Nel
mese di agosto papa Francesco ha rilasciato una lunga intervista al
padre Antonio Spadaro S.I., pubblicata in settembre sulla Civiltà
Cattolica. Si tratta di un lungo testo nel quale vengono affrontate
tematiche tra loro molto varie e di spessore certamente diseguale.
Vorremmo compiere alcune osservazioni relativamente al concetto di fede
che emerge da tale scritto. Anche padre Spadaro, infatti, sottolinea
come tale tema sia da sempre molto presente nella riflessione di
Jorge Mario Bergoglio e come esso emerga parimenti nei discorsi del
neo-eletto pontefice: «Il
discorso di Papa Francesco è molto sbilanciato sulle sfide
dell’oggi. Anni fa aveva scritto che per vedere la realtà è
necessario uno sguardo di fede, altrimenti si vede una realtà a
pezzi, frammentata. È questo anche uno dei temi dell’enciclica
Lumen fidei».
Sono
necessarie due premesse.
1.
Si dirà che il metodo di estrapolare alcune frasi isolate dal
contesto è arbitrario, nonché incapace di render conto
dell'interezza del pensiero dell'autore. Rispondiamo che il carattere
"giornalistico" e composito del testo in esame permette
senz'altro di focalizzare l'attenzione su alcuni concetti
trascurandone altri, senza che ciò implichi necessariamente il
fraintendimento. Ogni periodo ha deve necessariamente avere in sé un
proprio significato che certamente potrà essere illuminato dal
contesto, ma che non cessa di essere significativo in se stesso.
Negare tale principio significa negare ogni valore alla comunicazione
umana.
2.
Si dirà ancora che il linguaggio di un'intervista colloquiale non
comporta la precisione di un testo dogmatico e, pertanto, è
suscettibile di diverse interpretazioni. Rispondiamo che il linguaggio
è un mezzo atto a comunicare il pensiero e, pertanto, deve pur
possedere un significato corrispondente alla mente dell'autore; se un
testo è passibile di interpretazioni divergenti ciò dipende o dalla
volontà dell'autore di renderlo ambiguo o dalla di lui incapacità
di renderlo chiaro; la responsabilità in ogni caso non risiede solo
nelle orecchie di chi ascolta, ma anche nella bocca di chi parla,
pertanto, fino a migliore interpretazione, pensiamo di avere il
diritto di esprimerci su un testo secondo le nostre personali
capacità apprensive, pur restando aperti ad eventuali possibili
chiarimenti.
Secondo
l'insegnamento irreformabile del concilio Vaticano I, l'atto di fede
è essenzialmente un atto dell'intelligenza umana illuminata
dall'azione dello Spirito Santo: «La
Chiesa cattolica professa che questa fede, che è l'inizio della
salvezza dell'uomo, è una virtù soprannaturale, con la quale, sotto
l'ispirazione e la grazia di Dio, crediamo che le cose da Lui
rivelate sono vere, non per la loro intrinseca verità individuata
col lume naturale della ragione, ma per l'autorità dello stesso Dio
rivelante, il quale né può ingannarsi, né può ingannare»
(Cost. Dei
Filius,
III).
Dio si è comunicato all'uomo attraverso la Rivelazione,
definitivamente compiuta in Cristo Signore; e tale comunicazione è
essenzialmente un atto intellettuale, poiché l'intelligenza è la
facoltà più alta dell'uomo e, conseguentemente, il luogo
privilegiato dell'incontro tra Dio e l'uomo. L'atto di fede consiste
nell'appropriazione intellettuale dell'immutabile Verità divina e si
esplicita nella professione di tale verità attraverso l'espressione
dogmatica. I dogmi, dunque, non coincidono con la Verità
soprannaturale, ma sono di essa espressione necessaria.
In questi
termini, ad esempio, mons. Antonio Livi descrive il valore
dell'espressione dogmatica e la connessione imprescindibile tra i
dogmi e l'atto di fede: «L’essenza del cristianesimo è il dogma,
ossia la formalizzazione della verità rivelata attraverso
l’intervento normativo (lex credendi) e pastorale (lex orandi, lex
operandi) del magistero ecclesiastico, intervento che nella storia
della Chiesa non è mai mancato. Anche ai nostri giorni, ogni
cattolico giustamente desideroso di sapere che cosa veramente si deve
credere per essere autentici Christifideles può conoscere facilmente
i termini essenziali del dogma, che si trovano esposti in forma
divulgativa ma rigorosa nel Catechismo della Chiesa Cattolica».
Tale
concezione dell'atto di fede, veramente e autenticamente cattolica,
sembra difficilmente reperibile nelle parole di papa Francesco;
l'atto di fede viene invece descritto in modo pressoché esclusivo
come un momento storico-esistenziale di incontro tra Dio e l'uomo che, per essere autentico, tende a prescindere dal contenuto veritativo-dogmatico della Rivelazione.
«La nostra non è una fede-laboratorio, ma una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».
Il
linguaggio è oggettivamente complesso. Sembra delinearsi un
contrasto insanabile tra "verità astratte", che
definirebbero una "fede-laboratorio" e la "storia",
luogo della "fede-cammino". Bisognerebbe sapere che cosa
esattamente si intende con l'espressione "verità astratte"
che, nel presente contesto, è evidentemente utilizzata in senso
dispregiativo. A ben vedere, infatti, la struttura conoscitiva
dell'uomo non può giungere al possesso di alcun genere di verità se
non per via di astrazione, a meno di non ammettere una conoscenza
umana per via di illuminazione interiore; ogni verità conosciuta
dall'uomo, dunque, è in sé astratta. Ma qui l'espressione sembra
usata secondo un'accezione differente, sembra cioè indicare una
"verità" che rimane lontana dalla vita concreta
dell'essere umano. Scopriamo così che le verità astratte, i dogmi,
sono potenzialmente pericolose in quanto capaci di sottrarre l'uomo
al cammino della storia per segregarlo in se stesso, in quella
dimensione di chiusura che il pontefice ha altrove definito
"autoreferenzialità".
Interpretazione
malevola, si dirà. Eppure tale interpretazione sembra trovare
numerose conferme.
«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa».
«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa».
L'eterno Iddio si rivela nel tempo. Fin qui non ci sono dubbi. «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb. 1, 1-2). Bisogna però aggiungere che, come ha sempre insegnato la Chiesa, la rivelazione storica di Dio si è definitivamente conclusa con la morte dell'ultimo apostolo e che essa è confluita nel depositum fidei custodito e trasmesso dalla Chiesa attraverso i secoli: «L'economia cristiana, in quanto è Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai e non c'è da aspettarsi alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo » (Dei Verbum, 4).
Le
parole del papa si prestano invece ad un'interpretazione opposta.
Sembra che la fede non consiste nel "ritenere" ciò che è
stato trasmesso, bensì nell'aprire la mente al mutevole scorrere del
tempo, quasi che la Verità soprannaturale si palesasse nelle vicende
umane dell'oggi più che nella Parola data una volta per sempre.
«C’è
infatti la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili.
Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha
lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”,
diciamo così, è oggi».
L'Incarnazione
del Verbo e la divina rivelazione, dunque, non sono "luoghi
concreti" dove l'uomo incontra Dio, ma sono semplici "impronte",
cioè segni che rimandano ad una verità ulteriore, la quale si
palesa nell'oggi. Sembra quasi che la duplice categoria di
"figura-realizzazione" che la teologia cattolica ha
costantemente utilizzato per descrivere il rapporto tra l'Antica e la
Nuova Alleanza, venga ora utilizzata indistintamente per delineare il
rapporto tra il passato e il presente; il passato – non importa se
in esso è compresa pure la rivelazione – è impronta, cioè figura
dell'oggi nel quale Dio si comunica incessantemente. Non si potrebbe
desiderare maggiore chiarezza: L'uomo incontra Dio non già
nell'appropriazione del "depositum fidei" per
intellectum fide illustratum,
bensì nel "processo storico in corso".
Le
conseguenze di tale concezione sono immense.
1.
La prima e più importante conseguenza è il "divenire perpetuo"
della rivelazione divina e con esso la mutevolezza implicita ad ogni
processo evolutivo.
Non si trova, evidentemente, l'affermazione esplicita secondo cui la verità è in divenire, ché tale affermazione apparirebbe bizzarra anche all'orecchio più distratto. Si trova tuttavia un surrogato di essa, cioè l'elogio dell'incertezza. Nel processo conoscitivo l'incertezza è causata o dalla mutevolezza dell'oggetto conosciuto o dall'incapacità del soggetto conoscente, ovvero dal concorso di entrambi. Il papa, tuttavia, attribuisce al soggetto conoscente l'infallibilitas in credendo:
Non si trova, evidentemente, l'affermazione esplicita secondo cui la verità è in divenire, ché tale affermazione apparirebbe bizzarra anche all'orecchio più distratto. Si trova tuttavia un surrogato di essa, cioè l'elogio dell'incertezza. Nel processo conoscitivo l'incertezza è causata o dalla mutevolezza dell'oggetto conosciuto o dall'incapacità del soggetto conoscente, ovvero dal concorso di entrambi. Il papa, tuttavia, attribuisce al soggetto conoscente l'infallibilitas in credendo:
«Il
popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella
storia, con gioie e dolori. Sentire
cum Ecclesia dunque
per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è
infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas
in credendo
mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che
cammina».
Dobbiamo
dunque concludere che l'incertezza sorge dall'oscurità dell'oggetto.
«Sì,
in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una
zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha
incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di
incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave
importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa
è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso
profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del
popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si
deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna
essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è
aperto alla conferma della consolazione spirituale». «Il rischio
nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la volontà di
esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è
qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento
corretto è quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo
per cercarlo sempre. E spesso si cerca a tentoni, come si legge nella
Bibbia. È questa l’esperienza dei grandi Padri della fede, che
sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo 11 della
Lettera agli
Ebrei.
Abramo è partito senza sapere dove andava, per fede. Tutti i nostri
antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da lontano…
La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è
tutto scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si
deve entrare nell’avventura della ricerca dell’incontro e del
lasciarsi cercare e lasciarsi incontrare da Dio».
La
condizione del cristiano credente, evidentemente, viene equiparata a
quella dei Patriarchi d'Israele, quasi che L'Incarnazione del Figlio
non avesse apportato nessuna novità e nessuna ulteriore certezza. La
fede è un immergersi nel processo storico-dinamico della propria
esistenza, sganciato da ogni riferimento al deposito della fede; la
ricerca della sicurezza dogmatica non solo è impossibile, ma è
addirittura volontà di autoaffermazione e sopraffazione della
"rivelazione diveniente", in una parola, è ciò che gli
antichi definivano un peccato di "ubris".
«Se
il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e
sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del
passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a
Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in
maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca
ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione
statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia
tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni
persona, Dio è nella vita di ciascuno»
2.
Una seconda conseguenza consiste nell'impossibilità di evitare la
contraddizione e, conseguentemente, nell'incapacità di dare
credibilità all'atto di fede.
Se
l'atto di fede, per essere autentico, deve essere emancipato dal
contenuto immutabile ed eterno del dogma per essere costantemente
aperto al processo evolutivo della storia, esso non potrà
rivendicare alcuna assolutizzazione, con la conseguenza di cadere in
contraddizione con se stesso. Ciò che incontro oggi non è ciò che
incontrerò domani, poiché, secondo il noto aforisma di Eraclito,
non si scende due volte nello stesso fiume.
Ecco
un esempio di contraddizione. Riportiamo le parole del papa a
proposito del Concilio Vaticano II:
«Il
Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della
cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che
semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta
ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un
servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una
situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di
continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la
dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata
propria del Concilio è assolutamente irreversibile».
Notiamo
anzitutto un' idea quanto meno inedita; da un lato si afferma che il
Vaticano II è una rilettura dell'Evangelo alla luce della cultura
contemporanea; dall'altro si dice che tale rilettura (rinnovamento)
viene dall'Evangelo stesso; sembrerebbe dunque doversi ammettere la
coincidenza tra "cultura contemporanea" ed "Evangelo",
il che dovrebbe perlomeno essere dimostrato.
A
prescindere da ciò, quello che appare veramente insolito è la
pretesa di attribuire la proprietà dell' "assoluta
irreversibilità" alla dinamica di lettura del Vangelo
attualizzata nell'oggi e propria del Concilio. Di quale "oggi"
stiamo parlando? In effetti, l'"oggi" non è altro che il
breve istante racchiuso tra ieri e domani e, secondo il pensiero del
papa, non può essere "cristallizzato". Perché mai il
Vaticano II dovrebbe fare eccezione? «C’è infatti la tentazione
di cercare Dio nel passato (...) Ma il Dio “concreto”, diciamo
così, è oggi». Immersi nel medesimo divenire della storia
sarebbero "cristallizzati e autoreferenziali" sia coloro
che si appellassero a Nicea sia coloro che si appellassero al
Vaticano II; chi potrebbe negare che il 2013 è assai differente al
1960? Il papa ci informa che i discorsi da lui pronunciati a Rio de
Janeiro sono già passati: «Quel che ho detto a Rio ha un valore
temporale. C’è infatti la tentazione di cercare Dio nel passato».
Che dire dunque di un Concilio celebrato oltre mezzo secolo fa? Ad
esempio, che cosa può dire all'uomo di oggi una costituzione
pastorale che parla agli uomini degli anni '50? Che cosa dirà al
seminarista di oggi un decreto che parla ai seminaristi e ai
superiori della Chiesa cosiddetta "pacelliana"?
3.
Il concetto di atto di fede incide necessariamente sulla
spiritualità.
«L’aura
mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il pensiero. Il
gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero
aperto. Ci sono state epoche nella Compagnia nelle quali si è
vissuto un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che
mistico: questa deformazione ha generato l’Epitome
Instituti»
Il
papa si riferisce particolarmente alla spiritualità del gesuita, ma
tali considerazioni possono valere per ogni cristiano. La distinzione
tra "fede dogmatica" e "fede storico-dinamica"
trova un parallelo nella teologia spirituale; alla "fede
dogmatica" corrisponde la dimensione "istruttivo-ascetica",
caratterizzata da un pensiero chiuso e rigido, mentre alla "fede
storico-dinamica" corrisponde la dimensione o aura "mistica",
caratterizzata da un pensiero "incompleto" non già nel
senso di "difettoso", bensì non definito da limiti
precisi, aperto e "in divenire". Siamo nuovamente in
presenza di un pensiero nuovo e affrancato dal linguaggio dalla
teologia spirituale tradizionale.
Gli
autori cattolici non hanno mai posto in antitesi l'ascetica e la
mistica, bensì hanno sempre ritento questi due aspetti egualmente
necessari alla vita di perfezione cristiana. L'ascesi conduce
l'anima, per le vie purgativa e illuminativa, alla contemplazione
acquisita; la mistica la solleva per la via contemplativa fino al
matrimonio spirituale.
Scopriamo
invece che la mistica è uno stato che chiunque può vivere senza
alcuna preparazione; esso non si raggiunge attraverso l'ascesi, ma si
sceglie in alternativa a questo.
Una
nuova concezione dell'atto di fede sta infatti alla base di una nuova
concezione della perfezione cristiana. Come l'atto di fede non
consiste nell'adesione dell'intelletto elevato dalla grazia alla
verità immutabile di Dio, ma nell'esperienza di Dio nel divenire
della storia, così la vita di perfezione cristiana non consiste
nell'uscire da se stessi (ascesi) per lasciarsi inabitare da Dio
(mistica), bensì nel (pensare di) vivere a contatto con Dio
semplicemente nella propria condizione.
«Ignazio
è un mistico, non un asceta. Mi arrabbio molto quando sento dire che
gli Esercizi spirituali sono ignaziani solamente perché sono fatti
in silenzio. In realtà gli Esercizi possono essere perfettamente
ignaziani anche nella vita corrente e senza il silenzio. Quella che
sottolinea l’ascetismo, il silenzio e la penitenza è una corrente
deformata che si è pure diffusa nella Compagnia, specialmente in
ambito spagnolo. Io sono vicino invece alla corrente mistica, quella
di Louis Lallemant e di Jean-Joseph Surin. E Favre era un mistico».
Il
papa si "arrabbia" quando sente parlare di ascesi a
proposito della spiritualità di sant'Ignazio; chissà cosa avrebbero
detto san Francesco d'Assisi, santa Teresa d'Avila e lo stesso
sant'Ignazio se fosse stato loro comunicato che ascesi, silenzio e
preghiera sono elementi deformanti della spiritualità cristiana e
non conducono in alcun modo all'unione mistica con Dio. Probabilmente
avrebbero sussultato; ma il loro "oggi" è tramontato, e
l'"oggi" di oggi vuole diversamente.
Non
ci resta che pregare affinché quest'oggi tramonti in fretta e lasci
spazio ad un domani più conforme alla fede di sempre.
DR
per MiL
per MiL