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Elenchi dei Vescovi (e non solo) pro e contro Fiducia Supplicans #fiduciasupplicans #fernández

Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

domenica 31 luglio 2011

Cardinal Cañizares: è raccomandabile comunicarsi in bocca e inginocchiati

Un'interessantissima e importante intervista ad ACIPRENSA del Prefetto per il Culto Divino.

Visti i chiari di luna - raccontati anche nei post di alcuni giorni fa (vedi qui e qui)- delle ordinarie vessazioni nei confronti dei fedeli che ricevono la S. Comunione in ginocchio e in bocca, queste dichiarazioni di colui che nella Chiesa gestisce le indicazioni del S. Padre sulla liturgia sono veramente confortanti.


Inter alia indiscrezioni parlano di un documento della stessa Congregazione - in preparazione - appunto sulle modalità di ricezione della S. Comunione (....in ginocchio e in bocca come fa il S. Padre): oremus!


Ringraziamo l'amico Stefano per la traduzione dallo spagnolo



Nell’intervista concessa ad ACI Prensa, il Prefetto della Congregazione vaticana per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, cardinal Antonio Cañizares Llovera ha raccomandato che i cattolici si comunichino in bocca e inginocchiati.
Così si è espresso il porporato spagnolo che è al servizio della Santa Sede come supremo responsabile, dopo il Papa, della liturgia e dei sacramenti, nella Chiesa cattolica, alla domanda circa l’opportunità che i fedeli si comunichino, o no, sulla mano.
La risposta del cardinale è stata breve e chiara: “è raccomandabile che i fedeli si comunichino in bocca e inginocchiati”.
Inoltre, rispondendo alla domanda di ACI Prensa sulla consuetudine promossa dal Papa Benedetto XVI di amministrare, a quanti si comunicano da lui, l’Eucaristia in bocca e in ginocchio, il cardinal Cañizares ha detto che questa è dovuta “al senso che deve assumere la comunione, che è adorazione, riconoscimento di Dio”.
“Si tratta semplicemente di sapere che stiamo al cospetto di Dio stesso e che Lui è venuto a noi e noi non lo meritiamo” ha affermato.
Il porporato ha detto anche che comunicarsi in questo modo “è il segno di adorazione che è necessario recuperare. Io credo che sia necessario in tutta la Chiesa che la comunione si riceva in ginocchio”
“Infatti – ha aggiunto – se ci si comunica in piedi, bisogna genuflettersi o inchinarsi profondamente, cosa che non viene fatta”.
Il prefetto vaticano ha detto, inoltre, che “se banalizziamo la comunione, banalizziamo tutto e non possiamo perdere un momento tanto importante, come la comunione, come riconoscere la presenza reale di Cristo , del Dio che è amore degli amori come cantiamo in una canzone spagnola”.
Alla domanda di ACI Prensa sugli abusi liturgici in cui incorrono alcuni attualmente, il cardinale ha detto che è necessario “correggerli, soprattutto mediante una buona formazione: formazione dei seminaristi, formazione dei sacerdoti, formazione dei catechisti, formazione di tutti i fedeli cristiani”.
Questa formazione, spiegò, deve far sì che “si celebri bene, che si celebri conformemente alle esigenze e alla dignità della celebrazione, in conformità alle norme della Chiesa, che è l’unico modo per celebrare autenticamente l’Eucaristia”.
Infine il cardinal Cañizares ha detto ad ACI Prensa che in questo compito di formazione per celebrar bene la liturgia e correggere gli abusi, “noi vescovi abbiamo una responsabilità molto specifica e non possiamo trascurarla poiché tutto ciò che facciamo affinché l’Eucaristia sia ben celebrata servirà a far sì che l’Eucaristia sia ben partecipata”.

sabato 30 luglio 2011

Bocciata la legge omosessualista



di Marco Invernizzi
La Bussola 28-07-2011

Non è vero che non ci siano mai “buone notizie” nella nostra Italia di oggi, così malandata da tanti punti di vista. La nuova bocciatura, il 26 luglio, del progetto di legge (293 sì contro 250 no e 21 astenuti) che prevedeva un’aggravante per i reati di omofobia e transfobia è una buona notizia. Per diversi motivi.
Intanto perché ferma per la terza volta un progetto di legge che era orientato non tanto a “proteggere” una categoria, omosessuali e transessuali, ma a riconoscere l’omosessualità e la transessualità come qualcosa di particolarmente prezioso, che deve essere prima “normalizzato” e poi addirittura valorizzato. In sostanza, la posta in gioco non era e non è impedire violenze contro gli omosessuali (bastano le leggi vigenti), ma affermare che ogni orientamento sessuale ha identico valore, e gridare allo scandalo ogniqualvolta qualcuno afferma, come fa il Catechismo della Chiesa Cattolica, per esempio, che gli atti omosessuali sono oggettivamente disordinati (nn. 2357-2359). Insomma, era abbastanza evidente che questo progetto di legge avrebbe dovuto preludere al riconoscimento pubblico del matrimonio gay e all’adottabilità per legge di figli da parte di coppie omosessuali. Soprattutto, quanto accaduto era una delle manifestazioni di una grande battaglia culturale che attraversa da secoli tutto l’Occidente fra chi afferma e chi nega l’esistenza di una legge naturale. Soltanto se abbiamo presenti le caratteristiche di questa grande battaglia culturale possiamo comprendere il valore di quanto avvenuto in Parlamento con la bocciatura del progetto di legge sull’omofobia. Perché se esiste una natura, esiste una legge universale uguale per tutti, esiste un modello di famiglia, esiste un diritto sacro alla vita per ogni essere umano, che sia all’inizio o al termine del suo cammino. Ma se non esiste una natura creata, che si manifesta anche attraverso la sessualità, allora tutto è veramente possibile e ogni desiderio dell’uomo deve essere autorizzato e valorizzato, perché non esiste più né vero né falso, né bene né male.
Ora, avere fermato questo itinerario, non per sempre certamente ma su un punto importante, è stata una entusiasmante e importante vittoria della cultura della vita e della famiglia. Però, bisogna anche aggiungere, se ne sono accorti in pochi. Non solo le forze politiche della maggioranza di centro-destra non si sono prodigate in gesti di soddisfazione, ma gli stessi quotidiani del centro-destra sono sembrati quasi intimiditi di fronte alla vittoria parlamentare, come se dovessero giustificare il fatto di avere assunto posizioni di questo tipo.
Gli interventi di Giancarlo Loquenzi su il Giornale e di Giordano Tedoldi su Libero a commento della bocciatura certamente non lasciano trasparire il risentimento e la rabbia di altri quotidiani laicisti per un provvedimento qualificato come oscurantista, ma sembrano quasi intimoriti dalla vittoria, preoccupati dei diritti dei gay e lontani dall’aver compreso la portata culturale e morale dello scontro. Ma vi è chi onestamente possa ancora pensare che oggi in Italia è minacciato il diritto di essere omosessuale e di vivere apertamente questa condizione?
Inoltre, la bocciatura in Parlamento ha evidenziato l’esistenza di una maggioranza politica più estesa della stessa maggioranza governativa. Non è un successo da sottolineare? Non è importante ricordare che sui principi non negoziabili la maggioranza si allarga all’Udc, anche se perde il sostegno dell’on. Santo Versace, assiste all’incomprensibile astensione dell’on. Claudio Scajola e a quella, prevedibile dopo aver sponsorizzato il progetto, del ministro Mara Carfagna? Non è importante affermare che il governo si sa compattare quando sono in gioco i valori fondamentali della nostra civiltà, così come avvenne per tentare di difendere la vita di Eluana?
Invece purtroppo questo non accade e riappare con evidenza la debolezza culturale delle forze politiche del centro-destra e del loro retroterra informativo. Una debolezza che potrebbe nascere dall’esistenza di orientamenti culturali diversi all’interno di partiti e giornali, oppure dalla mancanza di personale adeguato a condurre questa battaglia di idee più che di scontro di poteri, oppure per altri motivi che non conosciamo. Ma certamente questa debolezza esiste ed è un problema. Essa non permette neppure di utilizzare come boccate di ossigeno in un periodo particolarmente avaro di soddisfazioni per la maggioranza quelle vittorie che pure arrivano, ogni tanto. Siamo tra i pochi Paesi europei che sono riusciti a impedire l’introduzione di una legge che avrebbe discriminato la maggioranza eterosessuale del Paese e avviato un ulteriore passaggio contro il matrimonio e la famiglia. Siamo riusciti a mandare un messaggio importante agli abitanti di tutta Europa: in Italia il matrimonio è cosa di un uomo e di una donna. Punto. Dovrebbe essere un motivo di fierezza e di orgoglio, non di atteggiamenti preoccupati e sempre sulla difensiva.

Livorno: prima Messa solenne di don Federico Pozza


DOMENICA 31 LUGLIO 2011 ore 17.30
alla CHIESA DELLA MADONNA (in Via della Madonna a Livorno)
Don FEDERICO POZZA
novello Sacerdote dell'Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote
alla presenza del Rev.mo Mons. Gilles Wach, Priore dell'Istituto
celebrerà la sua
PRIMA MESSA SOLENNE
I fedeli potranno, in tale occasione, lucrare l'Indulgenza plenaria alle consuete condizioni
Si avvisano tutti i fedeli che tale celebrazione sostituisce
per questa volta la S. Messa solitamente celebrata alle ore 11
presso la chiesa di S. Maria Assunta in Torretta

E’ lecito oggi, nella chiesa, dirsi "tradizionalisti" ?



Dal benemerito Centro Cattolico di Documentazione di Pisa alcuni stralci di un articolo sul termine "tradizionalista". Per l'intero aricolo vedi qui.

Inter alia, invitiamo i nostri lettori ad iscriversi alla mailing list del Centro


1. Introduzione
«Dubitare del progresso è l'unico progresso», asseriva provocatoriamente il grande pensatore colombiano Nicolàs Gòmez Devila (1). Il progresso delle conoscenze e del sapere, che si è avuto negli ultimi 2-3 secoli, è reale, ma non comporta affatto una automatica elevazione morale o civile dell'umanità: il tema, assai complesso, richiederebbe, per darne davvero conto, tutta una storia e un'accurata analisi, che qui è impossibile e perfino inutile.

La moltiplicazione delle conoscenze ha, tra l'altro, moltiplicato i lemmi del vocabolario, o almeno li ha diversificati: mentre se ne sono aggiunti di nuovi, tanti altri tendono a invecchiare e quasi a sparire sia nell'uso che nelle scritture dotte.

Certe parole poi, certe espressioni e certe etichette, atte a designare qualcosa o qualche idea, in positivo e in negativo, sono diventate strumenti della battaglia politica e ideologica, già da vari decenni, e questo lo sappiamo tutti. La mass-medio-crazia, che è una conseguenza scontata della tecnocrazia contemporanea (2), ha ampliato il fenomeno, mostrando il lato oscuro dell'aumento delle conoscenze sopra ricordato: l'aumento, paradossalmente parallelo, del semplicismo, della retorica di bassa lega e degli slogan da mandare a memoria e poi usare "al momento giusto". Cioè l'aumento - direttamente proporzionale all'indubitabile aumento del sapere popolare avutosi in epoca moderna e contemporanea (con il tramonto dell'analfabetismo, per esempio) - dell'ignoranza sotto la forma inedita di confusionismo, di relativismo antropologico ed etico, di sincretismo epistemologico, o di puro caos mentale.

L'ambito religioso non ha fatto eccezione a questa situazione binaria di approfondimento persino parossistico da un lato (si pensi a certa esegesi scientifica o a certe tesi ultra-specialistiche di teologia su un solo versetto biblico!) e dall'altro la marea, anzi l'oceano sconfinato di ignoranza religiosa dei cristiani, così caratteristica del nostro tempo. Molti, tra cui ci pare di ricordare anche l'eminentissimo cardinal Siri, hanno giustamente lamentato il fatto che mai la Bibbia sia stata così letta come oggi, o almeno così acquistata, e mai d'altro canto sia stata così negletta, cioè poco praticata. Ma se è poco praticata e poco vissuta, significa che la sola lettura della sola Scrittura non basta a diventare più "biblici" o "evangelici"...

Nell'ambito strettamente teologico, l'incidenza del “progresso” linguistico e culturale si è fatta sentire con la nascita dell'ecclesialese e di espressioni "teologicamente corrette" (ma religiosamente vane, ambigue o eterodosse) (3). Spiegarne il potenziale di ambiguità significherebbe abusare della pazienza del lettore, limitiamoci dunque a citare alcune espressioni più note: apertura al mondo, tolleranza, dialogo, pluralismo, aggiornamento, liberazione, pastorale, partecipazione attiva, etc.

Sull'uso scorretto e inibente delle parole, nell'ambito della teologia contemporanea, notava tempo fa l'ottimo domenicano, padre Cavalcoli: «In un ambiente inquinato dall'eresia (...) facilmente sono gli ortodossi che possono far la figura dei devianti; magari non si arriva al punto di spudoratezza di chiamarli “eretici”, ma eventualmente con nomignoli infamanti, nell'inventare i quali i buonisti mostrano una fertile fantasia, come per esempio “fondamentalista”, “conservatore”, “reazionario”, “interista”, “tradizionalista”, “intransigente”, “preconciliare”, “destrorso”, ecc.» (4).

Di questi termini si potrebbe fare una microstoria e ad essi si potrebbero aggiungere, nello stesso senso, gli ormai desueti, “bigotto”, “guelfo”, “papista”, “papalino”, “codino” ed altri ancora. Il termine che qui interessa è uno solo, e coincide con quello, a nostro avviso, di maggior spessore teologico, storico e concettuale tra tutti: quello di tradizionalista.2. Concetto cattolico di TradizioneSul concetto di Tradizione ci limitiamo per brevità ad alcuni cenni. Secondo una testo sempre autorevole, la Tradizione «con la Bibbia è una delle due fonti della Rivelazione divina e può essere definita: "La predicazione o trasmissione orale di tutte le verità (rivelate da Cristo agli Apostoli o lor suggerite dallo Spirito Santo), mediante il magistero sempre vivo e infallibile della Chiesa, assistita dallo Spirito di verità"» (5). Importante in proposito è la chiarificazione, in funzione anti-ereticale, apportata ormai quasi mezzo secolo fa dal Concilio: «È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter indipendentemente sussistere» (DV 10).

Il libro che parla meglio della Tradizione, tra i più recenti, è senza dubbio quello di don Bernard Lucien (6) a cui ci ispiriamo per le righe seguenti. Scrive il Lucien che «secondo l'istituzione divina tre elementi legati tra loro o piuttosto correlati e però distinti intervengono nella trasmissione del deposito rivelato: la Tradizione, la Sacra Scrittura, il Magistero della Chiesa» (7). L'autore nota giustamente che «se è (...) facile precisare, in un primo approccio, ciò che è la Sacra Scrittura e ciò che è il Magistero, è molto più difficile dire cos'è la Tradizione divina, perché questo vocabolo, anche entro il solo perimetro dell'uso cattolico, comporta molte accezioni» (8). All'interno di un capitolo accuratamente argomentato, il Lucien arriva a dare una definizione della Tradizione, come si usava con le "tesi" proposte dai teologi di una volta. Eccola: «La Tradizione divina nel senso più stretto, e intesa attivamente, è la conservazione e la trasmissione continue e divine della Rivelazione, a partire dagli Apostoli, attraverso la predicazione orale e la fede della Chiesa, cioè con un mezzo distinto dalla Sacra Scrittura» (9). Il Lucien nelle pagine seguenti spiegherà il senso e la portata del dogma della uguale autorità della Scrittura e della Tradizione - contro il biblicismo sempre rinascente e contro l'idea luterana che la lettura della Bibbia sia indispensabile per tutti per una vita di fede - mostrando poi che «la Tradizione possiede una certa priorità sulla Sacra Scrittura, dal punto di vista dell'inter-pretazione» (10).

Il tradizionalismo di cui parliamo, dunque, pur se rimanda, e a giusto titolo, all'idea tutta cattolica di Tradizione, non ne è un semplice derivato culturalmente neutro, ma si colora al giorno d'oggi di valenze identitarie, spirituali, teologiche e soprattutto liturgiche che gli provengono dalla storia recente e dall'uso che ne è stato fatto da parte di alcuni cattolici nel periodo post-conciliare. Uso, come vorrebbe dimostrare questo scritto - che ha questo chiarimento quale sua causa finale -pienamente legittimo e in nulla contrario alla verità, cioè alla Tradizione, alla Scrittura e al Magistero della Chiesa.


[…]

4. Uso del termine nel magistero da san Pio X ad oggiPapa S. Pio X, per la sua condanna solenne del modernismo e per la sua fulgida santità - oggi vilmente attaccata da autori legati al neo-modernismo - costituisce indubbiamente un punto di riferimento per tutti i veri cattolici. Per noi tradizionalisti lo è in modo speciale (17). La battaglia della sua vita, e il momento più luminoso della sua virtù eroica, si ebbe proprio nella lotta epocale contro il modernismo "cattolico". Ancora a pochi mesi dalla morte, a vari anni dalla Pascendi, scriveva: «Un altro dolor piuttosto, che mi turba ed angustia, è il diffondersi spaventoso del modernismo, specialmente nel clero secolare e regolare; un modernismo teorico in pochi, ma nei più pratico, che però trascina alle medesime conseguenze del primo, all'indebolimento e alla perdita totale della fede, In questo è l'avversario terribile che affigge la Chiesa e il papa e contro il quale devono combattere i buoni per mantenere intatto il deposito della fede e salvare tante anime che corrono alla rovina» (18).

Nella dimenticata Lettera Notre charge apostolique (19) circa «la dottrina sociale del Sillon e il miraggio di una falsa democrazia» (20) del 25 agosto 1910, Papa Sarto, verso la fine del mirabile testo afferma: «Siano persuasi [i sacerdoti] che la questione sociale e la scienza sociale non sono nate ieri; che in ogni tempo la Chiesa e lo Stato felicemente d'accordo hanno suscitato a questo fine feconde organizzazioni; che la Chiesa, la quale non ha mai tradito il benessere del popolo con alleanze compromettenti, non ha da staccarsi dal passato e che basta riprendere con l'aiuto dei veri operai della restaurazione sociale le organizzazioni sciolte dalla Rivoluzione e adattarle, nello stesso spirito cristiano che le ha ispirate, al nuovo ambiente creato dall'evoluzione materiale della società: perché i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti».

Questa frase non ha bisogno di lunghi commenti. Secondo il grande pastore, ci sono degli amici del popolo dichiarati ma solo apparenti e ci sono al contrario dei veri amici del popolo, che forse sono meno apparenti o appariscenti, ma hanno in questa vera amicizia molta più consistenza dei primi. Tra i falsi amici vi sono i rivoluzionari e gli innovatori, tra i veri amici i tradizionalisti. È chiaro che chi ama il popolo veramente, da vero amico, è anche per forza di cose amico di Dio, e chi non ama Dio non sarà mai vero amico del popolo, cioè dei fratelli in umanità.

Nei Pontificati successivi, da Benedetto XV a Giovanni Paolo II, l'uso del termine tradizionalista, salvo meliori judicio, non risulta. Almeno non risulta nel senso culturalmente forte e pregnante in cui lo utilizzò Papa Sarto.

In tempi recentissimi, invece, a oltre 40 anni dalla chiusura del Concilio il termine è ritornato in uso, collegato specialmente con il motu proprio Summorum Pontificum (7.7.07) e con il movimento che difende la legittimità e la priorità dogmatica, anche dopo la riforma liturgica del 1969-70, della liturgia tradizionale (21). Nel Decreto di erezione della parrocchia della SS. Trinità dei Pellegrini, firmato dall'allora cardinal Vicario dell'Urbe e presidente della Cei, Camillo Ruini, il termine compare due volte (22). Dopo aver citato il motu proprio, si asserisce che: «il Santo Padre ha disposto che nel Centro della Diocesi di Roma (...) fosse eretta una parrocchia personale atta ad assicurare un'adeguata assistenza religiosa per l'intera comunità dei fedeli Tradizionalisti residenti nella stessa Diocesi». Curioso l'uso della maiuscola, che si ripete poco dopo: «Pertanto, col presente Decreto, in virtù delle facoltà ordinarie riconosciutemi dal Santo Padre, erigo la parrocchia personale per la comunità dei fedeli Tradizionalisti, in onore di Dio Onnipotente», ecc.

Se ai fedeli tradizionalisti, viene offerta una parrocchia nel centro di Roma, per volontà esplicita del Santo Padre e in onore di Dio Onnipotente, è il segno che i tradizionalisti... esistono! Anzi essi formano una "comunità", la comunità dei fedeli tradizionalisti. Nessuno mi pare che abbia notato la cosa in sé importante del riconoscimento di uno spirito, di un carisma che è legato ad un preciso rito liturgico e che viene identificato con quel sostantivo. D'altra parte noi crediamo che non la sola preferenza liturgica distingua questa comunità dalle altre della diocesi e nell'intera Chiesa. La liturgia, di importanza fondamentale ne è solo l'espressione esterna e pubblica; il cuore di questa comunità spirituale, o di questo movimento o "famiglia di anime", è l'attaccamento toto corde all'integrale patrimonio della bimillenaria Tradizione cattolica - da cui il nome di tradizionalisti (che dunque tutti i cattolici dovrebbero far proprio e a nessuno dovrebbe dar fastidio...) - in tutta la sua estensione, in tutta la sua profondità e in tutte le sue virtualità dottrinali, ascetiche, morali, liturgiche, sociali e politiche5. Conclusione: legittimità per i cattolici militanti di oggi di dirsi tradizionalistiSecondo l'eccellente filosofo stimmatino padre Cornelio Fabro, «il pericolo del modernismo non è mai completamente debellato perché è insita nella ragione umana, corrotta dal peccato, la tendenza a erigersi a criterio assoluto di verità per assoggettarsi a sé la fede» (23).

Con la svolta conciliare però si assiste ad una nuova ed inattesa diffusione dello spirito del modernismo in seno alla compagine ecclesiastica, tanto che un autore ha potuto scrivere tali calibrate parole: «Di solito il Magistero cattolico brillava per chiarezza concettuale e rigore terminologico, per evitare possibili fraintendimenti e aberrazioni. Nel Vaticano II, invece, s'è voluto appositamente usare un linguaggio meno preciso, a motivo della sua natura pastorale, con l'intento per sé lodevole di raggiungere il maggior numero di uomini di buona volontà, ma col risultato de facto che ognuno vi ha potuto dedurre tutto ed il contrario di tutto, a proprio uso e consumo» (24).

Oggi dunque dato che «dopo il Concilio Vaticano II il mondo cattolico, sgomento, si trovò modernista» (25) e che «mai, infatti, all'interno della Chiesa cattolica, è stato così diffuso l'errore nel campo della fede» (26), è bene usare neologismi o veterologismi che aiutino a farsi capire meglio da tutti, nella Chiesa e fuori di essa. L'uso della definizione di cattolici-tradizionalisti - come un tempo i più docili seguaci di s. Pio X nella lotta anti-modernista usarono quella di cattolici-integrali (27), o come sotto Pio IX e Leone XIII i cattolici fedeli a Roma e anti-liberali si chiamarono cattolici-intransigenti (28) - ci pare assolutamente lecito, spesso doveroso, non raramente e anzi sempre più frequentemente strettamente necessario.


6. Appendice sulla nozione di "Tradizione vivente

"A scanso di equivoci, e ammessa la legittimità di definirsi tradizionalisti, è opportuno precisare che siffatto tradizionalismo non coincide col il fissismo dogmatico assoluto, che consisterebbe nella posizione erronea di rigettare qualunque progresso dottrinale omogeneo con il patrimonio della Rivelazione.

L'abbé Lucien, nel testo da noi citato, parlava della spinosa questione, con riferimento alla cosiddetta "Tradizione vivente". Lo studioso nota che a partire almeno da «Johann Adam Mòhler, faro della Scuola di Tubinga nel secondo quarto del XIX secolo, questa espressione è in effetti servita più di una volta a veicolare idee assai contestabili» (30). Quali? Per esempio «la riduzione della Tradizione al Magistero attuale» (31) oppure «la negazione del compimento della Rivelazione con la morte dell'ultimo apostolo» (32). «È questo secondo errore, continua don Lucien, che spesso nel prolungamento del relativismo e dello storicismo modernisti, si presenta come particolarmente virulento oggi» (33).

In estrema sintesi, e per non allungare troppo questa breve nota sul tradizionalismo, concludiamo col Lucien, notando che «in definitiva, ed avendo cura di evitare gli errori relativisti e evoluzionisti, si deve riconoscere la tripla legittimità della nozione di Tradizione vivente:

1) perché il deposito rivelato, oggettivamente concluso, si trasmette esplicitandosi
2) perché questo deposito è trasmesso attraverso degli atti umani di predicazione e di fede
3) perché questa trasmissione è divinamente assicurata, nel corso dei secoli, attraverso l'azione viva e trascendente di Cristo e dello Spirito Santo» (34).

venerdì 29 luglio 2011

Ricostruzione 3D del presbiterio antico di san Pietro a Roma: altro che "versus populum"..!





Una gran bella immagine 3D dal blog "Traditio Liturgica" mostra una ricostruzione piuttosto precisa del presbiterio della basilica costantiniana di San Pietro, come si presentava già dal VII secolo. Come ben chiarisce il post di commento, questa immagine rende immediatamente chiaro come certi discorsi riguardo "sede del celebrante" ben visibile o "altare verso il popolo", nell'antichità romana non avevano il senso che si cerca di imporre a queste parole oggi.
L'iconostasi a cui si appendevano le tende, la soprelevazione dell'altare, il ciborio, tutto mostra come le preoccupazioni degli antichi non erano quelle attuali di "stare tutti attorno all'altare" e "vedere tutto quello che fa il prete". Dopotutto i sacri misteri venivano celebrati sugli "altari", che - come illustra l'immagine - dovevano principalmente corrispondere all'etimologia del loro nome: essere cioè in alto: "alta res".
Leggere e meditare qui il post di Traditio Liturgica

Raffaello così dipinge lo stesso presbiterio in un suo famoso affresco, La donazione di Costantino.

Dal sito NLM che offre approfondimenti sul tema qui trattato.

Gnocchi - Palmaro e la Fede in pericolo

Dom Prosper Guéranger


Accorata invettiva contro il Cattolicesimo rinunciatario e arrendevole
Se si ci si guarda attorno nella Chiesa del terzo millennio, dire che il sale della terra sia ormai tutto tramutato in zucchero sarebbe ingeneroso. Ma sarebbe ancor più fuorviante nascondersi che la radicale diversità del cattolicesimo, per sua natura antagonista al mondo, sia stata dilapidata da una gioiosa macchina di pace votata a un dolciastro laicizzare, a un mellifluo omologare. L’asprezza del dogma non piace più, la spigolosità della verità spaventa proprio chi dovrebbe amare la fatica della via stretta.
Ma non è colpa del mondo, che troppo spesso i cattolici rincorrono scriteriatamente, salvo poi imputargli la mondanizzazione del cattolicesimo. Nell’inedito tentativo di conquistare il consenso della modernità, invece che convertirla, il cattolicesimo di questi decenni ha annunciato l’avvento di un villaggio globale praticamente privo di dogmi: una sorta di “serenopoli” da spot pubblicitario su cui il Concilio Vaticano II ha appiccicato l’etichetta di “pastorale” e dove nulla più è urticante al punto da richiedere un “sì” o un “no”. Ma il mondo moderno aveva già una “serenopoli” siffatta e si è ben guardato dal comprare l’imitazione cattolica. Così, gli unici a invaghirsi della “serenopoli” cattolica a dogma variabile sono stati i cattolici stessi. Solo loro, abitanti della cittadella del rigore dogmatico, potevano percepire, tra il proprio universo e quello libero da vincoli proposto dal nuovo corso, una differenza tale da provarne un desiderio incontrollabile.
Ma senza dogma non c’è rigore, senza rigore non c’è obbedienza, senza obbedienza non c’è unità e senza unità non c’è forza. Così oggi, quando va bene, la Chiesa balbetta là dove dovrebbe urlare in faccia al mondo che le logiche democratiche le lascia volentieri alle democrazie mondane.
Per farlo, però, non basta l’impeto fugace di reazioni anche meritorie. Bisogna andare alla radice del problema, a quella deriva luterana che ha conquistato vasti settori della Chiesa. Pur con tutte le dichiarazioni congiunte possibili, non si può essere cattolici e anche filo luterani, cattolici e anche anticattolici, romani e anche antiromani: lo chiede la ragione prima che la fede.
Però è innegabile che Lutero, il monaco agostiniano che non comprese Agostino, eserciti un fascino prepotente nella cittadella del dogma, minata a suo tempo da tomisti che non compresero Tommaso. Quel geniaccio tedesco è riuscito là dove schiere di eretici avevano fallito. Il motivo lo ha spiegato nel XIX secolo dom Prosper Guéranger, abate benedettino di Solesmes in uno scritto che si intitola L’eresia antiliturgica e la riforma protestante: “Lutero (…) non disse nulla che i suoi precursori non avessero detto prima di lui, ma pretese di liberare l’uomo, nello stesso tempo, dalla schiavitù del pensiero rispetto al potere docente, e dalla schiavitù del corpo rispetto al potere liturgico”.
Proclamando la liberazione della ragione e del corpo, Lutero ha conquistato l’individuo illudendolo di poter essere maestro, sovrano e sacerdote a se stesso. Ma, di fatto, lo ha condannato alla dissoluzione. Che il cattolicesimo oggi sia su questa china lo si scopre osservando che i risultati della riforma luterana, lucidamente enunciati nella sua opera da Guéranger nell’Ottocento, sono gli stessi che flagellano la Chiesa cattolica dagli Anni Sessanta del Novecento: “Odio della Tradizione nelle formule del culto”, “Sostituzione delle formule ecclesiastiche con letture della Sacra Scrittura”, “Introduzione di formule erronee”, “Eliminazione delle cerimonie e delle formule che esprimono i misteri”, “Uso del volgare nel servizio divino”, “Odio verso Roma e le sue leggi”, “Distruzione del sacerdozio, “Il principe capo della religione”.
Un elenco terribile e attuale su cui urge riflettere.



"Il Foglio"- 29 luglio 2011
Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro

giovedì 28 luglio 2011

Ordinazioni diaconali a Le Barroux



[Come abbiamo accennato nel precedente articolo, lo scorso 22 luglio 2011, presso l'abbazia benedettina Sainte-Madeleine di Le Barroux, S.E. mons. Marc Aillet, vescovo di Bayonne, Lescar e Oloron, ha conferito l'ordinazione diaconale a due monaci, nel corso della Messa pontificale nella solennità di santa Maddalena, patrona del monastero, alla presenza di S.E. mons. Paul-Marie Guillaume, vescovo emerito di Saint-Dié. Riportiamo alcune fotografie del rito, scattate da Olivier Figueras, e che sono state anticipate dal sito New Liturgical Movement]






Storie di ordinarie vessazioni


La basilica di Loreto

Ieri abbiamo riferito di vere e proprie percosse ad un sacerdote, motivate dall'odio per la liturgia tradizionale e per tutto quel che le assomiglia. Il termine persecuzione, in quel caso, è tecnicamente appropriato; certo, in Iraq o in Pakistan avviene ben di peggio: ma è una differenza di scala e di quantità, non di qualità.

Oggi parliamo invece di un altro evento, assai meno cruento e diretto, dove il sopruso, l'angheria e il bullismo operano in modo più subdolo, ma non per questo meno pericoloso; e con l'aggravante che qui il colpevole non è un energumeno oligofrenico, bensì niente meno che un Prelato pontificio.

Veniamo ai fatti. Kreuz.net ci informa che alcuni giorni orsono, a metà luglio, un prete tedesco ha visitato la basilica di Loreto. Desideroso di celebrare il divino Sacrificio nel santuario che ospita la Santa Casa, si è recato nella sacrestia per chiedere di poter celebrare la Messa nel vecchio rito.

Il sacrestano, un canuto cappuccino, ha allora impartito la lezioncina al malcapitato prete di passaggio: su istruzione del prelato della basilica mons. Giovanni Tonucci, che Kreuz.net qualifica come 'il colpevole' della storia, la celebrazione della Messa antica è consentita (o dovremmo dire: sopportata) solo all'altare della cappella polacca; e questo rigorosamente tra le ore 13.00 e le 14.00. Ossia, nota Kreuz.net a beneficio dei lettori tedeschi dalle cimmerie consuetudini alimentari, precisamente all'ora in cui tutti gli italiani pranzano: i rischi di esposizione al contagio infettivo della liturgia tradizionale vanno infatti limitati il più possibile.

Ma non solo, ha proseguito il cappuccino: 'sfortunatamente' la cappella polacca in questi giorni è chiusa per lavori di restauro, quindi....

...quindi non c'è nessun altare disponibile per la celebrazione della messa antica.

Il sacerdote, esterrefatto, ha osato ribattere che ci sono circa trenta altri altari nella Basilica, sicché avrebbe potuto utilizzare uno di quelli. Al che, spazientito e privo di argomenti, il cappuccino è passato all'argumentum baculinum, spintonando il malcapitato pellegrino fuori della sacrestia e redarguendolo con solenni rimproveri.


Enrico

mercoledì 27 luglio 2011

Messa a Riolunato (Modena)

Dal quotidiano “Qui Modena“ del 22 luglio 2011 apprendiamo una notizia che non può non farci piacere.
Mille, centomila, un milione di queste notizie !!!

Scomparsa del card Noè





E’ morto domenica scorsa a 89 anni il card. Virgilio Noè (Zelata di Bereguardo, 30 marzo 1922Roma, 24 luglio 2011).


A molti nostri lettori è tristemente noto come grande nemico della Messa Tridentina.


Fu parroco a Pavia e fondò un'associazione per i giovani, basata soprattutto sulla cosidetta partecipazione attiva alla liturgia.
Tornato a Pavia dopo gli studi alla Gregoriana, fu docente nei seminari di Pavia e Tortona. Dal 1964 al 1969 fu presidente del Centro di Azione Liturgica e fu docente del Pontificio Istituto Liturgico Sant'Anselmo, direttore della rivista "Liturgia" e membro del comitato per la revisione delle cerimonie liturgiche pontificie. Nel 1969 fu nominato sottosegretario della Congregazione per il Culto Divino, incarico che mantenne fino al 21 ottobre 1977, quando divenne segretario aggiunto.

Collaborò lungamente con mons. Bugnini per la stesura dei testi della riforma liturgica postconciliare del Novus Ordo Missae, distinguendosi per la sua avversione verso il rito tradizionale e per i tentativi – parzialmente riusciti – di “sromanizzare”…..il rito romano.

Fu “tristemente” il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie – succedendo ad Annibale Bugnini - , prevalentemente durante il pontificato di papa Paolo VI (ma anche con Giovanni Paolo II), dal 1970 1982.

Fu Presidente della Fabbrica di S. Pietro e poi arciprete della Basilica Vaticana dal 1991 al 2002: durante questo incarico fu famigerato protagonista della negazione della celebrazione della S. Messa Gregoriana – a dei sacerdoti della Fraternità S. Pietro –, malgrado il regolare celebret da loro esibito. Essi dovettero ricorrere direttamente a Giovanni Paolo II per avere giustizia. Durante la sua gestione della basilica, inizio l’eliminazione delle tiare pontificie nei nuovi stemmi papali.

Chi scrive lo ricorda celebrante alla parrocchia di S. Anna della Città del Vaticano un 31 dicembre di parecchi anni fa: una sciatta Messa in un’orrida casula con il Te Deum in italiano, “ovviamente” tagliato delle ultime strofe. Uno spettacolo desolante.

Preghiamo per lui e per la sua anima e speriamo che la futura generazione di liturgisti sia migliore.

Un sacerdote selvaggiamente aggredito perché celebra la Messa in latino


Nella campagna toscana, in un paese di nome Ronta, un giovane parroco di origine argentina e di lodevoli tendenze tradizionali, ha iniziato a celebrare nella forma che il Papa incoraggia. Don Hernan Garcia Pardo, è il suo nome, è stato, precisamente per questa ragione, assalito e preso a bastonate da un energumeno, in odio alla Santa Messa di Sempre, per giunta dopo essere stato oggetto di odiose minacce anonime (da parte del medesimo individuo, è da presumere).
La notizia ha dell'incredibile, se non conoscessimo la furia davvero satanica che quel puro distillato di cattolicesimo che è la Santa Messa tradizionale suscita nelle anime traviate, che ad essa reagiscono come il loro padrone all'acqua santa. E non vi sembri eccessivamente gotico, il nostro riferimento al demonio: perché sono i più antichi canoni a menzionarlo come sicuro sobillatore di atti di questo genere: Si quis, suadente diabolo, clericum percutit, anathema esto (can. 119 c.j.c. 1917, che riprendeva identica norma già nel Decreto di Graziano).
Il fatto è avvenuto oltre una settimana fa, ma solo ora diviene di dominio pubblico, grazie all'indagine di un giornalista de Il Giornale della Toscana, Pucci Cipriani, il quale ha scritto un articolo stupendo. Si vede che questo giornalista ha fede ed equilibrio, ed è per questo che abbiam durato la fatica di ricopiare buona parte dell'articolo, ancora indisponibile on line (ma che potete leggere per intero cliccando sull'immagine qui sopra, tratta da Secretum meum mihi).
Enrico

di Pucci Cipriani

[..] Ma di che cosa viene accusato don Hernan? Innanzi tutto dà noia il fatto che egli sia attaccato alla tradizione perenne della Chiesa, che abbia bandito le 'chitarrine' dalla casa di Dio, che usi i paramenti neri per il servizio dei defunti, che abbia riportato gli antichi canti gregoriani, infine brucia che abbia tolto il tavolinetto, l'altarino 'posticcio', dall'oratorio della Madonna dei Tre Fiumi, per celebrare il sacro rito 'rivolto al Signore' proprio come ha fatto il suo arcivescovo pubblicamente nell'Arcibasilica di San Lorenzo pochi giorni fa per la celebrazione eucaristica del Corpus Domini [Ah sì? Ottimo!].

E poi l'accusa regina, quella di 'aver disperso il gregge', particolarmente numeroso nelle ricorrenti 'tortellate' in due stanzoni che il parroco ha riadibito a sagrestia togliendo dai corridoi i fascicoli e i paramenti... questi sono i delitti di cui si è macchiato, agli occhi dei nostalgici del Sessantotto e delle comunità di base - Isolotto docet - al quale se ne aggiunge un altro, ben più grave, lo stesso 'delitto' che il Santo Padre compie ogni volta che celebra la Santa messa, quello di preferire la distribuzione della Sacra Particola in bocca invece che in mano, e in ginocchio per rispetto al Signore.

Ma quello che maggiormente ci ha impressionato in questi giorni è il clima, fatto di giacobinismo, che abbiamo respirato in questi giorni, un clima fatto di grandi silenzi, di 'non so, non ricordo', di paure, di rispetto umano, a cominciare dalla stampa che dallo scorso mercoledì, giorno della sacrilega aggressione, non ha trovato non si sa se il tempo o il coraggio di segnalare un episodio che non può esser taciuto.

Abbiamo lavorato due giorni per ricostruire gli avvenimenti con tanto di riscontri ineccepibili: lo stesso don Hernan Garcias Pardo, sentito da noi, profondamente segnato e amareggiato, seppur cortesemente ha detto di non aver nulla da dichiarare e che tutto quello che doveva dire, ormai da tempo, l'ha detto al suo vescovo, monsignor Giuseppe Betori.

Ma in Mugello se ne parla, eccome! E la gente è scossa da un fatto così sconcertante: ieri, domenica 24 luglio, alla "Grande Messe" delle ore 18 nella Pieve di Borgo San Lorenzo (una Messa peraltro celebrata dignitosamente da un giovane prete che ha fatto anche una bella e sentita omelia) un lettore, durante la 'preghiera dei fedeli', ed è evidente che ognuno ha pensato al fatto di Ronta, ha scandito al microfono: "Preghiamo perché tutti possano essere accolti nella Chiesa senza nessuna intransigenza".

Capito? Qui l'avvertimento - e nemmeno troppo velato - non è tanto per don Hernan, ma per Benedetto XVI che ha parlato, appunto con intransigenza, di 'valori non negoziabili', e anche per l'arcivescovo Giuseppe Betori che fu il primo in Italia a prendere posizione, durante una memorabile veglia di preghiera nella Chiesa della Santissima Annunziata, per salvare la vita ad Eluana Englaro.

Bisognerebbe andare a rileggere le parole di Paolo VI durante l'Angelus del 26 giugno del 1972 a proposito del Concilio che lui stesso scelse di continuare e di portare a termine: "Avevamo sperato dal Concilio in una nuova primavera per la Chiesa e invece abbiamo avuto un tetro e rigido inverno. Il fumo di Satana, entrato nel Tempio di Dio...", riecheggiando così le parole dell'Apocalisse: "Aperuit puteum abyssi et ascendit fumus" (Ap. IX-2)

Si veda anche qui

martedì 26 luglio 2011

Intervista a Don Davide Pagliarani



Pubblichiamo un'interessante intervista rilasciata a Marco Bongi dal Superiore del distretto d'Italia della Fraternità San Pio X riguardante i colloqui teologici della Fraternità con Roma, lo stato culturale e attuale del mondo cattolico della Tradizione e un preciso commento sull'istruzione Universae Ecclesiae.

26 luglio 2011

I colloqui teologici fra la FSSPX e le Autorità Romane volgono al termine. Anche se non è stato ancora emesso un comunicato ufficiale non mancano i commentatori che, in base ad indiscrezioni, li giudicano falliti. Lei può dirci qualcosa in più sull'argomento?

Penso che sia un errore pregiudiziale considerare i colloqui falliti. Questa conclusione è tirata forse da chi s’aspettava dai colloqui qualche risultato estraneo alle finalità dei colloqui stessi.
Il fine dei colloqui non è mai stato quello di giungere ad un accordo concreto, bensì quello di redigere un dossier chiaro e completo, che evidenziasse le rispettive posizioni dottrinali, da rimettere al Papa e al Superiore Generale della Fraternità. Dal momento che le due commissioni hanno lavorato pazientemente, toccando sostanzialmente tutti gli argomenti all’ordine del giorno, non vedo perché si dovrebbero ritenere i colloqui falliti.
I colloqui sarebbero falliti se - per assurdo - i rappresentanti della Fraternità avessero redatto relazioni che non corrispondessero esattamente a ciò che la Fraternità sostiene, per esempio se avessero detto che dopo tutto la collegialità o la libertà religiosa rappresentano degli adattamenti al mondo moderno perfettamente conciliabili con la Tradizione. Per quanto sia stata mantenuta una certa discrezione, penso di poter dire che non ci sia stato il rischio di giungere a questo risultato fallimentare.
Chi non coglie sufficientemente l’importanza di una tale testimonianza da parte della Fraternità e della posta in gioco, per il bene della Chiesa e della Tradizione, inevitabilmente formula giudizi che si inquadrano in altre prospettive.

Quali prospettive secondo lei potrebbero essere fuorvianti?

A mio modesto avviso esiste un’area tradizionalista, piuttosto eterogenea, che, per ragioni diverse, attende qualcosa da una ipotetica regolarizzazione canonica della situazione della Fraternità.
1) Certamente c’è chi spera in un riverbero positivo per la Chiesa universale; a questi amici, che ritengo sinceri, direi tuttavia di non farsi illusioni; la Fraternità non ha la missione né il carisma di cambiare la Chiesa in un giorno. La Fraternità intende semplicemente cooperare affinché la Chiesa si riappropri integralmente della sua Tradizione e potrà continuare a lavorare lentamente per il bene della Chiesa solo se continuerà ad essere, al pari di ogni opera di Chiesa, una pietra di inciampo ed un segno di contraddizione: con o senza regolarizzazione canonica, la quale arriverà solo quando la Provvidenza giudicherà i tempi maturi. Inoltre non penso che una ipotetica regolarizzazione - al momento attuale - toglierebbe quello stato di necessità che nella Chiesa continua a sussistere e che ha giustificato fino ad ora l’azione della Fraternità stessa.
2) Su un versante completamente opposto esistono gruppi che definirei conservatori, nel senso un po’ borghese del termine, che si affrettano a dire che i colloqui sono falliti assimilandoli ad una trattativa per arrivare ad un accordo: l’intento malcelato è quello di poter dimostrare il più velocemente possibile che la Tradizione, tale e quale la Fraternità la incarna, non potrà mai avere un diritto di cittadinanza nella Chiesa. Questa fretta è determinata non tanto da un amore disinteressato per il futuro della Chiesa e per la purezza della sua dottrina, ma da una paura reale dell’impatto che la Tradizione propriamente detta possa avere di fronte alla fragilità di posizioni conservatrici o neoconservatrici. In realtà tale reazione rivela una lenta presa di coscienza - quantunque non confessata - dell’inconsistenza e della debolezza intrinseca di tali posizioni.
3) Soprattutto però mi sembra di riscontrare l’esistenza di gruppi e di posizioni che attendono un qualche beneficio da una regolarizzazione canonica della Fraternità, senza però voler fare propria la battaglia della Fraternità assumendosene gli oneri e le conseguenze.
Esistono infatti, nel diversificato arcipelago tradizionalista, numerosi “commentatori” che pur esprimendo un sostanziale disaccordo con la linea della Fraternità, osservano con estremo interesse lo sviluppo della nostra vicenda, sperando in qualche ripercussione positiva sui loro istituti di riferimento o sulle situazioni locali in cui sono coinvolti. Sono impressionato dalle fibrillazioni a cui questi commentatori sono soggetti ogni volta che un minimo rumore affiora sul futuro della Fraternità.
Penso tuttavia che il fenomeno sia facilmente spiegabile.

Perché?

Si tratta di una categoria di fedeli o di sacerdoti fondamentalmente delusi e che avvertono - giustamente - un certo senso di instabilità per la loro situazione futura.
Si rendono conto che la maggior parte delle promesse in cui hanno creduto stentano ad essere mantenute ed implementate.
Speravano che con il Summorum Pontificum prima e con Universae Ecclesiae poi, fossero garantite ed efficacemente tutelate la piena cittadinanza e libertà al rito tridentino, ma si rendono conto che la cosa non funziona pacificamente, soprattutto in relazione agli episcopati.
Di conseguenza - e purtroppo - a questi gruppi interessa l’esito della vicenda della Fraternità non tanto per i principi dottrinali che la supportano e per la portata che potrebbe avere sulla Chiesa stessa, ma piuttosto in una prospettiva strumentale: la Fraternità viene vista come una formazione di sfondamento di sacerdoti che ormai non hanno nulla da perdere ma che se otterranno qualcosa di significativo per la loro congregazione creeranno un precedente giuridico a cui anche altri potranno appellarsi.
Questo atteggiamento, moralmente discutibile e forse un po’ egoista, ha tuttavia due pregi:
innanzitutto quello di dimostrare paradossalmente che la posizione della Fraternità è l’unica credibile, dalla quale potrà scaturire qualcosa di interessante, e alla quale in tanti finiscono per fare riferimento loro malgrado;
il secondo pregio è quello di evidenziare che se non viene privilegiata la via dottrinale per permettere alla Chiesa di riappropriarsi della sua Tradizione, necessariamente si scivola in una prospettiva diplomatica, fatta di calcoli incerti e di risultati instabili, e ci si espone a drammatiche delusioni.

Se il Vaticano offrisse, per ipotesi, alla Fraternità l'opportunità di strutturarsi in Ordinariato immediatamente soggetto alla S. Sede, come potrebbe essere accolta tale proposta?

Sarebbe presa serenamente in considerazione in base ai principi e alle priorità e soprattutto alla prudenza soprannaturale a cui i superiori della Fraternità si sono sempre ispirati.

Non potrebbe dirci qualcosa di più?

Posso solo ripetere ciò che è stato spiegato chiaramente e da sempre dai miei superiori: la situazione canonica in cui si trova attualmente la Fraternità è conseguenza della sua resistenza agli errori che infestano la Chiesa; di conseguenza la possibilità per la Fraternità di approdare ad una situazione canonica regolare, non dipende da noi ma dall’accettazione da parte della gerarchia del contributo che la Tradizione può fornire per la restaurazione della Chiesa.
Se non si approda ad alcuna regolarizzazione canonica, significa semplicemente che la gerarchia non è ancora abbastanza convinta della necessità e dell’urgenza di questo contributo. In questo caso bisognerà attendere ancora qualche anno, sperando in un incremento di questa consapevolezza, che potrebbe essere coestensivo e parallelo all’accelerazione del processo di autodistruzione della Chiesa.

"Il poco bene che possiamo fare a Roma è probabilmente più importante del molto bene che possiamo fare altrove". Questa frase molto significativa, pronunciata da mons. De Galarreta alle ordinazioni sacerdotali di Ecône, interpella direttamente il nostro distretto. Certamente egli si riferiva prevalentemente ai colloqui teologici ma è indubbio che anche l'immagine della Fraternità in Italia, per la sua vicinanza a Roma, assume una rilevanza tutta particolare. Come ha vissuto lei, che è il Superiore del Distretto italiano, questa importante affermazione?

Quanto ha detto il vescovo a Ecône corrisponde ad una convinzione profonda della Fraternità e l’affermazione mi sembra scontata per uno spirito autenticamente cattolico: non trovo abbia nulla di sorprendente.
Penso che l’inciso di Mons. De Galarreta sintetizza perfettamente lo spirito romano con cui la Fraternità vuole servire la Chiesa Romana: fare il possibile affinché la Chiesa, si riappropri della Sua Tradizione a cominciare da Roma stessa.
La Storia della Chiesa ci insegna che non è possibile alcuna riforma universale, efficace e duratura se Roma non la fa propria e se essa non parte da Roma.

Su questi punti molti osservatori esterni sostengono che esisterebbe una divisione interna nella FSSPX fra un'ala cosiddetta "romana" più propensa a dialogare con le autorità, e una "gallicana", ostile ad ogni approccio col Papa. Al di là dell'eccessiva semplificazione e nei limiti in cui Ella può esprimersi, ritiene che tale idea sia fondata?

Come in ogni società umana anche nella Fraternità esistono sfumature e sensibilità diverse tra i vari membri. Pensare che possa essere diversamente sarebbe un po’ puerile.
Tuttavia penso che si cada facilmente nelle semplificazioni di cui sopra quando si perde la serenità di giudizio o ci si esprime in base a pregiudizi precostituiti: si finisce per creare dei partiti e per collocarci senza discernimento alcuni piuttosto che altri.
Ai membri della Fraternità è chiaro che l’identità della propria congregazione è costruita attorno ad un asse definito e preciso che si chiama Tradizione; è su questo principio, universalmente condiviso all’interno della Fraternità, che è costruita l’unità della Fraternità stessa e penso che oggettivamente sia impossibile trovare un principio identitario e di coesione più forte: è proprio questa coesione di base sull’essenziale, che permette ai singoli di avere sfumature diverse su tutto ciò che è opinabile.
Penso che una certa impressione di disomogeneità sia data dalla considerevole differenza di toni che i membri della Fraternità utilizzano nelle differenti sedi, nei differenti frangenti, nei differenti paesi e soprattutto davanti alle diversissime e contraddittorie posizioni che i rappresentanti della gerarchia ufficiale esprimono nei nostri confronti e di tutto ciò che ha il sapore di Tradizione. La percezione di questi dati talora scema in chi valuta le singole affermazioni decontestualizzandole e livellandole on line davanti al proprio schermo.
Si tratta certamente di considerazioni di non immediata evidenza per l’osservatore esterno.

Il 13 maggio è stata pubblicata l'istruzione "Universae Ecclesiae" che intende disciplinare concretamente l'applicazione del Motu Proprio "Summorum Pontificum". Come viene valutato questo importante documento dalla FSSPX?

Si tratta di un documento di sintesi che da una parte esprime la chiara volontà di implementare le direttive del motu proprio, dall’altra tiene conto delle numerose obiezioni, esplicite e implicite, che gli episcopati hanno mosso contro il Summorum Pontificum i quali - non è un segreto per nessuno - sono fondamentalmente ostili al ripristino del rito tridentino.
Innanzitutto viene precisato che il ripristino della liturgia del 1962 è una legge universale per la Chiesa; in secondo luogo l’istruzione compie un chiaro sforzo per tutelare maggiormente in sede strettamente giuridica i sacerdoti che fossero ostacolati nell’uso del messale tridentino dai loro ordinari.
Con una certa finezza viene ricordato ai vescovi che spetta proprio a loro garantire quei diritti…per la tutela dei quali è possibile fare ricorso contro gli stessi ordinari.
Questi mi sembrano in estrema sintesi i punti più positivi.

Tuttavia l’art. 19 dell'Istruzione "Universae Ecclesiae" dichiara che non sono autorizzati a chiedere la S. Messa di sempre i fedeli che non riconoscono la validità e la legittimità del Messale Riformato da Paolo VI. Come giudica tale limitazione?

In tutta sincerità non riesco a giudicarla perché la trovo incomprensibile.
Ho sempre ritenuto che il santissimo rito della Messa avesse un valore intrinseco, soprattutto in relazione al fine latreutico che le è proprio.
A prescindere da ogni altra considerazione, non è dato di capire su quale base giuridica o teologica il valore di un rito plurisecolare dichiarato mai abrogato e la possibilità di celebrarlo possano essere determinati dalle disposizioni soggettive di chi assiste o lo richiede.
Si entra in una prospettiva folle e impraticabile. Per esempio, che cosa dovrebbe fare un sacerdote che si rendesse conto che su 10 fedeli che richiedono la celebrazione della Messa, 5 avessero obiezioni sulla Messa di Paolo VI? Che cosa dovrebbe fare un sacerdote se avesse lui stesso delle gravissime riserve sul nuovo rito, dal momento che la limitazione riguarda solo i fedeli? (1)
Se i due riti sono considerati due forme equivalenti dello stesso rito romano, non è dato di capire perché il rito tridentino sia così pericoloso da postulare una sorta di esame previo di ammissione.
Infine, se si entra onestamente in tale logica, non è dato di capire perché non sia stato richiesto ai sacerdoti e ai vescovi che rifiutano apertamente il rito tridentino di astenersi dal celebrare quello nuovo finché non demordono dal loro proposito.
Penso che l’art. 19 dell’istruzione, se da una parte è espressione di un tipico atteggiamento diplomatico, dall’altra possa purtroppo essere assimilato ad una sorta di malcelato ricatto morale. Esso rivela la consapevolezza da parte dei vescovi che la Messa Tridentina veicola inevitabilmente una ecclesiologia incompatibile con quella del Concilio e del Novus Ordo. Di conseguenza la Messa tridentina può essere concessa unicamente esercitando un controllo diretto sulle coscienze dei fedeli. La cosa mi sembra piuttosto allarmante.

Ci sono nel documento altri punti in cui, secondo lei, emerge la volontà di esercitare un controllo di questo tipo?

A mio modesto avviso ve ne è uno in particolare. Mentre il motu proprio ripristinava oltre al messale il libero uso di tutti i libri liturgici, l’istruzione vieta tale utilizzo in un caso ben preciso: quello delle ordinazioni sacerdotali, eccezion fatta per gli istituti religiosi facenti riferimento all’Ecclesia Dei o che già utilizzano il rito tridentino (Cfr. art 31).
La cosa è abbastanza sorprendente, soprattutto nel caso delle ordinazioni diocesane, considerando che la moderna ecclesiologia insiste tantissimo nel riconoscere nel vescovo diocesano il moderatore della liturgia e il vero liturgo in quanto successore degli apostoli; tuttavia la spiegazione sembra essere abbastanza scontata se facciamo riferimento ai classici compromessi tipicamente curiali.
È evidente che mentre un istituto Ecclesia Dei è direttamente controllato dall’organismo vaticano competente, con tanto di statuto firmato e controfirmato (fornirò un esempio in questa stessa sede), un vescovo che utilizzasse i libri liturgici del 1962, non potrebbe esserlo negli stessi termini.
Di conseguenza la richiesta formale e perentoria di procedere alle ordinazioni secondo il nuovo rito è il segno esterno considerato sufficiente per dimostrare che gli ordinandi, e lo stesso vescovo, accettano pienamente l’art. 19 dell’istruzione, adottando il nuovo rito per l’evento indubbiamente più importante e significativo della loro vita e della vita della diocesi.
Questa richiesta ha, tutto sommato, un valore analogo alla prassi quasi universale inerente all’applicazione dell’indulto del 1984: nelle varie diocesi in cui l’indulto era concesso, veniva chiesto di non celebrare in rito tradizionale a Natale e a Pasqua, onde permettere ai fedeli di manifestare il proprio legame con la parrocchia e quindi la loro accettazione del rito di Paolo VI.
Significativa fu pure, su questa medesima linea, l’ingiunzione imposta nel 2.000 alla Fraternità San Pietro di accettare che i propri membri potessero celebrare liberamente secondo il nuovo rito, unitamente al caloroso invito a concelebrare con i vescovi diocesani almeno il Giovedì Santo, onde esprimere la propria comunione con l’ordinario locale e quindi la loro pubblica e perfetta accettazione del Novus Ordo Missae; si noti che pur essendo la Fraternità San Pietro un istituto Ecclesia Dei, la misura si rivelò necessaria proprio nel momento in cui all’interno della congregazione si facevano più forti i toni di opposizione al rito di Paolo VI in alcuni membri refrattari. Nello stesso frangente fu destituito direttamente dall’Ecclesia Dei l’allora superiore generale e sostituito con un sacerdote scelto non dal capitolo ma imposto dall’Ecclesia Dei stessa.
Era allora prefetto della Congregazione per il Culto Divino il Card. Medina Estevez, mentre il Card. Castrillon Hoyos ricopriva da poco la carica di presidente dell’Ecclesia Dei.
Stando così le cose l’ingiunzione dell’istruzione, unitamente al citato art. 19, sembra ispirarsi di più all’indulto di Giovanni Paolo II che al motu proprio di Benedetto XVI.
Ora però è stato certificato dallo stesso Benedetto XVI che l’indulto del 1984 pretendeva concedere generosamente, in alcuni casi e a certe condizioni precise, l’uso di un messale in realtà mai abrogato: l’Universae Ecclesiae sembra ricadere in questa assurdità giuridica e morale, comprensibile solo in un contesto di disprezzo e di paura - preferisco non parlare di odio - verso tutto ciò che sa di tridentino.
Dulcis in fundo, siccome tutti sanno che la Fraternità non accetterà mai né l’art 31, né il l’art. 19, ecco che tutti gli scontenti da una parte la criticano per la sua “disobbedienza”, cercando così di ostentare la propria “legalità”, dall’altra la osservano sperando che la sua intransigenza ottenga di riflesso qualcosa di positivo anche per loro.
E così riparte quel meccanismo del “sequebatur a longe ut videret finem”, e della speranza strumentale sulla Fraternità, a cui abbiamo già fatto riferimento.

Nel 2011 ricorrono venti anni dalla morte di mons. Marcel Lefebvre. A distanza di due decenni la sua figura continua a far discutere ed anzi, sembra quasi che più passa il tempo, più susciti interesse negli ambienti ecclesiali e culturali. A cosa è dovuta, a suo parere, questa "seconda giovinezza" di un Prelato giudicato da molti anacronistico e vecchio?

Monsignor Lefebvre ha incarnato qualcosa di intramontabile: la Tradizione della Chiesa, e se c’è stato un vescovo in cui la Tradizione non ha mai cessato di essere “vivente” (mi sia concesso l’uso del termine) è stato proprio il vescovo “ribelle”. Per esempio l’unico prelato che non ha mai cessato di celebrare pubblicamente nel rito tradizionale, allora erroneamente considerato abrogato e bandito, è stato il fondatore della Fraternità San Pio X: egli non si è limitato a riconsegnare alle nuove generazioni un messale stampato e impolverato, ma ha custodito e trasmesso un tesoro vivo e reale, presente quotidianamente sull’altare, dal quale era completamente coinvolto in tutta la sua persona.
Se veramente è incominciata una presa di coscienza che la crisi della Chiesa abbia la sua radice e si manifesti soprattutto in una crisi del sacerdozio e della liturgia, è inevitabile che si faccia riferimento a colui che spese tutte le sue energie a salvare l’uno e l’altra.
Pertanto è inevitabile che se si parla di Messa tridentina o di Tradizione, anche il più riluttante, sia costretto a parlare di lui, se non altro per prendere le distanze e per autocertificarsi politicamente corretto.
Ma chi parla di lui, nel bene o nel male, non può farlo senza parlare di una Tradizione che, lungi dall’essere “lefebvriana”, è semplicemente e per sempre cattolica.

Note
(1) In realtà il semplice sacerdote è tenuto a riconoscere la piena legittimità del nuovo rito almeno nel giorno della propria ordinazione, come chiarito in seguito. N.d.R.

Il nuovo arcivescovo (e futuro cardinale) di Filadelfia



Trovo finalmente il tempo per scrivere due righe sull'ultima importante nomina di Papa Benedetto: quella di mons. Chaput (nella foto), finora arcivescovo di Denver, alla sede pure archiepiscopale, ma assai più importante, di Filadelfia. La capitale della Pennsilvania, città tra le più antiche e popolose del Nordamerica, è una sede tradizionalmente cardinalizia ed infatti attualmente vi risiede un cardinale, Justin Rigali. Insomma: si incrementa quella felice tendenza di 'bonifica episcopale' che prosegue da tempo negli Stati Uniti, che pure furono, dai 'formidabili' anni Sessanta in poi, uno degli epicentri di progressismo ecclesiale e campo di sperimentazione delle più micidiali armi di distruzione di Messa.

Mons. Chaput, che non dubitiamo entrerà presto a far parte del collegio cardinalizio, è infatti un sacerdote ortodosso e, cosa ancor più rimarchevole, coraggioso. Non scende a compromessi in temi di morale e di dottrina e lo dice chiaro e forte. Lo si è visto tra l'altro quanto ha criticato il mostro sacro Kennedy per le sue tesi di separazione tra la religione e lo Stato (vedi qui); o quando ha agito efficacemente per rimuovere un rifiuto tossico come l'australiano vescovo Morris di Toowoomba (vedi qui). Molto dure le sue critiche all'università formalmente cattolica di Notre Dame, per avere conferito la laurea honoris causa all'abortista Obama.

La nomina è quindi decisamente positiva. Tosatti vi vede la mano del cardinale Burke e, se così fosse, non potrebbe che farci piacere. Più in generale, la mossa sembra rappresentare una più felice stagione di scelte episcopali, visto che si affianca a quelle pure positive del nuovo vescovo di Berlino, Rainer Maria Woelki, e di Scola a Milano. Forse il nuovo Prefetto della Congregazione per i Vescovi, mons. Ouellet, sta cominciando a prenderci la mano; o forse si tratta di una reazione alla orripilante scelta di Fontlupt a vescovo di Rodez, davvero il punto più basso toccato negli ultimi tempi. Anche l'ultima scelta transalpina ssembra passabile: l'ex vescovo ausiliario di Strasburgo, Jordy, diventa arcivescovo a Saint-Claude. Strasburgo è centro di orrori liturgici (vi ricordate la grottesca danza di Pentecoste del vicario episcopale?), sicché potremmo dire che, in terra caecorum, Jordy è soltanto un orbo.

Ma per tornare a Chaput, non vogliamo nasconderci che tutto il suo rigore morale e dottrinale non lo rende comunque un nuovo Ranjith, un nuovo Burke o un nuovo Piacenza. Purtroppo, la sua sensibilità liturgica ne fa più uno spettatore, pur benevolo, che non un artefice del progetto di restaurazione tradizionale iniziato con questo pontificato. Da quanto afferma sembra non avere bene afferrato (ma è un difetto comune, specie per la sua generazione) che la crisi della Chiesa, è dovuta al crollo della liturgia, come ha dichiarato Joseph Ratzinger. Peccato, perché senza il focus posto sull'aspetto liturgico, che ha come necessario corollario il recupero della dottrina tradizionale, mons. Chaput rischia di restare nei limiti di un certo woitylismo che ha mostrato, col tempo, tutti i suoi limiti.

Ecco alcuni appunto passaggi salienti di un'intervista di Chaput concessa la settimana scorsa a John Allen

Enrico

 [..]
- Lei sa che cosa diranno probabilmente i titoli dei giornali: "Il Papa nomina un ultraconservatore a Filadelfia", oppure: "Un duro prende la Chiesa di Filadelfia". Lei è davvero un ultraconservatore e un duro?
Io in realtà non mi vedo affatto come un conservatore. Tento di essere fedele all'insegnamento della Chiesa, come la Chiesa ce lo ha trasmesso. Non sento che come cristiano o come vescovo io abbia il diritto di giocare con quella tradizione, che è la tradizione apostolica della Chiesa. Spero di essere creativo e contemporaneo, comunque, nell'applicare quell'insegnamento e nella sua applicazione nella chiesa locale.
Penso che se la gente venisse e guardasse coi suoi occhi all'arcidiocesi di Denver, vedrebbe che noi non siamo una diocesi 'conservatrice' ma siamo una diocesi molto creativa. Siamo aperti alla leadership dei laici, ai nuovi movimenti e a modi alternativi di fare le cose di là di quanto è stato fatto in passato. Ad esempio, voglio certamente essere fedele al Santo Padre e al suo insegnamento circa l'espressione tradizionale della liturgia romana in forma tridentina. L'ho sostenuta e continuerà a sostenerla. Non è, tuttavia, il mio interesse personale o la mia direzione.
Circa l'essere un 'duro', penso che le persone che mi conoscono, i miei sacerdoti e altri, direbbero che io sono una persona piuttosto garbata e gentile, ma anche che io non scappo dai problemi. Non ho intenzione di nascondermi. Dobbiamo affrontare le cose difficili subito, piuttosto che lasciarle marcire

[..]

- Mi piacerebbe fare una veloce messa a fuoco di alcune questioni controverse. L'idea è di ottenere la Sua sintetica posizione, senza entrare in dettagli. Cominciamo con quella che ha già sollevato: la messa in latino.
La messa in latino è profondamente amata da alcuni membri della Chiesa. Il Santo Padre, a partire da Giovanni Paolo II e continuando con Benedetto XVI, ha chiesto ai vescovi di essere molto sensibili ai loro bisogni. Io sono stato ordinato a Rapid City, nel 1988, al tempo in cui il Santo Padre ha istituito la Commissione "Ecclesia Dei". Appena mi resi conto del suo desiderio, ho accolto con favore la Fraternità sacerdotale di San Pietro a Rapid City per stabilire una comunità per soddisfare le esigenze di quelle persone. C'erano tre o quattro comunità San Pio X [secessionisti] nella diocesi, ma quando ho lasciato la diocesi esse erano tutte scomparse perché siamo venuti incontro alle loro esigenze. A Denver, abbiamo una parrocchia vera e propria, servita dalla Fraternità di San Pietro, e abbiamo due altri luoghi dove il sacerdote, almeno nelle grandi occasioni se non ogni settimana, celebra la forma tridentina della liturgia.
Sono molto felice di seguire l'esempio del Santo Padre su tutto questo, perché ha intuizioni che non ho. Ha anche un'ispirazione dello Spirito Santo che non io ho.
[..]

Fonte: NCR

lunedì 25 luglio 2011

Si fa presto a dire "cristiano fondamentalista"


Nell'espressione "cristiano fondamentalista", il primo termine è evidentemente di troppo, se applicato al pluriomicida norvegese che, ossessionato dall'invasione islamica dell'Europa, ha reso all'islam il più prezioso servizio di immagine che mille militanti di Al-Quaeda non sarebbero mai riusciti ad ottenere. Di per sé è del tutto improprio definire 'cristiano', sia pure in senso pervertito e fanatico, chi si mette a sparare contro decine di vittime innocenti. Ma la definizione è doppiamente errata, ed anzi subdola, se consideriamo più da vicino l'ideologia del sig. Breivik (nella foto). A cominciare dalla sua rivendicata affiliazione frammassonica. Che non sarà di per sé incompatibile con il proteiforme credo protestantico, a differenza di quanto avviene per il cattolicesimo; ma di sicuro nessun fondamento ha di cristiano.

Enrico

di M. Introvigne

L’orribile tragedia di Oslo chiede anzitutto rispetto e preghiera per le vittime, quindi una riflessione sulle misure di vigilanza che anche società, come quelle scandinave, che tengono al loro carattere «aperto», oggi non possono mancare di adottare a fronte delle numerose e molteplici forme di terrorismo. Tra queste misure, però, non ci può e non ci dev’essere una stigmatizzazione dei «fondamentalisti cristiani», dipinti come criminali e potenziali terroristi. È veramente sfortunato che la polizia norvegese, subito ripresa dai media di tutto il mondo, abbia inizialmente presentato l’attentatore, Anders Behring Breivik, come un cristiano fondamentalista, e che in Italia alcuni media lo abbiano definito perfino – falsamente – un cattolico.

L’incidente mostra semplicemente come oggi «fondamentalista» sia una parola usata in modo generico e impreciso per indicare chiunque abbia idee estremiste o genericamente «di destra», e un riferimento, anche se vago, al cristianesimo. Ne nasce facilmente il fenomeno sociale della «colpevolezza per associazione», per cui qualunque cristiano che sia, per esempio, contro l’aborto o il riconoscimento delle unioni omosessuali diventa un fondamentalista e, dal momento che l’attentato di Oslo è stato attribuito a un adepto del fondamentalismo, anche un potenziale terrorista. Proprio pochi giorni prima dell’attentato di Oslo l’Osservatorio sull’Intolleranza e la Discriminazione contro i Cristiani di Vienna aveva inviato ai responsabili del progetto RELIGARE, un’indagine sull’Europa multireligiosa finanziata dalla Commissione Europea, un corposo memorandum sui pericoli di un uso del termine «fondamentalismo» che diventa strumento di discriminazione anticristiana.

L’espressione «cristiano fondamentalista», beninteso, ha un significato preciso. Risale alla pubblicazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 1915degli opuscoli The Fundamentals, una critica militante delle teologie protestanti liberali, del metodo storico-critico nell’interpretazione della Bibbia e dell’evoluzionismo biologico. Un fondamentalista è un protestante – di solito, tra l’altro, molto anti-cattolico – che insiste sull’interpretazione letterale e tradizionale della Bibbia, rifiutando qualunque approccio ermeneutico che tenga conto delle scienze umane moderne, e da questa interpretazione deduce principi teologici e morali ultra-conservatori.

Anders Behring Breivik non è un fondamentalista. Possiamo sapere parecchie cose delle sue idee dal suo profilo su Facebook – cancellato, ma non prima che qualcuno lo avesse salvato e messo online –, da oltre sessanta pagine d’interventi sul sito anti-islamico norvegese document.no, disponibili anche in lingua inglese e soprattutto dal suo libro di 1.500 pagine 2083 - Una dichiarazione d’indipendenza europea, firmato «Andrew Berwick», mandato a una serie di amici e di giornali il 22 luglio, a poche ore dalla strage, e postato su Internet il 23 luglio da Kevin Slaughter, un ministro ordinato nella Chiesa di Satana fondata in California da Anton Szandor LaVey (1930-1997), che ha oggi nel mondo il numero maggiore di adepti in Scandinavia.

Già dalla sua pagina di Facebook, emerge come un interesse principale di Breivik sia costituito dalla massoneria. Chi visitava il profilo di Breivik su Facebook era colpito da una fotografia che lo rappresenta con tanto di grembiulino massonico come un membro di una loggia di San Giovanni, cioè di una delle logge che amministrano i primi tre gradi nell’Ordine Norvegese dei Massoni, la massoneria regolare della Norvegia. Breivik fa parte della Søilene, una delle logge di San Giovanni di Oslo di questo Ordine, che naturalmente non ha di per sé niente a che fare con l’attentato. Queste logge praticano il cosiddetto rito svedese, che richiede ai membri la fede cristiana. Ma nessun fondamentalista protestante diffonderebbe sue fotografie in tenuta massonica: il fondamentalismo, al contrario, è fortemente ostile alla massoneria. Né si tratta di un interesse del passato: la fotografia è stata postata nel 2011 e ancora nel 2009 su document.no Breivik proponeva una raccolta di fondi «nella mia loggia».

Aggiungiamo che anche la passione di Breivik per il gioco di ruolo online World of Warcraft e per una serie televisiva di vampiri piuttosto scollacciata, Blood Ties, nonché la dichiarata amicizia per il gestore del principale sito pornografico norvegese, «nonostante la sua morale sfilacciata» – per non parlare del fatto che uno dei destinatari del suo memoriale è un satanista –, sono tutti tratti che sarebbero assurdi per un cristiano fondamentalista. I toni ricordano semmai Pim Fortuyn (1948-2002), l’uomo politico omosessuale olandese fondatore di un movimento populista anti-islamico. Se una parte del libro apprezza la famiglia tradizionale, altrove Breivik dichiara di considerare ammissibile l’aborto – sia pure in un numero limitato di casi – e rivela anche di «avere messo da parte duemila euro che intendo spendere per una escort di alta qualità, una vera modella, una settimana prima dell’esecuzione della mia missione [terroristica]».

I testi – che rivelano ampie anche se disordinate letture – non appaiono quelli di un semplice folle, anche se ci sono tratti di megalomania e contraddizioni evidenti. L’interesse principale di Breivik non è la religione, ma la lotta all’islam che rischia, a suo dire, di sommergere l’Europa – e tanto più un Paese piccolo come la Norvegia – con l’immigrazione. Queste idee non sono, naturalmente, particolarmente originali – e alcuni degli autori che Breivik cita, e di cui propone nel libro 2083 una sorta di lunga antologia, sono del tutto rispettabili –, ma la tesi è declinata con toni che talora diventano razzisti e paranoici.

Lo scopo primo di Breivik è fermare l’islam – di qui la sua avversione per il governo norvegese, percepito come favorevole a un’indiscriminata immigrazione islamica –, e per questo cerca alleati dovunque. Racconta di avere scelto volontariamente di essere battezzato e cresimato nella Chiesa Luterana norvegese a quindici anni – la famiglia, ricca e agnostica, gli aveva lasciato libera scelta – ma  di essersi convinto che le comunità protestanti sono ormai morte e hanno ceduto alle ideologie multiculturaliste e filo-islamiche. In un primo momento, scrive, i protestanti dovrebbero confluire nella Chiesa Cattolica. Ma anche la Chiesa Cattolica si è ormai venduta all’islam quando l’attuale Pontefice ha deciso di continuare il dialogo interreligioso con i musulmani. Breivik minaccia Benedetto XVI, scrivendo che «ha abbandonato il cristianesimo e i cristiani europei e dev’essere considerato un Papa codardo, incompetente, corrotto e illegittimo». Una volta eliminati i protestanti e il Papa, potrà essere organizzato un «Grande Congresso Cristiano Europeo» da cui nascerà una «Chiesa Europea» completamente nuova, identitaria e anti-islamica.

Se Breivik ha un nemico, l’islam, ha anche un amico – immaginario, perché non sembra ci siano stati grandi contatti diretti –: il mondo ebraico, che considera il più sicuro baluardo anti-musulmano. Il terrorista mostra un vero culto per lo Stato d’Israele e per le sue forze militari, cui corrisponde una viva avversione per il nazismo. «Se c’è una figura che odio – scrive – è Adolf Hitler [1889-1945»: e fantastica di viaggi nel tempo per andare nel passato e ucciderlo. È vero che s’iscrive a un forum Internet di neo-nazisti, ma lo fa per cercare di convincerli che, se alcune idee del führer sul primato etnico degli occidentali erano giuste, l’errore clamoroso è stato non capire che gli occidentali più puri e nobili sono gli ebrei, e che se avesse voluto sterminare qualcuno il nazismo avrebbe dovuto piuttosto andare a prendere i musulmani nel Medio Oriente. 

Un riferimento frequente è del resto all’inglese English Defence League – con cui sembra ci siano stati anche contatti diretti –, un movimento anti-islamico «di strada» che è regolarmente accusato di essere razzista e altrettanto regolarmente contesta questa accusa e critica il neo-nazismo. Breivik scrive che il multiculturalismo è una forma di razzismo e che «non si può combattere il razzismo con il razzismo». Il nazismo, il comunismo e l’islam sono per Breivik tre volti della stessa dottrina anti-occidentale, e tutti e tre andrebbero messi fuorilegge. Ma l’enfasi è sempre sulla lotta all’islam. Chiunque sia nemico, attuale o potenziale, dei musulmani diventa un possibile alleato: così gli atei militanti, piuttosto diffusi in Norvegia, che Breivik invita a combattere l’islam e non solo il cristianesimo; così gli omosessuali, cui fa presente che in un mondo dominato dai musulmani saranno perseguitati.

Non è sorprendente neppure il contatto con la Chiesa di Satana, che predica una forma di satanismo «razionalista» che inneggia al predominio dei forti sui deboli e alle virtù del capitalismo selvaggio secondo le teorie della scrittrice americana Ayn Rand (1905-1982), citata spesso anche dal terrorista, e che in Scandinavia se la prende volentieri con gli immigrati. Perfino i rom, secondo Breivik, sarebbero stati resi schiavi in India e ridotti alla loro attuale misera condizione non da popolazioni indù – come insegna la storiografia maggioritaria – ma da musulmani. Pertanto – un altro tratto che lo distingue da molta estrema destra europea – Breivik si mostra piuttosto favorevole ai rom, li incita a combattere l’islam e promette loro nella sua nuova Europa perfino uno Stato libero e indipendente.

Un tono «religioso» si può ritrovare semmai nelle sue ferventi difese degli ebrei e dello Stato d’Israele. Questo è un tema che emerge anche in qualche gruppo protestante fondamentalista – sulla base dell’idea che Israele sia uno Stato voluto da Dio in vista della fine del mondo – ma gli accenti di Breivik sono diversi. Anche se mancano riferimenti diretti, ricordano irresistibilmente l’ideologia anglo-israelita, nata nel secolo XIX in Gran Bretagna e molto diffusa in Scandinavia, specie negli ambienti massonici, secondo cui gli abitanti del Nord Europa sono anche loro «ebrei», discendenti delle tribù perdute d’Israle: il nome «danesi», per esempio, indicherebbe la tribù di Dan. Il movimento anglo-israelita si è scisso nel secolo XX in due tronconi. Quello maggioritario, talora violento e responsabile di attentati negli Stati Uniti, sostiene che gli europei del Nord sono oggi i soli «ebrei» autentici. Quelli che si fanno chiamare ebrei, in Israele e altrove, non sono tali etnicamente, giacché sarebbero in maggioranza khazari, membri di una tribù centro-asiatica convertita all’ebraismo nei secoli VIII e IX. Di qui un’avversione del «movimento dell’identità» di origini anglo-israelite contro Israele e i suoi legami con gruppi antisemiti e neo-nazisti.

Ma – se questo filone dell’anglo-israelismo domina negli Stati Uniti – nel Nord Europa è ancora presente un filone più antico, per cui gli ebrei così come oggi li conosciamo sono veri eredi della tribù di Giuda, in attesa di ricongiungersi con i fratelli anglosassoni e scandinavi delle tribù perdute. Chi mantiene questa visione considera dunque i nord-europei fratelli degli ebrei e, ben lungi dall’essere antisemita, difende in modo molto acceso l’ebraismo e lo Stato d’Israele.

Secondo il suo libro, il terrorista nel 2002 avrebbe fondato con altri a Londra un ordine neo-templare che si affianca ai tanti che già esistono, i Poveri Commilitoni di Cristo del Tempio di Salomone (PCCTS), ispirato non solo ai templari cattolici del Medioevo ma soprattutto ai gradi templari della massoneria – un’organizzazione di cui Breivik cui loda il «ruolo essenziale nella società», pur considerandola incapace di passare alla necessaria azione militare – e aperto a «cristiani, cristiani agnostici e atei cristiani», cioè a tutti coloro che riconoscono l’importanza delle radici culturali cristiane, «ma anche di quelle ebraiche e illuministe» nonché «nordiche e pagane», per opporsi ai veri nemici che sono l’islam e l’immigrazione.

Tra questi riferimenti eclettici, il cristianesimo non è dominante. Cita moltissimi autori, ma il suo padre spirituale è l’anonimo blogger norvegese anti-islamico «Fjordman», che nel 2005 aveva un milione di lettori ma che chiuse il suo blog senza essere mai identificato. Breivik ripubblica un suo scritto secondo cui dopo il Medioevo il cristianesimo – i cui unici aspetti positivi erano di origine pagana –  è diventato per l’Europa «una minaccia peggiore del marxismo».

I «giustizieri templari» di Breivik dovrebbero operare in tre fasi di «guerra civile europea». Nella prima (1999-2030) dovrebbero risvegliare la coscienza addormentata degli europei mediante «attacchi shock di cellule clandestine», scatenando «gruppi di individui che usano il terrore»: gruppi piccoli, anche di una o due persone. Nella seconda (2030-2070) si dovrebbe passare alla guerriglia armata e ai colpi di Stato. Nella terza (2070-2083), alla vera guerra contro gli immigrati musulmani. Breivik è consapevole che gli attacchi della prima fase trasformeranno coloro che li compiranno in terroristi odiati da tutti: ma questa è la forma di «martirio templare» cui si dice disposto.

Obiettivi degli «attacchi shock» sono i partiti politici: i laburisti norvegesi anzitutto, ma sono segnalati anche quattro partiti italiani (PDL, PD, IDV, UDC) che boicotterebbero in modo diverso la guerra all’islam e all’immigrazione. In Italia ci sarebbero sessantamila «traditori» da colpire, anche attraverso attacchi alle raffinerie per sconvolgere l’assetto energetico italiano. Sedici raffinerie italiane, da Trecate (Novara) a Milazzo, sono indicate come obiettivi strategici. Anche su Papa Benedetto XVI ci sono frasi minacciose. Sempre secondo il libro 2083, il numero di potenziali simpatizzanti italiani sarebbe pure di sessantamila: ma questi non si troverebbero né nella Lega né ne La Destra, che Breivik ha esaminato ritenendo le loro critiche anti-immigrazione troppo timide e dunque alla fine «controproducenti». Poiché ne sono uno dei Rappresentanti, mi inquieta anche la riproduzione di un articolo che indica l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) come un organismo internazionale particolarmente filo-islamico e pericoloso.

La domanda forse più importante è se quando Breivik riferisce che il suo ordine di giustizieri templari conta membri in vari Paesi europei ed è in contatto con quelli che il mondo chiama «criminali di guerra» serbi seguaci di Radovan Karadzic, che per lui invece sono eroi che hanno cercato di liberare i Balcani dall’islam, sta scrivendo un romanzo nello stile dello svedese Stieg Larsson (1954-2004) o descrivendo una realtà. Altri particolari autobiografici del libro che sembravano improbabili – la presenza nella sua famiglia di diplomatici, la frequentazione da ragazzo di scuole di élite – sono stati confermati dalla polizia norvegese. La stessa polizia dovrà verificare se la nascita dell’ordine neo-templare, i contatti con i criminali di guerra serbi e un viaggio in Liberia per farsi addestrare da  uno di loro, «uno dei più grandi eroi europei», prima di fondare l’ordine con otto compagni a Londra nel 2002 sono frammenti dell’immaginazione di Breivik o episodi realmente accaduti. Quello che è certo è che un buon terzo del suo libro – un vero e proprio manuale del terrorista, corredato da un diario sulla preparazione dell’attentato – rivela dettagliate conoscenze in materia di armi, esplosivi, la nuova tecnica terroristica chiamata «open source warfare», che può essere messa in opera anche da gruppi piccolissimi, e l’abbigliamento antiproiettile – calzini compresi, dettaglio spesso trascurato e cui Breivik dedica parecchie pagine – difficili da ottenere, anche se Internet fa miracoli, da parte di qualcuno che non ha fatto neppure il servizio militare.

Breivik scrive sempre in tono paranoico. Ma – se vogliamo, come si dice, trovare un metodo nella sua follia – dobbiamo cercarne il filo conduttore principale in un populismo anti-islamico che finora aveva conosciuto raramente forme violente, e uno secondario in una solidarietà pressoché mistica fra l’identità nordica e quella ebraica e israeliana, che ha le sue radici in antiche teorie esoteriche e massoniche di cui Breivik è un cultore. L’unica cosa certa è che il cristianesimo – «fondamentalista» o no – c’entra ben poco, se non come uno fra i tanti improbabili alleati che il terrorista immaginava di reclutare per la sua battaglia violenta contro l’immigrazione islamica.

Fonte: Cesnur