacuc, ci ha ricordato che la fede è il principio che deve illuminare e guidare tutta la nostra vita, compresa la nostra conoscenza, anzitutto quando essa si esercita sulle realtà che riguardano Dio e la salvezza. Quindi se vogliono approfondire le realtà sacre, tale studio dev'essere guidato soprattutto dalla luce della fede. Che durante questa conferenza, ma poi sempre quando si riflette sulla liturgia, tutti siano sempre guidati dalla luce della fede, dono che invochiamo durante questa Santa Eucaristia!   

            2. Iniziamo questa conferenza nazionale celebrando la memoria di S. Teresa di Gesù, vergine e dottore della Chiesa.
            Fare memoria dei Santi sottolinea un'importante dimensione della liturgia, richiamata  dalla conclusione del Prefazio di ogni Messa: "... uniti agli Angeli e agli Arcangeli e a tutti i santi del cielo, cantiamo senza fine l’inno della tua lode: Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli" (Prefazio dei Santi, I).
            La Costituzione liturgica del Vaticano II ha così illustrato tale dimensione della liturgia: "Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l'inno di gloria; ricordando con venerazione i santi, speriamo di aver parte con essi; aspettiamo come Salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, egli che è la nostra vita, e noi saremo manifestati con lui nella gloria" (SC, 8).
            Nella liturgia il Cielo si affaccia sulla nostra terra (cfr. Benedetto XVI, Esor. Ap. Sacramentum Caritatis, 35), Dio in tutta la sua maestà si mostra a noi, e noi incontriamo Cristo "il più bello fra i figli dell'uomo". Papa Francesco ho ricordato che la "bellezza di quanto è liturgico... non è semplice ornamento e gusto per i drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio " (Omelia, Messa crismale 2013). Come la gloria di Dio si manifesta nella creazione (le perfezioni di Dio - dice S. Paolo ai Romani -,  "ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute"), così essa risplende nella preghiera ufficiale della Chiesa. È questo che rende bella la liturgia terrena della Chiesa, una bellezza che è intrinseca alla liturgia stessa e che non dipende in primo luogo dal nostro sforzo di renderla tale, ricorrendo magari a mezzi umani che non sono consoni alla liturgia stessa. Noi dobbiamo piuttosto permettere a questa bellezza divina di manifestarsi grazie al nostro modo di celebrare la liturgia. Fede, amore, silenzio, ordine, rispetto dei segni, dei gesti e delle parole liturgiche: tutti elementi necessari affinché possa essere percepita e vissuta l'intrinseca bellezza delle sacre celebrazioni.
            Purtroppo, si è diffusa la mentalità e la conseguente prassi per le quali la liturgia dovrebbe continuamente cambiare, dovrebbe adattarsi alle singole comunità, dovrebbe divenire interessante attraverso la nostra inventiva. Ma celebrazioni frutto di questa logica non manifesteranno la vera bellezza della Chiesa! Lo stesso bisogno di trovare sempre nuovi espedienti per rendere interessante la liturgia, indica quanto sia inconsistente ed effimera una bellezza creata da noi.
            Lo Spirito Santo illumini i lavori di questa conferenza nazionale e la vita liturgica in Indonesia affinché sempre più sia compresa la vera natura della bellezza della liturgia e tutti, ministri e fedeli, siano impegnati a farla risplendere in ogni celebrazione.        

            3. "Nella vita di S. Teresa ci offri un esempio, nell’intercessione un aiuto, nella comunione di grazia un vincolo di amore fraterno" (Prefazio dei Santi, I). Il culto dei Santi ci fa incontrare questi uomini e donne, che con noi formano l'unica Chiesa di Cristo, invitandoci ad imitarli e ad affidarci all'aiuto della loro intercessione presso Dio.
            In che cosa può ispirare l'esempio della grande Santa spagnola a questa conferenza sulla liturgia?
            La vita e l'opera di Teresa d'Avila si colloca in un'epoca segnata, da una parte, dalla Riforma protestante iniziata da Martin Lutero e, dall'altra, dalla Riforma cattolica, cioè la risposta della Chiesa cattolica alle esigenze di rinnovamento ecclesiale che si concretizzò soprattutto nell'opera del Concilio di Trento e nell'azione di tanti Santi e Sante di quel secolo. All'epoca della Santa carmelitana, dunque, si contrapponevano due tipi di riforma: una riforma che ha rotto l'unità visibile della Chiesa di Cristo e una riforma che ha prodotto, invece, una rifioritura di vita cristiana, i cui benefici influssi giungono fino a noi.  
            La storia ci mostra che quasi ad ogni epoca si fronteggiano nella Chiesa vere e false riforme. Anzi, all'interno di ogni processo di rinnovamento della vita ecclesiale, possono essere frammischiati elementi di vera riforma e altri che, invece, impoveriscono e deturpano il volto della Chiesa Occorre perciò individuare dei criteri per discernere fra vera e falsa riforma.
            Ora, tali criteri non possono essere soggettivi o meramente pragmatici, ma, essendo la Chiesa una realtà divino-umana, che si può conoscere veramente solo con la luce della Rivelazione divina, devono essere criteri di fede. Se guardiamo la bimillenaria esperienza della Chiesa se ne possono individuare alcuni. Ogni vero rinnovamento della Chiesa deve compiersi in piena adesione alla dottrina della Chiesa; va condotto avanti nel rispetto della struttura gerarchica e della disciplina della Chiesa; deve edificare la comunione e l'unità della Chiesa, evitando ogni tendenza disgregatrice; deve rispettare l'eredità spirituale e devozionale del passato; deve contrastare le tendenze della natura umana decaduta e gli influssi della mentalità mondana; deve essere realizzata con atteggiamento di pazienza e umiltà.
            Questi criteri devono guidare anche la realizzazione di quanto il Concilio Vaticano II ha stabilito cinquant'anni or sono circa la liturgia. Questo mezzo secolo ha visto luci e ombre, aspetti positivi e negativi nella vita liturgica della Chiesa; ciò dipende anche dal fatto che le indicazioni del Concilio non sono state sempre realizzate secondo tali principi di ogni vera riforma ecclesiale.
            Invece, se guardiamo alla vita e all'opera di S. Teresa di Gesù, vi ritroviamo la piena realizzazione di queste esigenze della vera riforma ecclesiale. Al termine della sua vita ella poté esclamare con ragione: "Sono una figlia della Chiesa", e per questo ella diede impulso ad un vero e duraturo rinnovamento. La sua intercessione ottenga che le riflessioni di questi giorni, ma soprattutto la vita liturgica delle comunità cristiane in Indonesia siano sempre fedelmente ispirate a questi criteri, in modo che "il popolo cristiano ottenga più sicuramente le grazie abbondanti che la sacra liturgia racchiude" (SC, 21).

            4. La colletta della memoria odierna ci ha ricordato che lo Spirito Santo ha "suscitato nella Chiesa S. Teresa d'Avila per indicare una via nuova nella ricerca della perfezione". La Chiesa ce la propone non solo come modello, ma anche come maestra di vita spirituale. Nel 1970 il Servo di Dio Paolo VI la proclamò - prima donna insieme a S. Caterina da Siena - dottore della Chiesa.
            Come ricordava quel Pontefice, dottrina di Teresa "sono i segreti dell'orazione": guidata dallo Spirito Santo, ella li ha conosciuti "per via di esperienza" e "ha avuto l'arte di esporli". Dunque, ella porta alla Chiesa e al mondo soprattutto "il messaggio dell'orazione" (Omelia, 27 settembre 1970).
            Per S. Teresa la preghiera è "un colloquio tra amici e una familiarità con Dio, con cui in segreto conversiamo sapendo di essere da lui amati” (La Vita, 8, 5) ed è incentrata sulla contemplazione della Santissima Umanità di Cristo.
            È interessante il fatto che lo stesso Paolo VI abbia messo in connessione questo messaggio di S. Teresa di Gesù, dottore della Chiesa, con l'attuazione della riforma liturgica promossa dal Vaticano II: "Il messaggio dell’orazione! Viene a noi, figli della Chiesa, in un’ora segnata da un grande sforzo di riforma e di rinnovamento della preghiera liturgica" (Omelia, 27 settembre 1970).
            Nel contesto di questa conferenza nazionale sulla liturgia, l'insegnamento di S. Teresa ci richiama che anche la preghiera ufficiale della Chiesa deve condurre alla "familiarità con Dio", dev'essere vero colloquio con Lui. Non si tratta di un'affermazione scontata, perché la preghiera liturgica è esposta al pericolo di restare solo esteriore.
            Il richiamo all'interiorità risuona continuamente nelle parole dei profeti dell'Antico Testamento. Il Signore Gesù ha chiesto molte volte ai suoi discepoli la sintonia delle parole e delle opere con l'atteggiamento interiore del loro cuore. Anche nel Vangelo di oggi Egli invita a vivere consapevoli che "Colui che ha fatto l’esterno" ha "fatto anche l’interno", per cui non basta la purezza esteriore.  
            Il Concilio Vaticano II, in sintonia con il Magistero dei Pontefici da San Pio X a Pio XII, ha raccomandato la "piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche" (SC, 14) da parte dei fedeli. Da allora molto si è discusso sul significato di tale partecipazione. Al riguardo, Benedetto XVI ha fatto rilevare che con "tale parola non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna durante la celebrazione" (Esor. Ap. Sacramentum Caritatis, n. 52). Purtroppo sappiamo bene quanto questa concezione riduttiva della partecipazione alla liturgia sia diffusa in teoria e in pratica.
            Va ribadito, come insegnava il Servo di Dio Pio XII, che "l'elemento essenziale del culto deve essere quello interno", perché, "diversamente, la religione diventa un formalismo senza fondamento e senza contenuto" (Enc. Mediator Dei). Per questo la "Sacrosanctum Concilium" chiede "la partecipazione attiva dei fedeli, sia interna che esterna" (n. 19); vuole che "i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d'animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano" (n. 11). La vera attuazione della riforma della liturgia deve quindi condurre tutto il popolo cristiano a pregare veramente nella liturgia e con la liturgia. Occorre che la liturgia sia guida e alimento della preghiera del cristiano, come anche auspicava il Movimento liturgico che ha preceduto la "Sacrosanctum Concilium". Per questa ragione in nome della preghiera liturgica non si può tralasciare né la preghiera personale, né i "pii esercizi" che dalla liturgia scaturiscono e alla quale riconducono (cfr. SC, 13).    
            Alla fine la vera realizzazione della riforma liturgica dipende da questo: se chi partecipa alla liturgia davvero prega sempre più con quella profondità di colloquio con Dio che oggi vediamo risplendere in S. Teresa. È significativo che il Beato Giovanni Paolo II, ricordando dieci anni or sono l'approvazione della "Sacrosanctum Concilium", abbia indicato questa priorità: "la pastorale liturgica... deve instillare il gusto della preghiera" (Lett. Ap. Spiritus et Sponsa, 14). Mi sembra un programma valido anche per questo incontro e per l'azione pastorale di tutta la Chiesa in Indonesia: dare il gusto della preghiera!                  

            5. Se volessimo riassumere le riflessioni finora fatte, potremmo dire che tutto nella liturgia, nella sua celebrazione e nel suo studio, esige la fede. La fede ci fa comprendere cos'è la liturgia e come dobbiamo celebrarla. La fede ci offre anche i giusti criteri per promuovere la vita liturgica dei fedeli e della comunità. È questa una verità che l'Anno della Fede, che stiamo celebrando, ci richiama con forza.
            In ogni Celebrazione Eucaristica la Chiesa invoca con questa fede dal Padre il dono dello Spirito Santo per santificare i doni del pane e del vino "perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo" e su di noi "perché diventiamo, in Cristo, un solo corpo e un solo spirito" (Preghiera Eucaristica III).
            Ogni opera di riforma autentica é anzitutto frutto dell'azione purificatrice e santificatrice dello Spirito Santo nelle anime. È stato Lui a trasformare i cuori di uomini e donne - i Santi - che hanno rinnovato la Chiesa e il mondo.             Fu così anche per S. Teresa, alla cui intercessione oggi affidiamo l'impegno di tutti nella Chiesa in Indonesia a celebrare e a vivere sempre più adeguatamente, cioè con viva fede, i santi misteri.
            Grazie a questa fede la grande Santa spagnola vedeva in ogni Santa Messa il rinnovarsi della presenza viva e salvifica del Signore Gesù nella storia dell'umanità, presenza pari a quella della Sua vita terrena: "Se, quando era nel mondo, il solo tocco delle sue vesti sanava gli infermi, come si può dubitare, avendo fede, che non farà miracoli così intimamente unito a noi, e non ci darà quanto gli chiederemo, trovandosi nella nostra casa?" (Cammino di perfezione, 34,8). Di sè scriveva: "Il Signore le aveva dato una fede così viva che quando udiva dire da alcuni che avrebbero voluto vivere al tempo in cui Cristo, nostro Bene, era in questo mondo, rideva dentro di sé, sembrandole che, se lo si possedeva nel santissimo Sacramento così realmente come allora, null’altro dovesse loro importare" (34,6).
            S. Teresa ci ricorda anche come un tale incontro col Signore esiga di essere ricambiato da parte nostra: "Sua Maestà pertanto ci usa una grande misericordia nel volere che ci rendiamo conto della sua presenza nel santissimo Sacramento. Ma farsi vedere apertamente, comunicare le sue grandezze e distribuire i suoi tesori, non vuol concederlo se non a coloro di cui scorge l’ardente desiderio che hanno di lui, perché questi sono i suoi veri amici" (34,13).     
            Chiediamo a S. Teresa di ottenerci questa fede e questo amore mentre celebriamo i sacri misteri oggi e ogni giorno! Amen.

Ss. Messe per i Santi e per i Defunti a Prato


Oratorio San Filippo Neri di Prato
Via della Chiesa di Santa Cristina 2 - Prato

Venerdì 1° Novembre,   ore 10.00
In Festo Omnium Sanctorum
S. MESSA CANTATA

Sabato 2 Novembre  ore 18.30
In Commemoratione Omnium Fidelium Defunctorum
S. MESSA DA REQUIEM CANTATA 

Domenica 3 Novembre, come ogni Domenica e giorno di precetto :
         la S. Messa cantata sarà regolarmente celebrata alle ore 10.00


Per gli orari delle S. Messe SPV celebrate nei giorni feriali;
Per affidare le intenzioni di Messa ( rigorosamente San Pio V, pro vivis et defunctis);
Per collaborare in vario modo ( associazionismo laicale, corale, organo, fiori, suppellettili e indumenti liturgici -quante meraviglie"dormono" dimenticate in sacrestie polverose..!) al sempre maggior decoro dovuto alla Santa Messa di sempre e alla diffusione dell'apostolato tradizionale...

CONTATTAREfr Paolo Maria della Croce 
tel. 0574. 59 53 92        



IOTA UNUM

La caduta di Papa Liberio e il trionfo di sant’Atanasio
di Cristiana de Magistris - Conciliovaticanosecondo.it

Nel 325 il Concilio di Nicea definì la consustanzialità (homooùsion) del Padre e del Figlio, ossia decretò che il Padre e il Figlio hanno la medesima natura divina. Il termine homooùsion era dottrinalmente perfetto per indicare la consustanzialità del Padre e del Figlio e confutare l’eresia ariana, secondo cui il Padre, ingenerato, non poteva condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria sostanza divina. Il termine homooùsion era dunque l’unica parola che gli ariani non potevano pronunciare senza rinunciare alla loro eresia e perciò divenne la cartina al tornasole dell’ortodossia cattolica.
Il Concilio di Nicea fu convocato dall’imperatore Costantino, il quale incoraggiò fortemente la definizione della consustanzialità del Padre e del Figlio. Sant’Ilario afferma che, al Concilio di Nicea, “80 vescovi rigettarono il termine consustanziale, ma 318 l’approvarono”. Di questi ultimi, però un buon numero sottoscrissero il Credo solo come un atto di sottomissione all’imperatore. M. L. Cozens commenta: “Uomini di mondo, essi non amavano la precisione dogmatica e volevano una formula che poteva esser sottoscritta da uomini con idee diverse, potendola interpretare in sensi diversi. Per costoro, tanto la fede precisa ed esatta di un Atanasio quanto l’ostinata eresia di Ario e dei suoi seguaci erano ugualmente intollerabili. Rispetto, tolleranza, liberalità: questo era il loro ideale della religione. Perciò essi proposero, invece del troppo definitivo ed inestirpabile homooùsion – della stessa sostanza –, il vago termine homoioùsion, di una “sostanza simile”. Essi […] usavano un linguaggio apparentemente ortodosso, proclamando di credere nella divinità di Nostro Signore, attribuendogli ogni divina prerogativa, anatemizzando tutti coloro che dicevano che Egli era stato creato nel tempo (Ario sosteneva che Cristo era stato creato prima del tempo): in breve, dicendo quanto di più ortodosso possa immaginarsi, salvo la sostituzione del loro homoioùsion con l’ homooùsion di Nicea”[1].
Sia tra i Vescovi che tra i fedeli si diffuse la convinzione che la distinzione tra i due termini (il cattolico homooùsion e l’ariano homoioùsion) stesse sollevando un conflitto inutile. Essi consideravano oltremodo dannoso dividere la Chiesa solo per un iota! Ma intanto i veri cattolici, tra i quali, in prima fila, sant’Atanasio, “con fermezza si rifiutarono di accettare qualunque dichiarazione che non contenesse l’homooùsion o di comunicare con coloro che lo negavano”[2].
Sant’Atanasio aveva ragione. Quella sola lettera, quell’iota, rappresentava la differenza tra la Cristianità fondata su Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto carne, e una religione fondata su un’altra creatura, perché negare la divinità di Cristo significa negare tutto il cristianesimo.
Atanasio fu per tutta la vita testimone e strenuo difensore dei principi stabiliti dal Concilio niceno, e per questa sua fermezza dovette subire diverse condanne all’esilio negli anni che vanno dalla sua nomina a vescovo e patriarca di Alessandria d’Egitto, nel 328, fino alla sua morte.
Dopo papa Giulio  I  (337-352), che sostenne coraggiosamente la fede di Nicea e la causa di Atanasio, l’ascesa al pontificato di papa Liberio (352) e quella quasi contemporanea (350) all’impero di Costanzo II, imperatore filo-ariano, ne segnarono la sorte.
Inizialmente Liberio appoggiò la causa di Atanasio e, a tal fine, chiese all’imperatore la convocazione di un primo Concilio ad Arles (353-354) ed un secondo – a più vasto raggio – a Milano (355). In entrambi, a causa delle pressioni dell’imperatore ariano, Atanasio fu condannato. Quando si impose per riabilitarlo, il Papa fu esiliato in Tracia (355) dove rimase 2 anni. E qui avvenne ciò che è passato alla storia come la “caduta di un Papa”.
Lo storico Filostorgio, nella sua Storia ecclesiastica, attesta che Liberio poté rinsediarsi a Roma solo dopo aver sottoscritto una formula di compromesso che rifiutava il termine homooùsion. San Girolamo, nella sua Cronaca, afferma che Liberio “vinto dalla noia dell’esilio, dopo aver sottoscritto l’eresia rientrò a Roma in trionfo”. Atanasio, verso la fine del 357, scrisse: “Liberio, dopo essere stato esiliato, tornò dopo due anni, e, per paura della morte con la quale fu minacciato, firmò” (la condanna dello stesso Atanasio) (Hist. Ar., XLI). Sant’Ilario di Poitiers nel 360 scriveva a Costanzo: “Io non so quale sia stata l’empietà più grande, se il suo esilio o la sua restaurazione” (Contra Const., II). Come osserva il Duchesne, quella di Liberio fu non solo “una debolezza”, ma piuttosto “una caduta”. Ecco la descrizione che ne dà il Butler: “[…] Liberio iniziò ad affondare sotto le sofferenze dell’esilio e la sua risoluzione (contro gli ariani e a favore di Atanasio, ndr) fu provata dalle continue sollecitazioni di Demofilo, vescovo ariano di Beroea, e di Fortunato, vescovo temporeggiatore di Aquileia. Ascoltando suggestioni e lusinghe  a cui doveva con orrore rifiutare di porger l’orecchio, egli si indebolì al punto di cedere alla tentazione con grave scandalo della Chiesa intera. Egli sottoscrisse la condanna di Atanasio e una confessione o un credo redatto dagli ariani a Sirmio, benché l’eresia non fosse espressa in esso. E scrisse ai Vescovi ariani orientali di aver ricevuto la vera fede cattolica che molti vescovi avevano approvato a Sirmio. La caduta di un tale prelato e un tale confessore è un terrificante esempio dell’umana debolezza, che nessuno può richiamare alla mente senza tremare. San Pietro cadde per una presuntuosa confidenza nella propria forza e nelle proprie risoluzioni, affinché noi imparassimo che si può stare in piedi solo con l’umiltà”[3].
Benché diversi storici abbiano tentato di scagionare e assolvere Liberio, un’autorità come il cardinal John Henry Newman non dubita di affermare che “la caduta di Liberio è un fatto storico”[4]. “Tutto fa pensare che Liberio abbia accettato la prima formula di Smirne del 351 (ossia un credo ariano, ndr)… egli peccò gravemente evitando deliberatamente l’uso del più caratteristico termine della fede di Nicea e in particolare dell’ homooùsion. Pertanto, benché non si possa dire che Liberio insegnasse una falsa dottrina, è necessario ammettere che, per timore e debolezza, non rese giustizia alla verità tutta intera”[5].
Ma la caduta di Liberio va considerata nel quadro della defezione generale della maggioranza dell’episcopato del tempo, cosa che fa risaltare ancora una volta l’eroismo di Atanasio. Nella V Appendice del suo “Ariani del IV secolo”, così riporta il cardinal Newman: A.D. 360: San Gregorio Nazianzeno afferma, più o meno in questo periodo: “I pastori hanno certamente fatto cose folli; poiché, a parte pochi, i quali o per la loro insignificanza furono ignorati, o per la loro virtù resistettero e furono lasciati come un seme e una radice per la rifioritura e rinascita di Israele sotto l’influenza dello Spirito Santo, tutti cedettero al compromesso, con la sola differenza che alcuni cedettero subito e altri dopo; alcuni furono campioni e guide nell’empietà e altri si aggregarono a battaglia già iniziata, succubi della paura, dell’interesse, delle lusinghe o – ciò che è più scusabile – dell’ignoranza (Orat. XXI.24).
Cappadocia. San Basilio afferma circa nell’anno 372: “I fedeli stanno in silenzio, ma ogni lingua blasfema è libera di parlare. Le cose sacre sono profanate. I laici davvero cattolici evitano i luoghi di preghiera come scuole di empietà e sollevano le braccia in preghiera a Dio nella solitudine, gemendo e piangendo” (Ep. 92). Quattro anni dopo aggiunge: “Le cose sono giunte a questo punto: la gente ha abbandonato i luoghi di preghiera e si è radunata nel deserto. È uno spettacolo triste. Donne e bambini, vecchi ed infermi, soffrono all’aria aperta, in inverno sotto la pioggia, la neve, il vento e le intemperie e, in estate, sotto un sole cocente: essi sopportano tutto ciò perché non vogliono aver parte al cattivo fermento ariano” (Ep. 242). E ancora: “Solo un peccato è ora gravemente punito: l’attenta osservanza delle tradizioni dei nostri Padri. Per tale ragione i buoni sono allontanati dai loro paesi e portati nel deserto” (Ep. 243).
Nella medesima Appendice, il cardinal Newman non  dubita di sottolineare come, durante la crisi ariana, la sacra tradizione fu mantenuta dai fedeli più che dall’episcopato, ossia – contrariamente alla norma – dalla Chiesa docta più che dalla Chiesa docens. Scrive: “Non è di poco rilievo il fatto che, benché dal punto di vista storico il IV secolo sia stato illuminato da santi e dottori quali Atanasio, Ilario, i due Gregori, Basilio, Crisostomo, Ambrogio, Girolamo e Agostino (tutti vescovi eccetto uno), tuttavia proprio in questo periodo la divina Tradizione affidata alla Chiesa infallibile fu proclamata e mantenuta molto più dai fedeli che dall’episcopato.  Intendo dire che […] in quel tempo di immensa confusione il dogma divino della divinità di Nostro Signore Gesù Cristo fu proclamato, imposto, mantenuto  e (umanamente parlando) preservato molto più dalla Ecclesia docta che dalla Ecclesia docens; che gran parte dell’episcopato fu infedele al suo mandato, mentre il popolo rimase fedele al suo battesimo; che a volte il Papa, a volte i patriarchi, metropoliti o vescovi, a volte gli stessi Concili[6] dichiararono ciò che non avrebbero dovuto o fecero cose che oscuravano o compromettevano la verità rivelata. Mentre, al contrario, il popolo cristiano, guidato dalla Provvidenza, fu la forza ecclesiale che sorresse Atanasio, Eusebio di Vercelli ed altri grandi solitari che non avrebbero resistito senza il loro sostegno. In un certo senso si può dire che vi fu una “sospensione temporanea”[7] delle funzioni della Ecclesia docens. La maggior parte dell’episcopato aveva mancato nel confessare la vera fede”.
La caduta di Liberio, la resistenza di Atanasio, la fortezza del popolo fedele al tempo dell’arianesimo costituiscono una lezione per ogni tempo. Ancora Newman, nel  luglio del 1859, scriveva sul Rambler: “Nel tempo dell’eresia ariana vedo un palmare esempio di uno stato della Chiesa nel quale, per conoscere la tradizione degli apostoli, bisognava ricorrere al popolo fedele, […] La sua voce perciò è la voce della tradizione”.
Questa voce ebbe in Atanasio una guida possente che non tollerava compromessi. Ai cristiani tiepidi non esitava a dire: “Volete essere figli della luce, ma non rinunciate ad essere figli del mondo. Dovreste credere alla penitenza, ma voi credete alla felicità dei tempi nuovi. Dovreste parlare della grazia, ma voi preferite parlare del progresso umano. Dovreste annunciare Dio, ma preferite predicare l’uomo e l’umanità. Portare il nome di Cristo, ma sarebbe più giusto se portaste il nome di Pilato. Siete la grande corruzione, perché state nel mezzo. Volete stare nel mezzo tra la luce e il mondo. Siete maestri del compromesso e marciate col mondo. Io vi dico: fareste meglio ad andarvene col mondo ed abbandonare il Maestro, il cui regno non è di questo mondo”[8].
La storia della crisi ariana è di sorprendente attualità. “Ciò che avvenne allora, più di 1600 anni or sono, si ripete oggi, però con due o tre differenze. Alessandria rappresenta, oggi, l’intera Chiesa, scossa nelle sue fondamenta; ed i fatti di violenza fisica e di crudeltà interessano un’altra sfera. L’esilio si cambia in un silenzio mortale e l’assassinio è sostituito dalla calunnia, pure mortale”[9]. Con queste parole monsignor Rudolf Graber, vescovo di Regensburg, già negli anni ’70 paragonava la complessa e devastante crisi del IV secolo con la silenziosa apostasia del nostro tempo.
Scrivendo ai tempi di Atanasio, san Girolamo stigmatizzò la crisi ariana con queste celebri memorande parole: “Ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est”, il mondo intero gemette e si meravigliò di trovarsi ariano. Il fatto più stupefacente del nostro tempo, in cui assistiamo ad un’autentica disgregazione del cristianesimo, assai peggiore dell’arianesimo, è che – salvo poche eccezioni – nessuno geme e nessuno sembra meravigliarsi. Al contrario, davanti al generale disfacimento, che nessun fedele dotato di senso comune può negare, si continuano ad intonare vecchi e nuovi peana in onore di una Chiesa finalmente uscita dalle catacombe, immemori che la crisi ariana iniziò proprio quando terminarono le persecuzioni.

La storia ariana si ripresenta ai nostri giorni in toni molto più drammatici. Nel IV secolo, “La Provvidenza mandò al mondo un siffatto uomo (Atanasio), mentre la bufera urlava sempre più forte e le colonne della Chiesa erano scosse e s’inclinavano, ed i muri santi minacciavano di crollare e sembrava che le potenze dell’abisso e le forze dell’alto facessero sparire la Chiesa dalla faccia della terra. Ma un uomo resistette come un macigno in mezzo ai marosi che s’infrangevano; un uomo fu sempre sulla breccia: Atanasio! Egli, Atanasio, brandì la spada di Dio sull’Oriente e sull’Occidente”[10]. Forse la vera tragedia del nostro tempo è quella di non avere un altro Atanasio.


[1] M. L. Cozen, A Handbook of Heresies, Londra 1960, pp. 35-36.
[2]
Ibidem.
[3]
A. Butler, The Lives of the Saints, Londra 1934, II, p. 10.
[4]
J. H. Newman, Arians of the Fourth Century, Londra 1876, p. 464 (traduzione nostra).
[5]
New Catholic Encyclopedia, New York 1967, VIII, 715, col. 2.
[6]
Newman non si riferisce a Concili ecumenici, ma a quei Concili che radunavano un ingente numero di Vescovi locali.
[7]
Newman spiega che con l’espressione “sopensione temporanea delle funzioni della Ecclesia docens” egli intende dire che “di fatto non vi fu alcuna autorevole pronunciamento della voce della Chiesa infallibile tra il concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381).
[8]
Cf K. Flam, Atanasio viene nella metropoli, in una fossa di belve, Breslavia 1930, p 84.
[9]
R. Graber, Sant’Atanasio e la Chiesa del nostro tempo, Brescia 1974, p. 29.

[10]
K. Kirch, citato da R. Graber, op. cit., p. 17.
 


Fonte: http://www.conciliovaticanosecondo.it/articoli/iota-unum-la-caduta-di-papa-liberio-e-il-trionfo-di-santatanasio/

martedì 29 ottobre 2013

Video del pontificale in San Pietro del Card. Hoyos per il Pellegrinaggio Populus Summorum PontificumPontificum

Sabato 26 ottobre 2013
Altare della Cattedra, Basilica di San Pietro
Pontificale in rito antico celebrato dal Sig.
Card. D. Castrillon Hoyos

Video del pontificale di Mons. Schneider per il Pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum: pontificale di S. E. Mons. Schneider

venerdì 25 ottobre 2013
Parrocchia Ss. Trinità dei Pellegrini FSSP - Roma
Pontificale di S. E. Rev.ma
Mons. A. Schneider

Anche agli Evangelici Italiani non piace molto lo stile Bergoglio...



... il che la dice tutta!
Anche gli evangelici storgono il naso davanti alle posizioni un po' troppo "liberali" del Papa (dalle definizioni sulla coscienza, la condanna del proselitismo, l'apertura a tutti gli uomini indipendentemente dalla loro fede in Cristo, e via dicendo).
E' ben inteso che le "critiche" al Papa da parte gruppi religiosi non cattolici non ci dovrebbero interessare punto, ma se i punti ambigui di Bergoglio (che sembrano contraddire la Sacra Scrittura) sono gli stessi che fanno perplimere noi cattolici... allora vuol dire che una base di fondamento, alle nostre osservazioni, sembra esserci.
Il malcontento degli Evangelici per alcune affermazioni di Papa Francesco, fatti i dovuti distinguo e considerati nella misura utile alle nostre posizioni di cattolici, è significativo e deve fare riflettere!
Roberto

L'AEI, su Papa Francesco 
da www.evangelici .net, del 16.10.2013

ROMA - Una presa di posizione evangelica sul pontificato di Papa Francesco: l'Alleanza evangelica italiana (Aei) dirama una nota che mette in guardia da «commenti evangelici tanto entusiastici quanto infondati» e il presidente dell'Alleanza italiana, unitamente ai presidenti delle Alleanze evangeliche spagnola, francese e polacca, invia una lettera ai leaders delle Alleanze europea e mondiale. Riportiamo interamente la nota diramata da Aei.

ROMA - Attenzione ai commenti evangelici tanto entusiastici quanto infondati: «Francesco mescola un linguaggio evangelico, la devozione mariana e le idee liberali». Questo è il cuore di una lettera firmata dai presidenti delle Alleanze evangeliche italiana, spagnola, francese e polacca e rivolta ai leaders delle Alleanze europea e mondiale.

A fronte dell'iniziale reazione positiva all'elezione di papa Bergoglio, dopo alcuni mesi di pontificato è possibile vedere con più chiarezza la traiettoria che sta seguendo Papa Francesco. La lettera, firmata da Giacomo Ciccone (AE Italiana), Jaume Llenas (AE Spagnola), Clément Diedrichs (Conseil national des évangéliques de France) e da Dwulat Wladyslaw (AE Polacca) riconosce che il papa usa un linguaggio che può sembrare "evangelico": parla, infatti, di "conversione", "rapporto personale con Cristo", "missione", eccetera. Tuttavia, parla anche di idee che appartengono alla vecchia teologia liberale che sembrava essere sepolta e che invece, paradossalmente, il papa ha riesumato: la coscienza individuale quale ultima istanza della verità, la presenza della grazia in tutte le persone indipendentemente dalla loro fede in Gesù Cristo, la condanna anche grossolana del "proselitismo". Il tutto condito da un marianesimo così ostentato e appariscente da far impallidire anche quello di un papa mariano come Giovanni Paolo II.

I leaders firmatari sottolineano, inoltre, che Papa Francesco parla di "cambiamento", "rinnovamento", eccetera, ma ciò significa per lui modificare la governance della Chiesa cattolica e i suoi atteggiamenti, non le dottrine che sono prive di sostegno biblico, se non contrarie alla Scrittura.

Come evangelici che vivono in contesti a maggioranza cattolici, i firmatari esprimono sostegno ai dialoghi col cattolicesimo improntati alla verità biblica e alla carità cristiana, ma anche preoccupazione per le reazioni acritiche che si sono levate nel mondo evangelico, soprattutto latino-americano, a seguito dell'elezione del primo papa latino-americano.

L'iniziativa, promossa dal presidente Aei, Giacomo Ciccone, ha riscontrato l'adesione dei colleghi spagnoli, francesi e polacchi e rappresenta un importante servizio per la chiarificazione di atteggiamenti evangelici al cattolicesimo che, se lasciati alla mercé di emozioni e di letture parziali, rischiano di stravolgere la comprensione biblica del cattolicesimo.

Roma, 16 ottobre 2013

Alleanza Evangelica Italiana
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lunedì 28 ottobre 2013

S. Messa da Requiem il 2 novembre a Pra d'Este (Pd)

2 novembre - ore  11:00

chiesa parrocchiale di Prà di Este, Padova.

orgranizzta dal  coetus fidelium Maria Regina Familiae

S. MESSA da Requiem per le anime di tutti i defunti
nella forma extraordinaria del Rito Romano 
con il rito dell'assoluzione del tumulo 

sarà presente la Schola cantorum Scriptoria.

sabato 26 ottobre 2013

Ss. Messe per Cristo Re, i Santi e i Defunti a Poggibonsi (Si)

Le Messe tridentine per la festa di Cristo Re,
di Tutti i Santi e della Commemorazione dei Defunti
alla Magione di Poggibonsi
e benedizione del fiume Staggia

Domenica 27 Ottobre, solennità di Cristo Re, alle ore 9,30 Don Camillo Magarotto della Diocesi di Rovigo celebrerà una solenne S. Messa nella Chiesa della Magione di Poggibonsi.
Dopo la Santa Messa una processione si dirigerà dalla Chiesa della Magione fino al ponte sul lo Staggia: da lì Don Magarotto traccerà quattro benedizioni ai quattro punti cardinali con la Reliquia della Santa Croce recitando gli “incipit” dei quattro Vangeli: è la benedizione contro le inondazioni impartita per la prima volta dal Cardinale Silvio Oddi per la festa di Cristo Re del 1994, dopo le terribili alluvioni del 1992 (1 metro e 80 di acqua e fango) e del 1993 (tre metri), con disastrose conseguenze per il patrimonio storico-artistico, rappresentato dal Castello della Magione, e per la perdita di preziose testimonianze d’arte e di arredo anche religioso e di importanti documenti.
         Venerdì 1° Novembre, solennità di Tutti i Santi, la S. Messa solenne sarà celebrata al consueto orario festivo delle ore 9,30.
Sabato 2 Novembre, Commemorazione dei Fedeli Defunti, una solenne S. Messa di Requiem sarà celebrata alle ore 18,30.
         Dal 1° all’8 Novembre il Sommo Pontefice concede l’Indulgenza Plenaria, applicabile solo per i Defunti, ai Fedeli Cattolici che visiteranno un Cimitero pregando, anche solo mentalmente, per i Defunti (Enchiridion Indulgentiarum).

Tutte le S. Messe nella Chiesa della Magione di Poggibonsi e di San Donato a Siena sono celebrate nella forma straordinaria del rito romano (tridentino).

Populus Summorum Pontificum: il papa saluta i pellegrini. Ecco ilmessaggio, letto da mons. Pozzo durante li pontificale in San Pietro


 SEGRETERIA DI STATO

A Sua Eminenza Reverendissima
il Sig. CArd. Dario Castrillon Hoyos
00120 Città del Vaticano 

In occasione del pellegrinaggio a Roma del Coetus Internationalis Summorum Pontificum nel contesto dell'Anno della Fede, Sua Santità Papa Francesco rivolge il suo cordiale saluto, auspicando che la partecipazione al devoto itineriario presso le tombe degli apostoli susciti fervida adesione a Cristo, celebrato nell'Eucarestia e nel Culto pubblico della Chiesa e doni rinnovato slancio alla testimonianza evangelica. 
Il Sommo Pontefice, invocando i doni del Divino Spirito e la materna protezione della Madre di Dio, imparte di cuore a Vostra Eminenza, ai presuli, ai sacerdoti e a tutti i fedeli presenti alla sacra celebrazione l'implorata benedizione apostoclia propiziatrice di pace e spirituale fervore

Arcivescovo Pietro Paroli, 
Segretario di Stato di Sua Santità

Pellegrinaggio Summorum Pontificum: il pontificale del Card. Hoyos

















Grazie all'Amico Luigi per le foto in tempo reale!