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giovedì 3 novembre 2011

Perché il latino è così importante per il futuro della Chiesa (II parte)

Parte II

I mutamenti linguistici delle lingue vive

Il miglior testo che io abbia mai letto sul linguaggio e questioni annesse è l’inestimabile Autorità e uso della lingua di David Foster Wallace (2), estremamente interessante seppur dalla lettura non sempre agevole (3), e sul quale fondamentalmente si basano le considerazioni che qui di seguito vado ad esporre. Il testo di DFW parte come recensione all’ennesima guida sull’uso della lingua inglese americana per poi diventare una geniale disamina del dibattito ideologico-lessicografico tra le due grandi scuole di pensiero contrapposte, ivi definite come Prescrittivisti e Descrittivisti, che sarebbero un po’ come (questo paragone è mio) i giusnaturalisti e i giuspositivisti del linguaggio.
I Prescrittivisti credono che nella lingua ci siano delle regole da rispettare e queste regole abbiano una validità “intrinseca”. Un errore resta un errore anche se diffuso, una forma corretta è corretta anche se in disuso. DFW medesimo è un Prescrittivista ovvero, come ironicamente si autodefinisce, uno Snob (che poi è la percezione diffusa che i Descrittivisti hanno dei Prescrittivisti).
I Descrittivisti, o linguisti strutturali, sostengono invece che nella lingua non ci sono regole o norme, ma solo comportamenti che non sono corretti o scorretti ma solo più o meno diffusi (4). L’errore di oggi è la regola di domani. La loro visione del linguaggio è consapevolmente basata su un approccio laicista e scientista e positivista e postmoderno.
È importante notare che DFW non fa mistero della sua opposizione verso il Descrittivismo, del quale si perita di smontare tutti i presupposti di fondo(4), e però su un punto i Descrittivisti hanno ragione: la lingua cambia davvero. Continuamente. Basterebbe sfogliare i più remoti dizionari per accorgersi di come sovente l’errore diventa regola.
La soluzione esposta da DFW per uscire dall’impasse della cd. Guerra d’uso tra Prescrittivisti e Descrittivisti è a suo modo geniale, e passa per l’enucleazione del concesso stesso di linguaggio nonché di quello che è il vero problema di fondo della Guerra d’uso, cioè l’Autorità. Chi è che in sostanza decide la forma corretta del parlare e dello scrivere? I Descrittivisti, fedeli alla propria logica post-moderna post-metafisica post-sessantottina, rispondono nessuno, no autorità, dio è morto, vietato vietare; ai Prescrittivisti, non potendo evocare l’immagine metafisica di un dio-della-grammatica (5), scartata altresì l’ipotesi inapplicabile oltre che ingiusta di una coercizione giuridico-sociale (6+7), non resta che fondare l’Autorità linguistica sulla meravigliosa rivelazione che a pensarci bene le regole linguistiche sono utili, perché i nostri progenitori le hanno inventate per motivi eminentemente pratici quali la sopravvivenza dell’umanità(8), perché “l’argomento Descrittivista si presta all’obiezione che il suo scopo finale – l’abbandono di regole e convenzioni linguistiche artificiali – renderebbe la lingua stessa impossibile. Impossibile come in Genesi 11, 1-10, letteralmente una Babele” (pag. 96).
In questo modo DFW vivifica il concetto di tradizione linguistica: noi non parliamo così semplicemente perché sì, poiché i nostri padri parlavano così ed essi parlavano così poiché i loro padri parlavano così ed eccetera eccetera; noi parliamo così perché i nostri padri avevano buone ragioni per parlare così e perciò ci hanno insegnato a parlare così. E se noi vogliamo modificare il nostro modo di parlare, bisogna farlo sulla base di meditate e motivate buone ragioni altrettanto o maggiormente valide.
Pertanto, il cambiamento linguistico è inevitabile, vuoi sregolato e caotico e a rischio Babele nella visione Descrittivista, vuoi frenato e disciplinato nella visione Prescrittivista, ma comunque inevitabile.


segue

ClaudioLXXXI



NOTE



(2) Contenuto nella raccolta Considera l’aragosta, pagg. 70 – 138 nell’edizione Einaudi Stile libero anno 2005. Se avete a che fare per mestiere con le parole e il linguaggio, LEGGETELO. Se siete interessati per hobby alle parole e al linguaggio, LEGGETELO. Se non volete aver niente a che fare con le parole e il linguaggio, LEGGETELO comunque ché male non vi fa. Il titolo completo del saggio è Autorità e uso della lingua (ovvero, “Politica e lingua inglese” è ridondante), riferito a Politics and the English Language che è un saggio di George Orwell considerato una pietra miliare sull’argomento, da DFW ripreso e citato esplicitamente (pag. 127 nota a piè pagina 67). Io ho letto entrambi e non vorrei scandalizzare nessuno se dico che il saggio di DFW è ancor più definitivo di quello di Orwell.
(3) Poiché DFW, requiescat in aeternum e che Dio lo perdoni per essersi suicidato e aver lasciato incompiuto The Pale King, aveva uno stile di scrittura unico e incommensurabile intriso di interpolazioni e digressioni e note a piè pagina e note delle note a piè pagina e parentetiche nelle parentetiche e così via. Infatti non è un caso se anche questo post ha le note e le note delle note, perché i debiti si pagano.
(4) A pag. 90, DFW riporta dall’introduzione di Philiph Gove al Webster’s Third New Internationl Dictionary i cd. 5 principi di base del Descrittivismo: “1. La lingua cambia costantemente; 2. Il cambiamento è normale; 3. La lingua parlata è la lingua; 4. La correttezza poggia sull’uso della lingua; 5. Ogni uso della lingua è relativo.”

Cfr. altresì l’introduzione di Charles Fries al The American College Dictionary (citata da DFW a pag. 94): “Un dizionario può essere un’«autorità» solo nel senso in cui può esserlo un libro di chimica o fisica o botanica: per la precisione e la completezza nel registrar i fatti osservati all’interno dell’ambito esaminato, secondo gli ultimi principi e tecniche di quella particolare scienza.”
(5) E invero le critiche che DFW muove ai Descrittivisti e alla loro visione laicista-relativista-scientista del linguaggio sono così acute ed efficaci che esse, a ben vedere, possono essere rivolte anche al laicismo-relativismo-scientismo tout court *a*. Leggere per credere: l’inversione regola-comportamento per la quale non dovrebbero essere le regole a determinare i comportamenti ma i comportamenti a determinare le regole *b*, da cui deriva la falsa ed asserita neutralità nell’osservazione dei fenomeni sotto cui si cela una ben precisa faziosità ideologica *c*, da cui deriva il rifiuto sessantottino dell’autorità codificata che alla fine porta non già all’impossibile distruzione di ogni autorità tout court ma bensì all’edificazione di un’autorità non-codificata, perciò meno riconoscibile, perciò assai più subdola e pericolosa (vedi la nota 7).
a. Cosa vieppiù interessante se si considera che David Foster Wallace non era assolutamente un cattolico tradizionalista, ma un agnostico cristianeggiante oppure un cristiano agnosticheggiante (devo ancora capire quale delle due, ma forse non c’è una risposta univoca). b. “Quello che [Gove] vuole suggerire [con il principio 4] è un capovolgimento del tradizionale rapporto di inalienabilità fra regole astratte e uso concreto: invece di avere un uso che corrisponde idealmente a una serie rigida di regole, le regole dovrebbero corrispondere al modo in cui le persone vere usano effettivamente la lingua. Ma quali persone? Gli ispanici delle città? I brahmini di Boston? I campagnoli del Midwest? I neogaelici degli Appalachi?” (pag. 91)

“La verità è che i linguisti strutturali come Gove e Fries non sono degli scienziati: sono dei sondaggisti che fraintendono l’importanza dei «fatti» registrati. Quelli che osservano e catalogano non sono fenomeni scientifici, ma piuttosto una serie di comportamenti umani, e molti comportamenti sono – diciamocelo – demenziali. Provate per esempio a immaginare un «autorevole» manuale di etica i cui principi fossero basati su quello che fa la maggior parte della gente” (pag. 97, peraltro qui DFW o è ironico o ha un attacco di incredibile ingenuità + cecità selettiva, perché è almeno dall’epoca del rapporto Kinsey che siamo costantemente bombardati dalla propaganda per un’etica relativistica basata sul puro comportamento - “ma che male c’è lo fanno tutti”)

N.B. Queste osservazioni andrebbero altresì estrapolate dal contesto strettamente linguistico e rivolte a tutta quella generazione di teologi morali da strapazzo à la Hans Kung che hanno abbandonato Dio per idolatrare il consensus gentium e che progressivamente si riducono, visto che la gente non fa ciò che predicano, a predicare ciò che la gente fa. c. “Il principio (5) pare sottintendere che la risposta giusta al suddetto «quali persone» sia: tutte. Ed è facile dimostrare che non regge come principio lessicografico. Non tutto può finire nel Dizionario. Non si può davvero osservare e registrare ogni minimo frammento del «comportamento linguistico» di ogni singolo madrelingua, e se anche si potesse il dizionario peserebbe due milioni di chili e dovrebbe essere aggiornato ogni ora. Qualsiasi autentico lessicografo è costretto a praticare delle scelte su cosa includere e cosa no. E queste scelte si basano su… cosa?” (pag. 91)
N.B. Di nuovo, queste osservazioni andrebbero estrapolate dal contesto strettamente linguistico e rivolte a tutta quella filosofia politica à la Habermas che sostiene un’illusoria “neutralità” delle istituzioni pubbliche rispetto a tutte le religioni e tutti i valori e tutte le weltanschauung, e dunque la rimozione di tutto ciò che è percepito come ideologicamente parziale (v. es. la sentenza CEDU sul crocifisso in aula). In realtà l’applicazione di questo paradigma della neutralità apparente porta alla supremazia pseudo-tirannica di una specifica visione del mondo che si traveste da neutralità e s’impone dopo aver fatto fuori tutte le altre visioni del mondo.
(6) “[le regole] non si trovano «là fuori» a fluttuare qua e là in una specie di iperrealtà metafisica (un’iperrealtà fluttuante in cui potete credere se vi va, sappiate però che chi crede in roba del genere di solito viene costretto a prendere degli psicofarmaci)” dixit DFW a pag. 96.
(7) Qui si toccano alcune importantissime questioni sociopolitiche connesse all’uso del linguaggio, posto che “la lingua in cui gli odierni movimenti socialista, femminista, per i diritti delle minoranze, gay e ambientalista esprimono la loro posizione all’interno del dibattito politico è pervasa dalla convinzione Descrittivista che l’inglese tradizionale sia stato ideato e perpetuato da Maschi privilegiati WASP (che di fatto è vero) e sia quindi automaticamente capitalista, sessista, razzista, xenofobo, omofobico, elitario” pag. 88.

La guerra Descrittivista contro la grammatica coercitiva è intimamente connessa alla lotta politica contro la supremazia WASP *a*. Eppure, nota DFW, da queste premesse ideologiche di marca liberale è peraltro sorto il più odioso e ipocrita Prescrittivismo linguistico che si sia mai visto, quello del Politicamente Corretto, i cui divieti e comandi linguistici (es. disabile = diversamente abile, povero = economicamente svantaggiato, etc.) ormai permeano completamente e inflessibilmente la maggior parte delle scuole e aziende americane e guai a coloro che sgarrano, il che è definito da DFW “ironia lenin-stalinesca” *b* pag. 120.

a. Sta per White Anglo-Saxon Protestant. DFW racconta che nella sua esperienza di insegnante d’inglese al college, per aver invitato alcuni suoi studenti afroamericani brillanti ma un po’ sgrammaticati a sforzarsi di non usare nel contesto scolastico le forme dialettali dello slang afroamericano ma a cercare di imparare e padroneggiare l’inglese standard corretto – perché esso è de facto la lingua in cui parlano i detentori del potere in America e perciò una strada praticamente obbligata per accedere a una buona carriera e posizione sociale e tutto quanto – ovvero per aver concretamente provato a insegnare l’inglese nel suo corso di inglese, è stato accusato di essere razzialmente insensibile e fatto oggetto di un reclamo didattico all’ufficio disciplinare di facoltà. Leggere per credere pagg. 118 e 126.

b. In realtà, aggiungo io, tale ironia non è altro a ben vedere che l’ennesima eterogenesi dei fini (nell’accezione usata da Augusto Del Noce), di cui è permeata tutta la mentalità rivoluzionaria moderna.
(8) In effetti l’ipotesi di una grammatica normativa nel senso giuridico del termine, ovvero proprio imposta per legge, non è così peregrina come sembra: DFW forse non lo sapeva quando ha scritto il saggio (1999), ma con la Riforma ortografica tedesca del 1996 la Germania e altri paesi germanofoni hanno, per quanto folle possa sembrare, stipulato un accordo internazionale per cambiare alcune regole grammaticali della lingua tedesca. Forse solo nella patria di Lutero e di Kelsen e delle SS, in una cultura storicamente votata all’obbedienza all’autorità costituita fino all’estremo (“Meine Ehre heißt Treue”), si poteva concepire di cambiare la lingua per legge – trovo peraltro consolante sapere che la cosa non è avvenuta senza fortissime contestazioni e proteste – per maggiori informazioni vedi lo sfogo di una studentessa disgraziata che ha dovuto studiare prima il tedesco vecchio e poi il tedesco nuovo.

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