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domenica 28 febbraio 2010

La dottrina cattolica sul sacerdozio ministeriale prima, durante e dopo il Concilio Vat. II. Prima parte.

di Don Mauro Gagliardi - docente all'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma. Per gentile concessione dell'autore. L'articolo completo è stato pubblicato su Sacrum Ministerium 15 (2009/2), pp. 65-99. Di seguito omettiamo invece le note a pié di pagina.


0. Introduzione

Viene qui offerto un breve saggio sulla dottrina cattolica sul sacerdozio ministeriale, in particolare nel grado del presbiterato. Dati i limiti di questa presentazione, che tocca temi molto complessi, procederemo per cenni e schematizzazioni, evitando numerosi riferimenti e rimandi, che sarebbero necessari, o almeno utili, in una trattazione che volesse proporsi come tendenzialmente completa.


1. Il sacerdozio ordinato nel Magistero della Chiesa fino al Vaticano II

Sin dagli scritti dei santi Clemente Romano e Ignazio Antiocheno, si evince l’esistenza e diffusione, nella Chiesa subapostolica, di tre gradi del ministero ordinato: episcopato, presbiterato e diaconato. Qui noi ci interessiamo prevalentemente del presbiterato, che chiameremo anche sacerdozio, citando alcuni dei documenti magisteriali più importanti, tralasciando i riferimenti ai Padri della Chiesa ed ai Dottori.
Contro i Valdesi, i quali negavano che, per celebrare validamente l’Eucaristia, fosse necessario il sacerdote ministro, il Concilio Lateranense IV (1215) intervenne con chiarezza: «Questo sacramento non può assolutamente compierlo nessuno, se non il sacerdote, che sia stato regolarmente ordinato» (DS 802).
Più ampia è la dottrina del Concilio di Firenze del 1439. Nella Bolla di unione con gli Armeni Exsultate Deo, si espone una sintetica dottrina sul settenario sacramentale, in cui si insegna: «Con il sacramento dell’Ordine la Chiesa è governata e moltiplicata spiritualmente» (DS 1311). Insieme al Battesimo ed alla Cresima, l’Ordine è fra i sacramenti «che imprimono nell’anima un carattere indelebile, ossia un segno spirituale che distingue dagli altri» (DS 1313). Il sacerdote è ministro di diversi sacramenti: Battesimo (DS 1315), Eucaristia (DS 1321), Penitenza (DS 1323), Estrema unzione (DS 1325), e in certi casi può amministrare anche la Cresima (DS 1318). Nel celebrare l’Eucaristia, «il sacerdote consacra parlando in persona di Cristo [in persona Christi]» (DS 1321). Il Concilio Fiorentino precisa anche la materia del sacramento di ordinazione, consistente nella porrectio instrumentorum – ossia nella consegna degli strumenti propri ad ogni grado dell’ordine –; e la forma, consistente nella formula di ordinazione fissata dalla Chiesa (DS 1326). La formula è la seguente: «Ricevi il potere di offrire il sacrificio nella Chiesa, per i vivi e per i morti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (ibid.), dal che si deduce che l’essenza del sacerdo-zio ordinato consiste nell’offerta del sacrificio eucaristico nella Chiesa e nel nome della Trinità.
Il terzo Concilio che si è occupato sistematicamente del sesto sacramento è il Concilio di Trento (1545-1563), la cui dottrina sul sacerdozio viene meglio compresa se si conosce la dottrina luterana sull’Eucaristia e sull’Ordine sacro, che qui non è possibile riassumere. Il can. 9 del Decretum de sacramentis del 1547 scomunica chi afferma che con il sacramento dell’Ordine non viene impresso nell’anima il carattere, «cioè un segno spirituale ed indelebile» (DS 1609). Il can. 10 scomunica chi affermi che «tutti i cristiani hanno il potere di annunciare la Parola [di Dio] e di amministrare tutti i sacramenti» (DS 1610). Il can. 11 afferma, sotto condanna del contrario, che i ministri celebrano validamente i sacramenti se hanno almeno l’intenzione di fare quello che fa la Chiesa quando li celebra (DS 1611). Il can. 12 insegna, sotto minaccia di scomunica per chi sostiene l’affermazione contraria, che il ministro celebra validamente i sacramenti anche se si trovasse personalmente in peccato mortale (DS 1612).
Il Decreto sulla Doctrina de sacramento paenitentiae, del 1551, afferma che solo i vescovi e i sacerdoti sono ministri del sacramento della Penitenza, perché solo ad essi e non a tutti i fedeli è stato conferito il potere delle chiavi, e che essi esercitano validamente la fun-zione di perdonare i peccati perché sono ministri di Cristo, anche se fossero essi stessi in peccato mortale (DS 1684; 1710). Nel sacramento della Penitenza, il sacerdote, nel dichiarare rimessi i peccati, emette una sentenza a guisa di atto giudiziario, ossia in quanto giudice (DS 1685; 1709). Il Decreto sulla Doctrina de sacramento extremae unctionis insegna che ministri del sacramento dell’Estrema Unzione sono i presbiteri della Chiesa, espressione con cui bisogna intendere, nel passo di Gc 5,14, sia i vescovi che i sacerdoti da essi ordinati (DS 1697; 1719) .
Molto importante per il nostro tema è anche il Decreto di Doctrina et canones de Ss. Missae sacrificio, del 1562. In esso si mette in chiara relazione il sacerdozio ordinato con il sacerdozio unico di Gesù Cristo. Si dice, infatti, che il Signore Gesù istituì l’Eucaristia «poiché il suo sacerdozio non doveva estinguersi con la morte» e perciò Egli – «sacerdote eterno secondo l’ordine di Melchisedech» – costituì gli apostoli «sacerdoti della nuova alleanza» e «comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio» che offrissero il «sacrificio visibile» ed incruento, ossia l’Eucaristia, con cui viene significato il sacrificio cruento della Croce, dal quale siamo stati salvati. Il Concilio precisa che il momento dell’istituzione del sacerdozio degli apostoli coincide con la dizione delle parole «Fate questo in memoria di me» (DS 1740; 1752). I sacerdoti sono considerati dunque come immolatori di Cristo nel sacramento eucaristico: Cristo «istituì la nuova Pasqua, e cioè se stesso, che doveva essere immolato dalla Chiesa per mezzo dei suoi sacerdoti sotto segni visibili» (DS 1741).
Nella Sessione XXIII, del 15 luglio 1563, il Tridentino si occupò direttamente dell’Ordine sacro, producendo il Decreto di Doctrina et canones de sacramento Ordinis. Il testo esordisce dichiarando l’inscindibile legame tra sacerdozio e sacrificio, anche al di fuori dell’economia salvifica cristiana (DS 1764). Siccome il Signore Gesù ha stabilito nell’Eucaristia un nuovo sacrificio, egli ha allora istituito anche un nuovo sacerdozio (DS 1764; 1771). Il Concilio distingue diversi gradi, tra Ordini maggiori e minori (DS 1765; 1772). L’Ordine sacro è certamente uno dei sette sacramenti della Chiesa istituiti da Cristo e il Concilio afferma che, con questo sacramento, viene conferita una speciale grazia (DS 1766; 1773-1774). Siccome il sacramento imprime il carattere, una volta conferito il sacerdozio non è più possibile essere fatti laici (DS 1767; 1774). Dalla sacramentalità dell’Ordine deriva il fatto che non tutti i cristiani sono sacerdoti del Nuovo Testamento, nel senso che non tutti godono dello stesso potere spirituale (DS 1767). Invece, vi è nella Chiesa una gerarchia composta da vescovi, sacerdoti e ministri (DS 1776), in cui i vescovi sono superiori ai sacerdoti (DS 1777).
Recependo gli insegnamenti tridentini, il Catechismus ad Parochos del 1566 sottolinea l’aspetto sacrale-rappresentativo e cultuale-sacerdotale del sacerdozio cattolico. I sacerdoti (vescovi e presbiteri) «sono come interpreti ed ambasciatori di Dio, nel cui nome comunicano agli uomini la legge divina ed i precetti della vita. Essi ne rappresentano sulla terra la persona. È chiaro che nessuna funzione può concepirsi più insigne della loro e che, a ragione, sono chiamati non solo angeli, ma persino dèi; essi infatti rappresentano tra noi l’efficacia e l’azione di Dio immortale» (§ 273) . In questa prima citazione, notiamo il carattere sacrale di «rappresentanza» di Cristo, che è proprio del sacerdote ordinato. L’aspetto cultuale-sacerdotale si trova espresso nello stesso § 273: «Sebbene i sacerdoti abbiano rivestito sempre una dignità somma, quelli del Nuovo Testamento vanno per onore innanzi a tutti gli altri. La potestà ad essi conferita di consacrare e di offrire il Corpo e il Sangue del Signore, e quella di rimettere i peccati, oltrepassano, si può dire, l’ambito dell’intelligenza umana. Non c’è nulla di simile sulla terra».
Continuando nella nostra esposizione in ordine cronologico e per sommi capi, passiamo direttamente alla Lettera Apostolica Apostolicae Curae, emanata il 13 settembre 1896 da Papa Leone XIII, che si occupa delle ordinazioni anglicane, ritenendole invalide. Il motivo per cui il Papa ritiene non valide quelle ordinazioni consiste nel difetto di forma. Se materia di questo sacramento viene considerata l’imposizione delle mani, la forma consiste nella formula di ordinazione, la quale è per gli anglicani: «Ricevi lo Spirito Santo». Per Papa Leone, simili parole «non significano affatto in modo preciso l’Ordine del sacerdozio o la sua grazia e potestà, che in particolare è la potestà “di consacrare e di offrire il vero Corpo e Sangue del Signore” [citaz. del Concilio di Trento: DS 1771]» nel sacrificio della santa Messa (DS 3316). Il Papa è a conoscenza del fatto che, successivamente, gli anglicani hanno corretto la formula aggiungendovi: «per la la funzione e il compito di presbitero [o di vescovo]», segno che essi stessi si sono resi conto dell’insufficienza della prima formulazione. Ma quest’aggiunta, dice Leone XIII, «anche se fosse in grado di apportare alla forma il legittimo significato, è stata introdotta troppo tardi», cioè quando si era già «estinta la gerarchia» presso gli anglicani e quindi «la potestà di ordinazione era ormai nulla» (ibid.). La formula dell’Ordinale anglicano è stata composta in modo inadeguato perché i riformatori lo hanno redatto in modo tale che in esso «non solo non c’è nessuna chiara menzione del sacrificio, della consacrazione e della potestà del sacerdote di consacrare e di offrire il sacrificio; ma anzi [...] sono state deliberatamente eliminate e distrutte tutte le tracce di queste cose» (DS 3317a) [Si noti che l’Ordinale anglicano del 1552 aveva eliminato la consegna del calice e della patena agli ordinandi presbiteri e l’aveva sostituita con la consegna della Bibbia, segno evidente di un’errata comprensione dell’essenza del sacerdozio del Nuovo Testamento]. Eliminando il riferimento al sacrificio ed al potere sacerdotale correttamente inteso, le formule «Ricevi lo Spirito Santo» e «per la funzione e il compito di presbitero [o di vescovo]» non hanno più consistenza (DS 3317b). Il vizio di forma, infatti, comporta il vizio di intenzione, la quale è ugualmente necessaria per la validità del sacramento (DS 3318) .
Di grande importanza è anche la Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis, emanata il 30 novembre 1947 dal Sommo Pontefice Pio XII. La Costituzione si occupa del sacramento dell’Ordine, e precisamente: del diaconato, presbiterato ed episcopato, i quali sono quindi da considerarsi come gradi del sacramento. Non vengono inclusi, invece, gli ordini del suddiaconato, accolitato, lettorato, esorcistato ed ostiariato. In modo particolare, Pio XII si occupa dei riti essenziali con cui si viene ordinati nella Chiesa diaconi, presbiteri e vesco-vi. Il testo inizia affermando che il sacramento dell’Ordine, «mediante il quale viene trasmessa la potestà spirituale e viene conferita la grazia per assumere nel modo dovuto gli uffici ecclesiastici, è uno solo e medesimo per tutta la Chiesa» (DS 3857). Papa Pacelli, poi, identifica la materia e la forma di questo sacramento (nei suoi tre gradi) rispettivamente nell’imposizione delle mani (quindi non nella porrectio instrumentorum) e nelle parole che la determinano (DS 3858-3859). D’altro canto, dice, «la Chiesa Romana ha sempre ritenuto valide le ordinazioni conferite con il rito greco, senza la consegna degli strumenti» (DS 3858). Quest’ultima, strettamente parlando, non è pertanto necessaria per la validità dell’ordinazione. Molto significativo il passaggio in cui si precisa che la forma del sacramento sono le parole «che determinano l’applicazione di questa materia [l’imposizione delle mani], con cui in modo univoco vengono significati gli effetti sacramentali, cioè la potestà d’ordine e la grazia dello Spirito Santo» (DS 3859), chiaramente distinte a seconda dei diversi gradi del sacramento. La forma e materia sono poi precisate grado per grado al n. 5 della Costituzione (DS 3860) .
Dovendo qui tralasciare altri insegnamenti , è infine doveroso, in questo Anno Sacerdotale, promulgato nel 150° anniversario dalla morte di san Giovanni Maria Vianney, menzionare l’Enciclica del beato Giovanni XXIII, Sacerdotii Nostri primordia, emanata il 1° agosto 1959, in occasione del centenario della morte del Curato d’Ars. Nell’enciclica, il Papa si occupa soprattutto della vita spirituale e pastorale dei sacerdoti, più che della dottrina sul sacerdozio, preparando così il taglio eminentemente pastorale del Concilio Vaticano II .

Riprendendo in modo sistematico gli elementi che emergono da questa brevissima pano-ramica, possiamo dire che Gesù Cristo è l’unico Sacerdote del Nuovo Testamento, il cui sacerdozio consiste nell’offerta di sé al Padre per noi. Cristo ha tuttavia istituito il sacerdozio ministeriale nella Chiesa, che posseggono solo quei battezzati che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine sacro nel grado del presbiterato o dell’episcopato. Il presbiterato è uno dei due gradi del sacramento dell’Ordine che conferisce il sacerdozio; l’altro è l’episcopato. I presbiteri sono dunque sacerdoti ministri, perché partecipano del sacerdozio sacrificale di Gesù Cristo, sebbene in grado inferiore ai vescovi. Ciò si vede, ad esempio, dal fatto che il vescovo ed il presbitero sono entrambi ministri di un buon numero di sacramenti, dei quali non sono ministri né i diaconi (ordinati per il servizio, non per il sacerdozio) né tanto meno i laici, i quali posseggono, per il Battesimo, il solo sacerdozio comune dei fedeli.
Il presbiterato si riceve esclusivamente attraverso la valida celebrazione del sacramento dell’Ordine. Il Magistero insegna con chiarezza che nella Chiesa non tutti sono sacerdoti, nel senso del sacerdozio ministeriale o gerarchico. Sono sacerdoti ministri solo i battezzati che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine e solo costoro possono svolgere determinate funzioni nella Chiesa. Infatti il sacramento dell’Ordine trasmette, per usare la terminologia di Pio XII, «potestà» e «grazia» proprie, che non si ricevono con il Battesimo. Rientrano nell’ambito delle potestà del sacerdote ministro: il governo della Chiesa, il potere di celebra-re i sacramenti, l’insegnamento e l’annuncio autorevoli della Parola di Dio. Nell’ambito della grazia, rientra innanzitutto il carattere sacramentale, impresso indelebilmente, cioè per sempre, nell’anima del sacerdote; nonché la cosiddetta «grazia di stato», necessaria al sacerdote per svolgere il suo ministero e santificarsi in esso.
La Chiesa insegna che il sacerdozio si comprende essenzialmente in relazione al sacrificio, e che il sacerdozio del Nuovo Testamento è stato istituito dal Signore in relazione al suo sacrificio di Croce, che si rinnova in modo incruento nella celebrazione dell’Eucaristia. L’essenza del sacerdozio ordinato consiste principalmente nell’offrire al Padre la Vittima divina Gesù Cristo sull’altare dell’Eucaristia, per la santificazione dei fedeli e la salvezza del mondo. Si può dire che il centro della funzione sacerdotale è lo stesso per il Sommo Sacerdote Gesù Cristo e per i sacerdoti che partecipano al sacerdozio di Lui, ossia l’offerta del sacrificio: se è vero che Cristo è venuto sulla terra anche per predicare l’avvento del Regno, i Vangeli mostrano che il Signore, durante la sua vita terrena, è tutto proteso verso quell’«ora» per la quale Egli è venuto e la stessa rivelazione sarà compresa – dice Gesù – solo dopo il compimento del suo sacrificio personale. L’essenza ultima del sacerdozio non consiste nella predicazione della Parola, sebbene essa sia importantissima e, assieme al go-verno della Chiesa, rappresenti un ufficio proprio del ministro ordinato. La Chiesa insegna che, in particolare quando celebrano la Messa, i sacerdoti operano in persona Christi. Essi sono ministri di Cristo e per questo non agiscono da se stessi, ma come strumenti di Lui. Ne consegue che la mancanza di santità personale del sacerdote non inficia i sacramenti.


Fine prima parte

sabato 27 febbraio 2010

Si avvicina il concistoro


di GIACOMO GALEAZZI

I ministri vaticani Amato, De Paolis, Baldelli, Burke. Gli arcivescovi diocesani Dolan, Nichols, Léonard e altri quattordici presuli dei cinque continenti. Sono le nuove porpore di papa Benedetto. Secondo quanto si apprende in Vaticano, il terzo concistoro di Joseph Ratzinger dovrebbe aver luogo alla fine di novembre ed essere annunciato ad ottobre. Sarà il Papa a firmare l’elenco definitivo in cui fino all’ultimo potranno entrare e uscire i nominativi.
Le poltrone disponibili sono 19 più le cinque che si libereranno all’inizio del prossimo anno quando altri porporati (Ruini, Panafieu, Vidal, Garcia-Gasco Vicente, Keeler) raggiungeranno gli ottant’anni e perderanno il diritto di entrare in conclave.
Nelle diverse zone del pianeta e nelle varie correnti ecclesiastiche, gli aspiranti cardinali sono molti, perciò alcuni resteranno al palo per non sbilanciare troppo sul versante geopolitico la mappa delle gerarchie ecclesiastiche da cui uscirà la Chiesa di domani. «Non può essere un concistoro tutto incentrato sull’Italia o l’Europa», spiegano in Curia.
Per dare «nuova linfa» al Sacro Collegio, considerato «il club più esclusivo del mondo», il Pontefice deciderà probabilmente di derogare al tetto massimo stabilito dalle norme vigenti di 120 cardinali elettori.
Il 27 gennaio il porporato canadese Ambrozic, arcivescovo di Toronto dal 1990 al 2006, ha compiuto 80 anni. Quindi, il Collegio cardinalizio risulta attualmente composto da 182 porporati, di cui 111 elettori. Nei prossimi otto mesi «out» altri 10 cardinali: gli americani Maida e McCarrick, gli italiani De Giorgi e Giordano, lo spagnolo Herranz, il neozelandese Williams, il francese Poupard, il siriano Daoud, il camerunese Tumi e il lettone Pujats.
Nel concistoro di novembre per la creazione di nuovi cardinali, dunque, i posti disponibili saranno almeno diciannove. E nei primi due mesi del 2011 cinque porporati compiranno ottanta anni. Gli ecclesiastici della Curia romana per i quali la porpora è scontata sono il ministro del Bilancio (De Paolis), Segnatura (Burke), Penitenzieria (Baldelli), Cause dei Santi(Amato), Ordine di Malta (Sardi), San Paolo fuori le Mura (Monterisi), Unità dei cristiani (Koch, imminente successore di Kasper).
Ad essi si aggiungono i nuovi responsabili delle congregazioni per il Clero, i Religiosi e i Vescovi la cui nomina verrà ufficializzata nei prossimi mesi al pari di quella dell’arcivescovo di Torino (in «pole position» il bertoniano Versaldi). Tra i capi dei Pontifici Consigli (cioè i ministri vaticani di seconda fascia per i quali la nomina cardinalizia non è «ex ufficio», automatica), sono candidati i responsabili della Cultura (Ravasi), Sanità (Zimowski), Immigrati (Vegliò), Testi legislativi (Coccopalmerio), Comunicazione (Celli). Considerati anche i tanti italiani in lista, alcuni di loro potrebbero essere rinviati al prossimo turno.
Inoltre, riceveranno la berretta rossa nelle diocesi gli arcivescovi Betori (Firenze), Romeo (Palermo), Marx (Monaco), Nycz (Varsavia), il cistercense Tempesta (Rio de Janeiro), Dolan (New York), Nichols (Westminster), il primate di Spagna Rodriguez Plaza (Toledo), Léonard (Buxelles), Duka (Praga). Nell’elenco papale potrebbero figurare anche Collins (Toronto), il salesiano milanese Fanizzi (Montevideo), Ranjith (Colombo),Pasinya (Kinshasa),Bakot (Yaoundé), Lwanga (Kampala), Okada (Tokyo), Maung Bo (Yangon), Twal(Gerusalemme).

Fonte: La Stampa, 27 febbraio 2010, via Amici Papa Ratzinger

Carlo Rossella sul Foglio

Alta società

Weekend a Venezia. Sabato prossimo alle ore 17.30, nella chiesa di San Simone Piccolo, S. Em.za il Cardinale Patriarca Mons. Angelo Scola assisterà pontificalmente alla Santa Messa in rito romano antico. Celebra padre Konrad zu Loewenstein. Musiche di Girolamo Frescobaldi. Adeamus cum fiducia.
Il Foglio
sabato 27 febbraio 20101

Lapsus calami...

Dalle pagine gialle della provincia di Ascoli Piceno 2008-2009:

venerdì 26 febbraio 2010

Imminente il decreto di applicazione del motu proprio?

Nel febbraio 2008 (!) mons. Perl, allora Segretario della Commissione Ecclesia Dei, ci aveva assicurato, in un colloquio telefonico privato, che la bozza del decreto di chiarimento di alcuni punti del motu proprio era "sulla scrivania del Papa", in quanto la Pontificia Commissione ne aveva terminato la redazione. Ne dava quindi per imminente l'emanazione. Così non è stato, ed immaginiamo il motivo: non esacerbare ulteriormente gli episcopati la cui reazione al motu proprio è stata, e usiamo un eufemismo, orripilata. Vediamo ora se, due anni dopo, è la volta buona. Così scrive Ignazio Ingrao:

È in dirittura d'arrivo anche l'istruzione della Pontificia commissione Ecclesia Dei per l'interpretazione e l'applicazione del motu proprio del Papa Summorum Pontificum, sulla liberalizzazione della messa in latino con il rito antico. A quasi tre anni dall'uscita del discusso documento papale, i gruppi tradizionalisti denunciano ancora l'ostruzionismo di alcuni vescovi contro la celebrazione della messa con il rito tridentino. A cui si aggiungono dubbi e contestazioni sull'interpretazione delle norme. L'attesa istruzione dovrebbe mettere la parola fine a queste divisioni.

Fonte: Panorama, via Papa Ratzinger blog

Matrimoni omo in chiesa

Oggigiorno sempre meno persone si sposano: si preferiscono convivenze più o meno (in)stabili, se non vivere da single in relazioni ancor più volubili. C'è solo una categoria di persone che tiene spasmodicamente al matrimonio, come in altri tempi le fanciulle di paese: sono i gay!

Ed ecco allora che il Padre Germain Dufour (nella foto), parroco della chiesa di St. Servais a Liegi, Belgio, ha orgogliosamente organizzato e pubblicizzato la celebrazione del "primo matrimonio omosessuale nella Chiesa"; cerimonia, se così si può definire, svoltasi il 13 febbraio scorso, vigilia di San Valentino.

Il Padre Dufour è da manuale. Cappuccino di 65 anni, già senatore nel partito dei Verdi, poi candidato comunista, è stato, manco a dirlo, un prete operaio. Per chi non lo sapesse: quella dei preti operai fu un'esperienza che Pio XII vietò, ma naturalmente risorse nell'immediato postconcilio. Oggi i preti operai si sono estinti da soli: restano solo preti operai in pensione, data la loro età media...

Ma quel che ci colpisce della vicenda non è tanto il Padre Dufour. Si potrebbe dire che di spiriti originali è pieno il mondo. Il problema è che qui tanto originale e singolare non è: il sistema mediatico belga naturalmente esalta la scelta "coraggiosa" (giudicherete tra poco quanto l'aggettivo sia inappropriato) che va incontro ai reietti e ai discriminati superando odiosi ed obsoleti divieti imposti dal Vaticano.

Come ha reagito la Curia di Liegi? Ecco, qui viene il bello. A voi le parole del vicario generale della diocesi, Alphonse Borras:

Parlare di matrimonio in questo caso è un abuso di linguaggio. La Chiesa non riconosce che il matrimonio di due persone di sesso differente. Qui, è meglio parlare di unione. Un'unione che aveva tutte le apparenze della cerimonia del matrimonio.

Credo che il P. Germain Dufour, che è molto vicino ai poveri e a certe categorie della società, abbia fatto quello per benevolenza, ma non è quello che propone la Chiesa.

E alla domanda se ci saranno provvedimenti, ecco la risposta del vicario:

No, non ci saranno sanzioni. In effetti, il P. Dufour dipende dal suo superiore cappuccino, e anche dal vescovo di Liegi, beninteso. Ci sarà senz'altro una nota, ma poco di più...

Le immagini di Maranatha: i vespri con mons. Burke del 24 gennaio

Ecco una significativa selezione delle immagini. Ne trovate molte di più su MARANATHA




Gnocchi e Palmaro: un bilancio dell'era Ruini


Ci siamo fatti una certa idea della pluridecennale presidenza ruiniana della Conferenza episcopale italiana. A volerla riassumere alla guareschiana, potrebbe suonare così: "Ruini, don Camillo ma non troppo". Per dire che il cardinale di Sassuolo, provincia di Modena e diocesi di Reggio Emilia, come il celebre omonimo letterario ha incontrato i suoi Pepponi, ma che le schermaglie non sono sempre finite in gloria come invece accade a Mondo piccolo. Il don Camillo che è stato al vertice della Cei dal 1986 al 2007, prima come segretario generale e poi come presidente, ha il merito indiscutibile della messa in mora del progressismo cattolico. L`operazione deve ancora concludere il proprio corso, ma è inesorabilmente avviata e comporta un inequivocabile segno più nel bilancio di fine mandato del cardinale. Per fugare ogni dubbio, basti pensare alle uscite biliose di una Rosy Bindi e di un Pierluigi Castagnetti in ritiro a Bose o quelle di un Alberto Melloni atterrito da ciò che definisce "ruinismo-leninismo". Se si pensa a che cosa era la chiesa italiana degli anni Settanta, si deve riconoscere che oggi potremmo stare molto peggio se il ruinismo non avesse tentato una certa normalizzazione.

Ruini comprese presto che la chiesa italiana era minata dal cattocomunismo dossettiano, la dottrina secondo cui il radioso destino dell`umanità consisterebbe nell`incontro di un cattolicesimo un po` meno cattolico con un comunismo un po` meno comunista. Teoria che, quando si trasforma in prassi, produce sempre l`incontro tra un cattolicesimo molto meno cattolico e un comunismo perfettamente comunista. Senza rischiare troppo di essere generosi, si può pure ipotizzare che il cardinale vide nel dossettismo il figlio primogenito dell`idea di Jacques Maritain secondo cui, morta la cristianità, bisognerebbe pensare a una nuova forma di presenza cristiana nel mondo. La soluzione del filosofo di Umanesimo integrale stava nella bifida invenzione dei due assoluti: "l`assoluto di quaggiù, ove l`uomo è Dio senza Dio, e l`assoluto di lassù dove Dio è in Dio". Come scrisse padre Antonio Messineo, secondo Maritain, "sul piano della storia non opererebbe il Cristianesimo in quanto religione rivelata e trascendente, non il Vangelo nella sua purità originaria di parola divina trasmessa all`uomo, non l`ordine della Grazia e delle realtà superiori in esso contenute, ma un cristianesimo e un Vangelo vuotati del loro contenuto originale e naturalizzati, temporalizzati". Da qui, la necessità di dar vita a una "cristianità profana" da contrapporre alla "cristianità sacrale" ormai superata. Un`opera pratica "da realizzare in spirito di amicizia fraterna fra i componenti delle varie famiglie spirituali presenti nella società". Per fare ciò, quali migliori compagni di strada dei comunisti, ritenuti dei cugini un po` eretici ma riconducibili all`ovile? Gli effetti sul mondo cattolico di questa netta separazione tra natura e sopranatura si sono mostrati devastanti, sia ab intra sia ad extra. Abbandono della pratica religiosa, calo di vocazioni, anarchia e rivolta antigerarchica ab intra, cui ha fatto da pendant, ad extra, la progressiva ininfluenza cattolica nella società. Dal canto suo, il presidentissimo della Cei si rese conto che l`abbraccio con il cattolicesimo democratico avrebbe avuto esiti mortali. E che il male era già molto progredito nel corpo ecclesiale, coinvolgendo la forma mentis di molti vescovi e di molte curie, abituati ormai a ragionare e ad agire "etsi Papa non daretur". La risposta ruiniana a tale situazione si concretizzò in una granitica lealtà al Pontefice e nel commissariamento della Cei avviato sotto Giovanni Paolo II. Don Camillo, quello di Sassuolo, ebbe carta bianca e, di punto in bianco, un episcopato abituato a rispondere solo a se stesso o, al più, alla linea dettata dal cardinale Martini nel ruolo di Grande Antagonista, capì che la ricreazione era finita. Ma qualcosa non ha funzionato a dovere.

Oggi, due decenni dopo, Carlo Maria Martini continua a essere il Grande Antagonista a capo di una chiesa che poco o nulla vuole avere a che fare con Roma. Basta fare un giro per le parrocchie della penisola per trovare parroci, curati, catechisti e catecumeni orgogliosi di essere portatori di un pensiero "altro" rispetto a quello del Papa. "Caro don Tal dei Tali", si è sentito dire dai catechisti un sacerdote di fresca nomina in parrocchia, "guardi che qui insegniamo che tutti i metodi per la contraccezione sono buoni e lei non si sogni nemmeno di dire il contrario. Il Papa dica quel che vuole e noi facciamo quel che vogliamo". Sono innumerevoli le parrocchie italiane nelle quali si susseguono episodi analoghi sul piano della dottrina, della morale, della liturgia. Ed è qui che il modello ruiniano mostra la corda: il divorzio tra Roma e la periferia, il "federalismo dottrinale", la forbice sempre più ampia tra magistero e predica domenicale, tra Evangelium vitae e singole facoltà teologiche sono cronaca di oggi come, e forse più, di vent`anni fa. Tutti fenomeni che il commissariamento della Cei non ha saputo contrastare. Se, a lungo andare, una malattia non passa, significa che il medico si è occupato dei sintomi invece che delle cause. Allarmato dalle sbandate del suo episcopato, il presidente della Cei ha scelto una cura squisitamente pragmatica, anzi empirica, riassumibile in due postulati: primo, la conferenza detta la linea, e ogni vescovo si adegua e tace, secondo, la linea è più importante della dottrina. Risultato: la febbre ora si vede forse di meno, ma c`è esattamente come prima. Basta pensare alla rivolta pressoché generale dei vescovi in occasione del Motu proprio con cui Benedetto XVI ha ridato piena cittadinanza alla liturgia antica: la Cei avrebbe potuto e dovuto ricordare ai vescovi il loro giuramento di fedeltà al Papa, ma non disse nulla, assistendo impassibile allo scisma strisciante della diocesi di Milano, che dichiarò non applicabile il documento pontificio aggrappandosi al cavillo del rito ambrosiano. Il vero problema sta nel fatto che la crisi del cattolicesimo italiano non è solo politica, ma innanzitutto dottrinale. Messa fra parentesi la dottrina per manifesta irrilevanza e ridotto al silenzio l`episcopato sul versante propriamente ecclesiale, si è ottenuto di spingere ulteriormente i vescovi, singolarmente o in gruppo, verso l`unica ribalta che potesse dar loro lustro, la politica.

Una deriva a cui non ha posto argine l`altra idea che ha segnato l`era di Ruini alla guida della Cei, il "Progetto culturale" varato nel 1997. Un disegno faraonico che avrebbe dovuto riconquistare il popolo cattolico alla gerarchia e il mondo alla chiesa, ma che, invece, si palesa come una kermesse continua di iniziative dai contenuti equivoci. Basti pensare che le vere star del "Progetto culturale" si chiamano Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Enzo Bianchi, Edoardo Boncinelli. Oppure che, nonostante le oltre duecento radio del circuito InBlu sovvenzionate dal "Progetto", per trovare una programmazione radiofonica cattolica 24 ore su 24, bisogna sintonizzarsi su Radio Maria. Per non parlare di Sat 2000, una tv dal dimenticabile, e dimenticato, palinsesto fatto con le repliche delle fiction sui santi prodotte dalla Lux e già passate su Raiuno e che per giunta irradia via satellite verso un popolo cattolico che ignora quasi totalmente l`esistenza delle parabole. Se oggi, dopo 13 anni di elaborazione, si va sul sito del "Progetto culturale" si trovano affermazioni come le seguenti: "A che serve tutto questo? A costruire, con le categorie di oggi, una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza sulle questioni vitali e fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo con la cultura contemporanea". "Creare una nuova enciclopedia cattolica? No: si tratta di riconoscere le sfide cruciali che la cultura pone oggi alla fede. Proprio raccogliendo queste sfide la fede esprime la sua energia creativa e alimenta il rinnovamento dell`uomo e della società. Se si punta infatti a definire tutto, ad avere l`inventario dei contenuti per poi svilupparli uno a uno il rischio è quello della paralisi. Se, al contrario, cerchiamo di abitare le questioni che concretamente sono di fronte a noi, allora ci mettiamo in condizione di proporre stili di vita cristiani praticabili e plausibili. Insomma, i contenuti del progetto culturale non sono e non saranno un`enciclopedia, piuttosto il frutto di un cammino quotidiano di traduzione del Vangelo nella vita". Viene da chiedersi dove si possa arrivare con un simile linguaggio burocratico-piacione che sa dire solo un "No" deciso e lo grida contro l`idea di "una nuova Enciclopedia cattolica". Quella vecchia, detto per inciso, la si può trovare a prezzi stracciati in liquidazione nei seminari della Penisola.

Non è questa la strada per riportare il cristianesimo al centro dello spazio pubblico e misurarsi con il mondo. Se non si ripiglia in mano la questione dottrinale, se non si torna ai fondamenti della fede, non si potrà mai pensare a un progetto di presenza culturale nella società. Il cattolico medio, oggi, non solo non è in grado di esporre decentemente le ragioni della propria fede, ma non sa esporre, neanche indecentemente, la propria fede. Anzi, facilmente mostrerà con orgoglio dubbi sostanziali sugli articoli del "Credo", che pure recita ogni volta che va a Messa. Così, gettato nella mischia privo di dottrina, il mondo cattolico ha finito per muoversi sull`unico piano in cui, almeno in apparenza, la dottrina non gli sembrava fondamentale: la politica. E qui si è creato il cortocircuito in cui l`opera ruiniana ha fatto da conduttore. Piuttosto che lasciare spazio ai singoli, si è pensato fosse meglio che delle questioni politiche si occupasse direttamente l`apparato. E la Cei è divenuta vero e proprio attore politico finendo per mediare sui valori. Non poteva andare diversamente visto che qualsiasi controparte, in una mediazione, mette in gioco ciò che possiede. [..] Perché il ruinismo è anche questo: un trionfalismo senza fondamento vagheggiante un`Italia immaginaria che sarebbe ritornata "pro life" e "per la famiglia", e che invece, nella realtà, si dibatte nel medesimo processo di secolarizzazione che affligge tutto il mondo. Qui, quella che molti hanno definito la "genialità politica" di Ruini mostra tutti i suoi limiti, in primis quello di servirsi della politica per amministrare alla meno peggio la realtà invece che tentare di ri-cattolicizzarla. Limite che, a ben guardare, ripropone lo schema dossettiano della separazione tra piano della natura e piano della Grazia.

Ecco perché, per tornare simmetricamente all`inizio di queste riflessioni, il don Camillo della Cei si discosta da quello di Guareschi. Quando Peppone e i suoi vogliono impedirgli di andare in processione a benedire il Po, lui si avvia verso il fiume seguito solo da un cagnetto e, una volta trovatasi davanti la banda comunista al completo, cava il Crocifisso dalla cinghia e lo brandisce come una clava. Poi, recita questa preghiera: "Gesù, se in questo sporco paese le case dei pochi galantuomini potessero galleggiare come l`arca di Noè, io vi pregherei di far venire una tal piena da spaccare l`argine e da sommergere tutto il paese. Ma siccome i pochi galantuomini vivono in case di mattoni uguali a quelle dei tanti farabutti, e non sarebbe giusto che i buoni dovessero soffrire per le colpe dei mascalzoni tipo il sindaco Peppone e tutta la sua ciurma di briganti senza Dio, vi prego di salvare il paese dalle acque e di dargli ogni prosperità". Ora, direttore, ci dirai che siamo ben originali a proporre una pastorale di tal guisa all`epoca del dialogo. Ma noi ti possiamo dire che qualche prete alla don Camillo di Mondo piccolo c`è ancora e ognuno può raccontare per le loro storie di evangelizzazione un finale che somiglia molto a quello che andiamo a trascrivere: "Amen - disse dietro le spalle di don Camillo la voce di Peppone. - Amen, risposero in coro, dietro le spalle di don Camillo, gli uomini di Peppone che avevano seguito il Crocifisso. Don Camillo prese la via del ritorno e, quando fu arrivato sul sagrato e si volse perché il Cristo desse l`ultima benedizione al fiume lontano, si trovò davanti: il cagnetto, Peppone, gli omini di Peppone e tutti gli abitanti del paese. Il farmacista compreso che era ateo ma che, perbacco, un prete come don Camillo che riuscisse a rendergli simpatico il Padreterno non lo aveva mai trovato". I non pochi don Camillo di oggi dicono che questo metodo funziona ancora. Si chiama Regalità sociale di Cristo e, come si è visto, riesce a trovare a ciascuno il suo posto, persino al farmacista ateo.


Il Foglio 18 Febbraio 2010, via L'Occidentale

Richiesta urgente di preghiere per i fedeli marchigiani

I fedeli marchigiani legati alla forma straordinaria del Rito Romano chiedono di elevare al Signore una particolare intenzione di preghiera durante la giornata della seconda domenica di Quaresima certi che il Signore saprà accogliere questo coro di suppliche.

“Uniamo le nostre lacrime ai tormenti di Gesù e al pianto di Maria. Nella misura in cui l'avremo fatto in questa vita, potremo poi, col Figlio e con la Madre, godere in cielo” . (dom Prosper Guéranger)

Guardando Nostro Signore, obbediente fino alla morte di Croce, uniamo i nostri dolori, sofferti a causa della nostra assoluta fedeltà al Magistero della Santa Chiesa, alla Sua Passione redentrice.

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Sabato 27 febbraio alle ore 12 nella Sala Consiliare del Comune di Rapagnano (Fermo) Matteo Della Pittima, ministrante della Messa in latino, riceverà la Medaglia della Carità assegnatagli dall’Associazione Regina Elena per avere salvato il 26 luglio scorso dall’annegamento nel mare di Porto San Giorgio tre fratellini ed il loro nonno.

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In unitate orationis

Andrea Carradori

www.missaleromanum.it

giovedì 25 febbraio 2010

Buon gusto ecclesiastico



Echi tridentini in letteratura: Giuseppe Gioachino Belli (3)

(Echi tridentini in Belli I, e II)

Nella Roma del Belli la quaresima era una cosa seria: un controllo sociale molto stretto imponeva digiuni e astinenze anche a coloro che non avessero tanta voglia di osservare i precetti della Chiesa. Ma era una cosa “seria” anche il carnevale, che consentiva ai singoli – certo, a proprio rischio e pericolo, materiale e spirituale! – di operare scelte anche trasgressive, con una sorta di sospensione del controllo. Per un periodo ben delimitato, naturalmente: nella notte fra martedì grasso e il mercoledì delle Ceneri il carnevale finiva, senza proroghe o dilazioni.
“Chi ha ffatto ha ffatto”, ammonisce il titolo di un sonetto del 17 gennaio 1833, che non lascia spazio all’immaginazione su quel che s’intendeva col generico verbo “fare”:

E ccurri, e bballa, e bbeve, e ffotte, e bbacia!
Ggià ssò ttutti scottati: ma stasera
da la padella cascheno a la bbracia.

mercoledì 24 febbraio 2010

Indovinello

Chi l'ha detto?


Non ogni Concilio valido nella storia della Chiesa è stato anche fruttuoso; in ultima analisi, molti di loro sono stati solo una perdita di tempo. Nonostante tutte le cose buone che possono trovarsi nei testi che ha prodotto, l’ultima parola circa il valore storico del Concilio Vaticano II dev’essere ancora pronunziata.

Mons. Dho: "Ministri o Sacerdoti?"

Il mensile paolino “Vita Pastorale” di Febbraio contiene un Dossier intitolato “Sacerdozio o Ministro Ordinato” in relazione all’Anno Sacerdotale. Mons. Sebastiano Dho, Vescovo di Alba, a cui è affidato l’Editoriale, sviluppa a riguardo alcune considerazioni. Esse non brillano per originalità e, tuttavia, possiedono un certo interesse, essendo referenziali di una certa mentalità difficile a tramontare. Entriamo subito in medias res.

L’intera riflessione è ispirata dalla seguente domanda: «Sacerdozio o ministero ordinato? Oppure sacerdozio e ministero ordinato? Oppure ancora: solo Sacerdozio?». In altre parole Mons. Dho vuole indagare se la realtà del “sacerdozio” sia esclusiva oppure comprensiva oppure antitetica rispetto alla realtà del “ministro ordinato”: la questione non è squisitamente terminologica, bensì di pertinenza teologica, sacramentale ed ecclesiologica.
L’Eccellentissimo afferma preliminarmente che «non si tratta di una questione di primaria importanza», tuttavia in seconda battuta precisa che essa «si pone all’interno del quadro più ampio dell’ecclesiologia che per noi ovviamente non può che essere (almeno lo speriamo!) quella del concilio Vaticano II»: ed ecco scoperte le carte! Poiché l’ultimo concilio ha trattato ampiamente questioni teologiche riguardanti la struttura stessa della Chiesa, non desterebbe alcuno stupore il fatto che un Vescovo, trattando di problematiche pertinenti, vi facesse riferimento; sennonché il riferimento appare qui tutt’altro che neutrale. L’ “ecclesiologia del concilio” è riaffermata in modo difensivo ed esclusivo. “Difensivo”, giacché si presuppone che qualcuno possa minacciarne l’assolutezza; “esclusivo”, poiché è dato per scontato che ogni altro approccio è di per sé insufficiente. Quest’ attitudine teologica, di fatto possibile e molto praticata, reca in sé, più o meno nascostamente, l’idea che la Chiesa abbia ricevuto una nuova struttura, dunque una nuova essenza, mediante l’operato del Vaticano II; oltre ad essere un’attitudine fortemente dannosa nell’ambito dell’ermeneutica della continuità tanto auspicata da Papa Benedetto XVI, è esplicitamente esclusa dal magistero della Chiesa. La Congregazione della Dottrina della fede, in data 29 giugno 2007 ha infatti precisato che « il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina [la precedente dottrina sulla Chiesa], ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente» (Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa).
Il Vaticano II, continua Mons. Dho, ha «reimpostato con chiarezza e coraggio una successione diversa rispetto a un certo passato, a riguardo dell’appartenenza e compiti all’interno della Chiesa: prima ciò che unisce perché comune a tutti e poi lo specifico proprio delle diverse vocazioni […] Il termine sacerdozio ha per sé un significato generale o comune che va ben specificato: sacerdozio di Cristo […] sacerdozio di tutti i battezzati, compresi (cosa che spesso si dimentica) anche i ministri ordinati […] sacerdozio poi ministeriale che di fatto per motivi vari storici, contingenti nel linguaggio corrente e immaginario collettivo, ha quasi monopolizzato il significato comune fino a far dimenticare l’accezione genuina [corsivo nostro]e quel che è più grave il contenuto teologico ed ecclesiale».
L’Eccellentissimo parte molto bene ricordando che il Sacerdozio originariamente e radicalmente non risiede né nei laici né negli ordinati, bensì in Cristo Signore Sommo ed Eterno Sacerdote. Ciò che ci risulta più difficile comprendere è come possa egli dire che tale termine è stato “monopolizzato” per designare i ministri ordinati perdendo così la propria accezione “genuina” e il proprio contenuto teologico che risiederebbe nel significato comune a tutti i battezzati. Ma come? Non si era detto che l’accezione genuina del termine è quella che rimanda direttamente al Sacerdozio di Cristo? Perché ora si dice che la snaturalizzazione del termine si è consumata quando esso ha cominciato a designare i ministri ordinati a scapito del significato comune a tutti i battezzati? Non si potrebbe ugualmente dire che designare i battezzati con il termine “sacerdoti” è una snaturalizzazione del termine giacché esso è da attribuirsi originariamente a Cristo? Certamente Cristo ha partecipato il proprio sacerdozio attraverso quei Sacramenti che conferiscono il Carattere (Battesimo, Cresima, Ordine Sacro); tuttavia sia il battezzato sia l’ordinato partecipano di un Sacerdozio che è loro trasmesso ma che non ha in essi la propria causa od origine. Dunque, perché affannarsi a dire che i ministri ordinati monopolizzano un termine che in vero non è loro proprio a scapito dei laici? Si aggiunga che il Sacerdozio di Cristo ha il proprio significato e il proprio compimento nell’Oblazione della Croce; ora, se i ministri ordinati sono coloro che, agendo in persona Christi, rendono presente in maniera incruenta e sacramentale quell’unico Sacrificio offerto una volta per tutte, partecipando in tal modo al Sacerdozio di Cristo, si potrà ancora insistere nell’affermare che essi “monopolizzano” un titolo che non conviene loro? Non si dirà piuttosto che essi sono assimilati a Cristo Sacerdote in modo più eminente rispetto alla partecipazione battesimale e dunque, ad essi conviene in modo più eminente e più proprio il termine di Sacerdote? La domanda è ovviamente retorica, giacché la Chiesa, attraverso la propria Tradizione e il proprio Magistero, ha già dato risposta.
«Ma c’è di più» prosegue Dho «il sacerdozio ministeriale non ha altro scopo di essere a servizio del sacerdozio comune dei fedeli (compresi, lo ripetiamo, i ministri stessi) affinché possano, in effetti, partecipare ai sacramenti e offrire il vero culto spirituale […] Paradossalmente, ma non troppo, potremmo dire che se è vero che non possono e non debbono mancare i ministri ordinati perché i fedeli laici siano in grado di vivere la fede, è altrettanto vero che se per ipotesi venissero a mancare tutti i fedeli non avrebbe più senso il ministero ordinato! Dunque tutti partecipi dello stesso Sacerdozio di Cristo, ma strettamente e indissolubilmente uniti, “ordinati l’uno all’altro”, per cui il dono specifico (ministero ordinato) ha senso unicamente nel e per il dono comune (sacerdozio)».
Non v’è dubbio che i Sacerdoti debbano spendere la propria vita interamente a servizio delle anime, questo nessuno lo nega. Ma è totalmente vero che l’unico senso del “ministero ordinato” sia servire il “sacerdozio” comune dei battezzati (si badi che le parentesi sono originali)? Non è piuttosto vero che tutto ciò che esiste, esiste radicalmente per Dio? Una visione totalmente ministeriale, dunque funzionale, del Sacerdozio ordinato non ne impoverisce l’essenza fino a dissolverla nel paradosso immaginato dallo stesso Mons. Dho? La Liturgia, essendo riflesso della divina Economia, conosce due movimenti: uno da Dio verso l’uomo, la Santificazione; uno dall’uomo verso Dio, il Culto dell’Altissimo. Una considerazione del Sacerdozio ordinato che ne sottolinei unilateralmente la funzione ministeriale verso i battezzati, riesce a rendere sufficientemente conto delle esigenze del Culto? Gesù Cristo ha istituito il Sacerdozio cattolico esclusivamente a servizio degli uomini o anche per Sé? Non è forse vero che egli in precedenza ha chiamato a Sé i propri Apostoli e solo successivamente li ha inviati? Se venissero, per ipotesi, a mancare tutti i fedeli, i Sacerdoti continuerebbero ad offrire Culto a Dio (oltre che ad intercedere per se stessi…Dho sembra dimenticarsene, eppure ha affermato per ben due volte che i “ministri ordinati” sono primariamente battezzati!), continuerebbero a ricevere il gemito di tutta la Creazione e a presentarlo a Dio, continuerebbero, come gli Angeli del Cielo, a cantare senza fine: Sanctus, Sanctus, Sanctus!

martedì 23 febbraio 2010

Evento parrocchiale a S.S. Trinità dei Pellegrini

Meditazioni Quaresimali "Le Ultime Sette Parole di Gesù in Croce"
La tradizione cristiana, popolare e monastica, ha voluto frequentemente fare delle ultime sette parole dette dal Signore sulla croce un tema preferito di meditazione e di preghiera. In preparazione alla Santa Pasqua, Juventutem e la Parrocchia S.S. Trinità dei Pellegrini vi invitano a partecipare alle meditazioni quaresimali "Le Ultime Sette Parole di Gesù in Croce".Gli incontri, saranno tenuti da un sacerdote della Parrocchia.

I vantaggi della comunione in mano

Una gran comodità. Consente di sgranocchiare l'ostia come un wafer; poi, se passa la voglia, si mette in tasca, in attesa di raggiunger fuori il bidone della spazzatura, oppure per farsi la propria personale "riserva eucaristica".

Ecco un video significativo della Catholic News Agency, girato in Costarica. Mostra la compagna di un politico locale che, spiluccata l'ostia che le ha dato l'arcivescovo, ne infila un bel pezzo nel taschino del partner.

Serve ancora scandalizzarsi?

Fonte: Cantuale Antonianum

Povera Milano, povera Chiesa



Sul sito della gloriosa Basilica milanese di Sant'Ambrogio troviamo una notizia curiosa. No, non è l'annunciata predicazione quaresimale di padre Sorge (discusso e discutibile padre gesuita), prevista per il 5 marzo. Neppure stupisce (e del resto poteva mancare???) la predicazione di Enzo Bianchi, "priore" di Bose prevista per il 12 marzo. Di sicuro amareggia la presenza, prevista per il 19 marzo, di Paolo Ricca, pastore valdese. Idea bizzarra, quella di chiamare Ricca, che è venuta all'abate Erminio De Scalzi, noto per le sue posizioni progressiste. Qui non è tanto questione di progressismo. La fede si sta spegnendo, scrisse Joseph Ratzinger. Uno dei motivi sono le azioni di persone come De Scalzi, che hanno inculcato il relativismo. Come ci può rafforzare nella fede cattolica la predicazione di un pastore protestante? A De Scalzi la risposta.


Pulvis

Vescovi e parroci vi snobbano? Citate loro Hans Küng

Da un'intervista ad Hans Kueng:

Presi posizione su Ecône in un articolo del giornale inglese Times del 24 agosto 1975, sotto il titolo “Roma deve trovare un modo per metter fine al conflitto che continua a crescere nella Chiesa” e in una lunga intervista sulla Neue Zürcher Zeitung del 3 ottobre 1975. Chiedo giustizia per i tradizionalisti e sono a favore di un superamento delle polarizzazioni nella Chiesa cattolica e per una tolleranza reciproca. Deploro questo conflitto per le persone che vi sono implicate. Ho fatto anch'io personalmente l'esperienza di quello che costa spiritualmente dover continuamente sopportare un trattamento offensivo da parte delle autorità ecclesiastiche. Ma devo al contempo protestare vivamente contro il parallelismo che viene stabilito tra il mio caso e quello di monsignor Lefebvre e di Ecône, indicando tutto quello che mi differenzia da loro: non ho mai contestato l'ortodossia delle autorità romane e non ho mai discreditato il concilio definendolo eretico. Neanche ho fondato il mio specifico gruppo (“progressista”) né cercato di imporre in maniera dottrinaria la mia visione delle cose, il mio modo di vedere la formazione dei preti o la mia concezione dei seminari. Mi tengo lontano da qualsiasi tendenza scismatica. Non vedo veramente perché monsignor Lefebvre abbia dovuto costituire il proprio gruppo e creare un seminario particolare.
Nella nostra Chiesa non ce ne sono già abbastanza di seminari e di vescovi conservatori?
Non vedo del resto neppure – questo rivolto a Roma – perché, in determinate circostanze, non si dovrebbe più celebrare la messa in latino. Lo abbiamo già fatto durante i nostri incontri annuali di Concilium, tra teologi di lingue diverse, che capiscono certo tutti il latino. Non vedo neanche perché noi, cattolici, dovremmo impedire di ricevere la comunione in bocca, alla maniera di ieri, invece di prenderla in mano, secondo una maniera ancora più antica. Il senso del rinnovamento non deve consistere nel voler regolare tutto in maniera uniforme. Secondo Agostino, “il massimo di libertà possibile, di obblighi solo quelli necessari, il tutto nell'amore”. O almeno nella giustizia.

Fonte: Temoignage Chrétien 11.2.2010, tradotto da Finesettimana

***

E a proposito del teologo svizzero, condannato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, leggete a confronto questi due brani. Il primo è di Hans Kueng, tratto dalla medesima intervista.


Devo insistere su questo punto: la cattolicità nel tempo e nello spazio non può ammettere che si omettano i giudeo-cristiani (paradigma I) come hanno fatto i Padri greci assolutizzando come verità atemporale della fede e della ragione il paradigma ellenistico (paradigma II), quindi una sintesi della fede e della filosofia greca, quella che difendeva il Ratzinger giovane, quella che ha ripreso nel suo discorso di Ratisbona (2006), come nel suo libro su Gesù (2007). […] La cattolicità nello spazio e nel tempo non può accettare neanche che si dichiari di fatto non cristiano il paradigma medioevale romano (paradigma III), come fanno troppo spesso i protestanti, né inversamente che, dall'alto della sua cattedra cattolica romana si dichiari che la Riforma (paradigma IV) e l'Illuminismo (paradigma V) sono responsabili della “disellenizzazione” e del declino progressivo dell'Occidente cristiano, del relativismo moderno dei valori e di un pluralismo che divide. Un cattolicesimo così ristretto alla sua forma ellenistico-romana è incapace di entrare in dialogo con la filosofia attuale, con le scienze della natura o con la nostra concezione della democrazia, con il pensiero moderno in generale. Sbarra qualsiasi intesa ecumenica. Si oppone a qualsiasi vera inculturazione del cristianesimo impedendo la formulazione del messaggio cristiano nel quadro del pensiero indiano, cinese o africano.

Il secondo brano è invece di mons. Bruno FORTE (Gesù di Nazareti, Storia di Dio, Dio della Storia, p.179, riportato qui):


La migliore disposizione critica e obbedienziale del credente è quella di affidarsi al “patois de Canaan”, a quel linguaggio, cioè della rivelazione, dove stranamente uomini di tutti i tempi e di tutti gli spazi riescono a stabilire “giovani legami” con quanto viene proclamato. Nel “dialetto di Canaan” vengono messi in risalto categorie e termini sensati, non ancora resi aporetici dall’indefinizione con una cultura o con una filosofia.

lunedì 22 febbraio 2010

Il motu proprio non si estende ai riti propri degli ordini religiosi


E' un responso datato 15 ottobre 2009, ma è stato reso noto solo ora. L'Ecclesia Dei è stata richiesta di chiarire se, in virtù del motu proprio, i religiosi degli Ordini che, prima della riforma liturgica, godevano di un rito proprio, possano celebrare secondo quegli usi spesso inveterati.

La risposta è purtroppo negativa: il motu proprio concede piena libertà ai sacerdoti, senza necessità di alcuna licenza o permesso, di utilizzare i libri liturgici in uso nel 1962; ma per quanto concerne quelli in uso nei vari ordini religiosi, la questione è demandata ai superiori degli ordini stessi.

A esempio: un francescano può, di propria iniziativa e senza chieder nulla a nessuno, celebrare secondo il messale romano del 1962. Non può invece, fintantoché (campa cavallo) i superiori dell'Ordine non decideranno favorevolmente in merito, usare il Messale serafico utilizzato nel 1962 dal suo Ordine. Notiamo per inciso che, per quanto concerne i Francescani dell'Immacolata, che sono Ordine indipendente, tale consenso dei superiori c'è evidentemente stato. Lo stesso valga per le case benedettine indipendenti dal relativo Ordine.

Ma quali erano gli ordini che godevano di rito proprio? Eccoli:

Francescani

Dominicani

Carmelitani

Serviti

Norbertini

Benedettini

Certosini

Cistercensi


Fonte: Barque of Peter, via Rorate caeli

Licenziata per una crocetta al collo

di Gianfranco Amato


E’ finito davanti alla Court of Appeal londinese un altro celebre caso di discriminazione nei confronti dei cristiani in Gran Bretagna. Nadia Eweida, una cinquantottenne impiegata delle British Airways, non si è arresa di fronte al verdetto del Tribunale del Lavoro che ha respinto il suo ricorso.

Questi i fatti. Nel settembre 2006 Nadia Eweida, addetta al servizio di check-in presso il terminal 5 dell’aeroporto di Heathrow, si vede intimare dalla direzione della compagnia aerea di non indossare, durante l’orario di lavoro, la collanina con la croce che portava al collo. Il rifiuto da parte della dipendente, motivato da sue profonde convinzioni religiose e dal fatto che i segni distintivi di altre fedi venivano invece permesse dalla compagnia, non viene preso molto bene.

Infatti, senza tanti complimenti, Nadia Eweida viene licenziata il 20 settembre 2006, con la motivazione che la sua croce d’argento, non più grande di una moneta da 5 pence, appare contraria alla «company’s uniform policy». Le 49 pagine di dettagliate istruzioni sull’uso delle uniformi e dei gioielli delineavano, infatti, una filosofia aziendale impostata sull’assoluta “neutralità” nei confronti delle convinzioni personali dei dipendenti.

Invoca, poi, l’art. 9 della Convenzione europea sui diritti del’uomo e le vigenti normative britanniche in materia di tutela delle pratiche e delle convinzioni religiose dei dipendenti, l’Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003. Evidenzia, inoltre, la disparità di trattamento compiuta dalla British Airways nel «permettere l’utilizzo di simboli religiosi visibili per i credenti in altre fedi, come ad esempio il kara, braccialetto sacro dei Sikh, il kippah, copricapo degli ebrei, o la hijab, velo per le donne musulmane».

British Ariways, infatti, si è vista bene dal vietare simili forme esteriori di fede. Singolare la tesi difensiva della compagnia aerea. L’avvocatessa Ingrid Simler si rivolge alla Corte sostenendo che «l’esibizione della croce al collo non è richiesta come precetto dalla religione cristiana ed è quindi frutto di una scelta individuale e non obbligatoria rimessa al mero desiderio della Eweida».

Ma l’avvocatessa si spinge oltre – fino al limite dell’irriverente –, quando dichiara che «il simbolo utilizzato dalla Eweida deve intendersi come espressione di una semplice convinzione allo stesso modo dei simboli utilizzati da altre persone per manifestare contro il nucleare o in favore dei diritti degli omosessuali».

All’udienza sono presenti diversi sostenitori di Nadia Eweida e qualche parlamentare. C’è pure l’ex Ministro degli Interni John Reid, il quale, prendendo la parola fuori dall’austero palazzo di stile gotico-vittoriano che ospita la Court of Appeal, dichiara: «Questo caso rappresenta un chiaro indicatore del fatto che i cristiani non godono delle stesse protezioni previste dalla legge per i fedeli di altre religioni a cui viene garantita, nel posto di lavoro, la massima disponibilità per quanto riguarda l’abbigliamento e l’esibizione di simboli religiosi».

Anche Nadia Eweida, subito dopo l’udienza, rende una dichiarazione: «Io ho combattuto questa battaglia legale fino alla Corte d’Appello per difendere il diritto dei cristiani a portare indosso una croce. E’ triste constatare come British Airways non si renda conto e non riesca a percepire che proprio la croce è il simbolo per eccellenza della fede cristiana».

Lo scorso venerdì 12 febbraio, la Corte d’Appello londinese, con una sentenza più che prevedibile, ha respinto il ricorso di Eweida. Patetica l’uscita di Lord Justice Sedley, uno dei giudici d’appello, che dopo aver ribadito l’inopportunità di esibire simboli religiosi nei luoghi di lavoro, ha dichiarato che, tutto sommato, «non è impensabile che in alcuni casi un divieto generale rappresenti l’unica soluzione».

Peccato che l’ultima sentenza dell’Alta Corte in materia abbia ribadito il fatto che la proibizione ad una ragazza sikh di portare a scuola il “kara”, braccialetto sacro, integri un vero e proprio atto di discriminazione religiosa.

Qual è la differenza tra una croce ed un kara? Semplice. La reazione dei discriminati. Non è facile gestire politicamente le veementi proteste della comunità sikh o di quella islamica, mentre i cristiani hanno da sempre dimostrato di essere assai più “tolleranti” rispetto alle ingiustizie patite. Fa parte, del resto, del loro stesso DNA. La morale di questa storia dovrebbe farci riflettere.

Mentre da noi in Italia si discute se esporre o meno il crocifisso nei luoghi pubblici, in Gran Bretagna la magistratura ha già deciso che ad un cristiano si può impedire di portare al collo il simbolo della propria fede sul luogo di lavoro. Se consentiamo che la tolgano dai muri, arriveranno a levarcela anche di dosso.


Fonte: Il Sussidiario

domenica 21 febbraio 2010

Schmidberger (FFSSPX): La Chiesa è entrata in acque più tranquille

Kathnet ha pubblicato una intervista esclusiva di Benjamin Greschner a P. Franz Schmidberger FSSPX, superiore del Distretto tedesco della Fraternità. Su Rorate caeli trovate la traduzione in inglese. Qui ne riportiamo la gran parte.


Franz Schmidberger nasce il 19 ottobre 1946 in Riedlingen. Dopo aver studiato matematica all'Università di Monaco, nel 1972 entrò nel seminario della fraternità di San Pio X a Ecône. Lì, nel 1975, fu ordinato al sacerdozio dall'arcivescovo Marcel Lefebvre. Nel 1979, Schmidberger divenne superiore del Distretto tedesco della Fraternità e, nel 1982, divenne superiore generale della fraternità. Dal 1994 al 2003, fu attivo nella guida della Fraternità. Nel 2003 è stato nominato rettore del seminario in Zaitzkofen. Nel 2006 divenne nuovamente superiore del Distretto tedesco.

- Reverendo, qual è la sua valutazione dello stato corrente delle discussioni teologiche tra rappresentanti della Fraternità San Pio X e la Santa sede?
In base alle informazioni disponibili piuttosto scarse, le discussioni teologiche clarificatrici sono cominciate bene. Per la prima volta siamo in grado di esporre senza fretta all’autorità competente le nostre riserve sulle dichiarazioni del Concilio Vaticano II e sugli sviluppi postconciliari. Queste discussioni certamente continueranno per un tempo lungo, forse anni. Ma forse i nostri partner di discussione saranno in grado di determinare rapidamente che non è possibile negare che la Fraternità sacerdotale San Pio X sia cattolica, anche se vi possono essere aree di disaccordo. Il che rappresenterebbe un enorme progresso. La natura molto discreta delle discussioni è indispensabile per il successo, niente di buono causa un tumulto e nulla di positivo proviene da un tumulto.

- Recentemente, in un'intervista video, il vescovo Richard Williamson ha commentato riguardo le discussioni. Egli si è espresso piuttosto negativamente ed era evidentemente poco convinto che portino a un accordo. Che cosa pensa dei suoi commenti? Rappresentano la posizione ufficiale della fraternità?
Il parere del vescovo Williamson sulle discussioni a Roma è deplorevole, perché certamente non rappresenta la posizione della Fraternità. D'altro canto, allo stesso tempo, è necessario mettere in guardia chiaramente contro un esagerato ottimismo rispetto alle discussioni. Mons. Fellay ha detto che sarebbe un miracolo, se si concludessero veramente con successo.

- Secondo lei, quanto è realistico un accordo tra la Santa sede e la Fraternità San Pio X? Nel 1988 come superiore generale, lei è già stato coinvolto in discussioni simili. La situazione è cambiata da allora?
Un accordo tra la Santa sede e la Fraternità potrebbe significare solo una cosa: che Roma accetta la voce del Magistero preconciliare. La Fraternità non ha mai sviluppato una posizione sua propria, ma si è invece fatta portavoce dei Papi, soprattutto quelli dalla rivoluzione francese fino al Concilio Vaticano II. Dal 1988, la situazione è cambiata nella misura in cui Roma ora prende sul serio la nostre obiezioni ed è alla ricerca di risposte.

- A suo avviso, quali sono soprattutto gli argomenti bisognosi di chiarimenti e di discussione di natura teologica o magisteriale? Ci sono argomenti che potrebbe descrivere come "patate bollenti"?
La questione della nuova liturgia è senza dubbio un punto di discussione, ma così anche l’ecumenismo, il ruolo delle altre religioni e il rapporto della Chiesa col mondo. Come "patate bollenti" soprattutto definirei la questione della libertà religiosa e anche la questione della dottrina.

- Un anno fa, Benedetto XVI ha revocato la scomunica dei quattro vescovi della vostra Fraternità. Questa decisione del Santo Padre ha avuto un effetto positivo sull’opera della Fraternità?
La revoca del decreto di scomunica ha eliminato ostacoli e ci ha portato più fedeli. D'altro canto però il tumulto della stampa ha sollevato alcune nuove barriere. Credo, tuttavia, che questa coraggiosa decisione presa dal Papa abbia positivamente colpito non solo la Fraternità e il suo lavoro, ma in realtà la Chiesa intera.

- Come valuta lo stato d'animo attuale nei vostri priorati e cappelle? Che cosa pensano i fedeli e i sacerdoti delle discussioni con la Santa sede?
Per quanto mi risulta, lo stato d'animo nei nostri priorati e cappelle è generalmente abbastanza buono, e in generale, i nostri membri guardano con favore le discussioni con la Santa sede. Tuttavia nessuno di noi è vittima di illusioni.

- Nell'aprile del 2005, con il card. Joseph Ratzinger, è stato eletto al trono di Pietro un principe della Chiesa che ha rappresentato un barlume di speranza per molti cattolici "tradizionali". Ad oggi, Benedetto XVI ha governato la Chiesa per quasi cinque anni. Come valuta questi primi cinque anni del suo pontificato?
La Chiesa è entrata in acque più serene con Benedetto XVI. La riabilitazione del santo sacrificio della messa nella forma tradizionale, la revoca del decreto di scomunica e le discussioni dottrinali con la Santa Sede sono atti molto positivi di questo pontificato. D'altro canto ci dispiace per la visita alla sinagoga romana e soprattutto la dichiarazione del Papa che noi e gli Ebrei preghiamo lo stesso Dio. [..]

Echi tridentini: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, "Il Gattopardo" (1958)

«”Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte (...)». 
.
.E’, questo, l’incipit di un bel romanzo scritto e pubblicato una cinquantina d’anni fa: Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957). E’ ambientato nella Sicilia di un secolo prima: protagonista una famiglia di antica nobiltà, coinvolta nel delicato passaggio storico dalla monarchia borbonica a quella sabauda, da una pasticciona dinastia cattolica a una spregiudicata dinastia massonica. Il primo capitolo, datato “maggio 1860” (il giorno 5 di quel mese, ricordiamo, salpavano da Quarto di Genova i Mille in camicia rossa), si apre con le righe sopra riportate e si chiude, dopo un giro di 360 gradi, così: 
.
  «La famiglia si andava riunendo. La seta delle gonne frusciava. I più giovani scherzavano ancora fra loro. Si udì da dietro l’uscio la consueta eco della controversia fra i servi e Bendicò, che voleva ad ogni costo prender parte. Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminava le bertucce maligne.

Presentazione dell'ultimo libro di don Bux

L’Editore Cantagalli
è lieto di invitare alla presentazione del libro di
Nicola Bux
Gesù il salvatore
Luoghi e tempi della Sua venuta nella storia
Sabato, 27 febbraio 2010 ore 11,00
Aula Minor
Istitutum Patristicum Augustinianum
Via Paolo VI, 25 – Roma

Intervengono:
S.E. Rev.ma Card. Raffaele Farina
Archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa
Dott. Vittorio Messori
Scrittore e giornalista
Modera:
Dott.ssa Maria Antonietta Calabrò
Giornalista del Corriere della Sera
Sarà presente l’Autore

Nicola Bux
Gesù il salvatore
Luoghi e tempi della Sua venuta nella storia
Cantagall i 2009
pp. 144 - e 18,00

Un pellegrinaggio ideale seguendo le orme dei primi grandi cronachisti, santi, vescovi, ma anche un invito a seguire le orme del Salvatore nei luoghi dove Egli, i suoi genitori terreni ed i genitori della Vergine, il Battista e gli Apostoli, vissero le vicende meravigliose del Dio fattosi uomo.
Un pellegrinaggio in cui fede e storia si confermano a vicenda, ravvivando il ricordo, rafforzando il legame tra quei luoghi, quei tempi e la nostra continua ricerca di Lui in noi.
Info: Tel. 0577 42102; Fax 0577 45363;

sabato 20 febbraio 2010

Il Settimanale di Padre Pio

Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo:


Carissimi fratelli in Cristo,

da anni curiamo una rivista settimanale che forse già conoscete: Il Settimanale di Padre Pio pensata e voluta unicamente per portare luce nelle famiglie italiane, con la speranza anche che la rivista possa prendere il posto di tanta stampa purtroppo non buona e di cui ormai quotidianamente ci si nutre.

Dall’uscita del Motu proprio Summorum Pontificum abbiamo anche inserito una rubrica sulla Liturgia e la Tradizione, mentre quest’anno, in occasione dell’Anno Sacerdotale abbiamo inserito una rubrica omonima per tutti i sacerdoti.

Veniamo a chiedervi la carità, ma solo se ciò potesse essere possibile,
di informare i lettori del vostro sito che, chi desidera, può ricevere gratuitamente a casa delle

Magister: "Mancuso, un modernista pieno di ragnatele"

di Sandro Magister

Sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica“, con l’imprimatur delle autorità vaticane, il teologo gesuita Giovanni Cucci stronca l’ultimo libro di Vito Mancuso, “La vita autentica

Verso la fine della recensione, padre Cucci scrive:

“Mettendo a confronto le varie parti del libro, il meno che si possa dire è che la conduzione del discorso risulta molto ambigua ed equivoca, per non dire contraddittoria. In fin dei conti, per Mancuso, Dio è necessario o no ai fini del discorso sull’autenticità? Le risposte che giungono dal libro non consentono di stabilirlo, poiché si afferma in una pagina quanto viene negato alla pagina successiva.

“La prospettiva di un orizzonte impersonale non risulta soltanto insostenibile in sede filosofica. Resterebbe da chiedersi come Mancuso, escludendo dal suo discorso la possibilità di Dio, possa ancora presentarsi come un teologo cristiano, e su che cosa verta a questo punto l’indagine della sua disciplina, ammesso che le parole conservino ancora un senso”.

*

Intanto, però, la carovana di Mancuso gira per l’Italia, al traino di quell’astuto imprenditore culturale che è Corrado Augias.

Mercoledì 17 febbraio il “teologo” ha fatto tappa a Firenze. Dove ha incrociato la penna affilata di Pietro De Marco, che l’indomani, sull’inserto fiorentino del “Corriere della Sera”, l’ha sistemato così:

LA MACCHINA DEL TEMPO. UN CONFRONTO SULLA FEDE VECCHIO DI UN SECOLO

Le formula “Leggere per non dimenticare”, che intitola a Firenze una nutrita, seguitissima serie di presentazioni di libri e autori, suonava particolarmente convincente ieri al pubblico più provveduto. Il confronto tra Vito Mancuso, che “insegna teologia” all’università privata Vita-Salute di Milano, e Corrado Augias, giornalista e autore-conduttore di programmi televisivi, ricordava infatti i toni e i contenuti di una tipica discussione d’inizio Novecento, tra un intellettuale cattolico modernista e un divulgatore agnostico e anticlericale.

Mancuso ha ripetuto, con una semplificazione che è già tutta nei suoi libri, qualcosa che il secolo scorso ha conosciuto fino alla nausea e al rigetto, filosofico e teologico. La fede è esperienza vitale, nasce dalla Vita, sussiste, se resta autentica, nella Vita; le religioni vengono dopo, interpretano variamente l’Esperienza, le si aggiungono come sovrastrutture; la Realtà è un tutto energetico, percorso come da una “corrente elettrica” che è la modalità autentica dell’esistere; il Dio personale del cristianesimo è teologia infantile o erronea, da superare, al pari di altri fondamenti della fede cristiana come il peccato, il male, l’immortalità dell’essere personale creato.

In un libretto recente, “La vita autentica”, il nostro “teologo” scrive: “Essendo tutto dominato dalla logica evolutiva, non esiste alcun punto fermo, se con fermo si intende qualcosa di statico e di immobile [...]. Dio è un punto fermo [...] nel senso di immutabile quanto alla dinamica del suo movimento vitale che è l’amore [...]. E va da sé che, non essendo Dio, a maggior ragione non sono punto fermo né la Bibbia [...] né la Chiesa con il suo magistero dottrinale [...], il quale parla veramente nel nome del Dio vivo solo se consente e incrementa il creativo dinamismo della libertà”. Un linguaggio disarmante, che non accetterei nella tesina di uno studente.

Mancuso aggiunge che “il punto in base al quale pensare me stesso e gli altri [...] non è statico, ma è dinamico, e tuttavia è fermo”. Per lui “il punto fermo di tipo dinamico” è una essenziale libertà non anarchica, un principio guida dell’essere. Un punto archimedeo. Sulla sua base, scrive: “sollevo me stesso, posso prendere in mano la mia vita, so cosa sono, attivo la mia natura profonda”.

Questo monismo energetico, disperante nella sua dogmaticità, può certamente apparire frutto di un tardo, sfilacciato New Age. La Rivelazione, le Rivelazioni, sono accessorie. Ma il sostrato teorico di Mancuso è ben descritto da molti passi di un testo scritto più di cento anni fa.

L’enciclica “Pascendi“, del settembre 1907, prima che condannare diagnosticava magistralmente derive simili. Per i modernisti, scriveva, “nel sentimento religioso si deve riconoscere come un’intuizione del cuore”; essa “mette l’uomo in contatto immediato la realtà stessa di Dio”, così “chiunque abbia questa esperienza diventa credente in senso vero e proprio”. Il filosofo religioso di tipo modernista divinizza sia il Cosmo sia il suo Principio immanente. Vale la pena di rileggere l’enciclica di Pio X, una diagnosi che fu giudicata in molte cerchie filosofiche un capolavoro. E che, perfetta per l’oggi, rivela il suo valore predittivo.

Da anni, leggendo Mancuso, sono diviso tra lo stupore per una cultura, filosofica e teologica, approssimativa ed esibita, e la riflessione sul suo successo. Che Augias abbia catturato Mancuso in un libro a due, che si vende molto, e che se lo porti dietro in un inesausto calendario di incontri, ha una sua logica. Mancuso produce, infatti, più danni nella religiosità comune e cattolica che la cultura ottocentesca del giornalista de “la Repubblica”. Dopo Adriano Prosperi, e altri, la coppia Mancuso-Augias garantisce una solida continuità di polemica anticattolica. Augias ha avuto persino il cattivo gusto di polemizzare a Firenze col suo “arcivescovo retrivo”.

Ma che la minoranza cattolica che legge di “teologia” accetti enunciati vitalistici che Max Weber avrebbe detto da rivista salottiera (“la vera fede si nutre delle interrogazioni radicali della vita perché sa di essere al servizio della vita”); e li accetti come “metodo” e come via d’uscita da quello che il nostro “teologo” definisce le incapacità teologiche della dommatica cattolica (che non conosce), produce allarme. Chi ha decostruito l’intelletto cattolico a questo punto?

(Di Pietro De Marco, Firenze, 18 febbraio 2010).

La vestizione dei paramenti liturgici e le relative preghiere



Riportiamo da Zenit questo intervento, non recentissimo, del Prof. don Mauro Gagliardi sui paramenti liturgici. E' sempre utile ed ispirante e lo dedichiamo a quei sacerdoti - uno in particolare: orate pro eo - che per la prima volta si accostano alla liturgia tradizionale con interesse o anche solo curiosità, ma possono essere ancora imbevuti di pregiudizi, tante volte ascoltati, contro questi orpelli secondari "di una volta". Secondari in effetti sono, rispetto agli elementi essenziali della Messa; ma non sono certo orpelli inutili, volti solo a soddisfare un vacuo estetismo: al contrario, hanno una simbologia profonda e mistagogica, che le preghiere di vestizione chiariscono e spiegano, predisponendo al meglio alla celebrazione: la stola segno della potestà d'ordine; il manipolo simbolo della fatica e del dolore del divin sacrificio; il cingolo vincolo di castità; l'amitto cimiero di fortezza; la pianeta giogo di fedeltà, e così via.


1. Cenni storici

Le vesti usate dai ministri sacri nelle celebrazioni liturgiche sono derivate dalle antiche vesti civili greche e romane. Nei primi secoli, l’abito delle persone di un certo livello sociale (gli honestiores) è stato adottato anche per il culto cristiano e questa prassi si è mantenuta nella Chiesa anche dopo la pace di Costantino. Come emerge da alcuni scrittori ecclesiastici, i ministri sacri portavano le vesti migliori, con tutta probabilità riservate per tale occasione [1].

Mentre nell’antichità cristiana le vesti liturgiche si sono distinte da quelle civili non in ragione della loro forma particolare, ma per la qualità della stoffa e per il loro particolare decoro, nel corso delle invasioni barbariche i costumi e, con essi, gli abiti di nuovi popoli sono stati introdotti in Occidente e hanno apportato cambiamenti nella moda profana. Invece, la Chiesa ha mantenuto essenzialmente inalterate le vesti usate dal clero nel culto pubblico; così si è differenziato l’uso civile delle vesti da quello liturgico.

In epoca carolingia, infine, i paramenti propri ai vari gradi del sacramento dell’ordine, tranne alcune eccezioni, sono stati definitivamente fissati ed hanno assunto la forma che hanno ancora oggi.


2. Funzione e significato spirituale

Al di là delle circostanze storiche, i paramenti sacri hanno una funzione importante nelle celebrazioni liturgiche: in primo luogo, il fatto che non sono portati nella vita ordinaria, e perciò possiedono un carattere cultuale, aiuta a staccarsi dalla quotidianità e dai suoi affanni, al momento di celebrare il culto divino. Inoltre, le forme ampie delle vesti, ad esempio del camice, della dalmatica e della casula o pianeta, pongono in secondo piano l’individualità di chi le porta, per far risaltare il suo ruolo liturgico. Si può dire che la “mimetizzazione” del corpo del ministro al di sotto delle ampie vesti, in un certo senso lo spersonalizza, di quella sana spersonalizzazione che toglie dal centro il ministro celebrante e riconosce il vero Protagonista dell’azione liturgica: Cristo. La forma delle vesti, dunque, dice che la liturgia viene celebrata in persona Christi e non a nome proprio. Colui che compie una funzione cultuale non attua in quanto persona privata, ma come ministro della Chiesa e come strumento nelle mani di Gesù Cristo. Il carattere sacro dei paramenti risulta anche dal fatto che vengono assunti secondo quanto descritto nel Rituale Romano.

Nella forma straordinaria del Rito Romano (cosiddetta di San Pio V), la vestizione dei paramenti liturgici è accompagnata da preghiere relative ad ogni veste, preghiere il cui testo si trova ancora in molte sagrestie. Anche se queste orazioni non sono più prescritte (ma neppure vietate) dal Messale della forma ordinaria emanato da Paolo VI, il loro uso è consigliabile, perché aiutano alla preparazione ed al raccoglimento del sacerdote prima della celebrazione del Sacrificio eucaristico. A conferma dell’utilità di queste preghiere, va notato che esse sono state incluse nel Compendium eucharisticum, pubblicato recentemente dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [2]. Inoltre, può essere utile ricordare che Pio XII, con decreto del 14 gennaio 1940, assegnò un’indulgenza di cento giorni per le singole orazioni.


3. Le singole vesti liturgiche e le preghiere che accompagnano la vestizione

1) All’inizio della vestizione, il sacerdote si lava le mani recitando un’apposita preghiera; oltre al fine pratico dell’igiene, questo atto ha anche un simbolismo profondo, in quanto significa il passaggio dal profano al sacro, dal mondo del peccato al puro santuario dell’Altissimo. Lavarsi le mani equivale in qualche modo al togliersi i sandali davanti al roveto ardente (cf. Esodo 3,5). La preghiera accenna a questa dimensione spirituale:

Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam; ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.

(Da’, o Signore, alle mie mani la virtù che ne cancelli ogni macchia: perché io ti possa servire senza macchia dell’anima e del corpo) [3].

All’abluzione delle mani, segue la vestizione vera e propria.

2) Si comincia con l’amitto, un panno di lino rettangolare munito di due fettucce, che si appoggia sulle spalle e si fa poi aderire al collo; infine si lega attorno alla vita. L’amitto ha lo scopo di coprire l’abito quotidiano attorno al collo, anche se si tratta dell’abito del sacerdote. In questo senso, bisogna ricordare che l’amitto va indossato anche quando si utilizzano fogge di camici moderne, le quali spesso non prevedono un’apertura ampia nella parte superiore, e tendono piuttosto a stringersi attorno al collo. Nonostante ciò, l’abito quotidiano rimane ugualmente visibile e per questo è necessario coprirlo anche in questi casi con l’amitto [4].

Nel Rito Romano, l’amitto è indossato prima del camice. Nell’assumerlo, il sacerdote recita la seguente preghiera:

Impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus.

(Imponi, Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per sconfiggere gli assalti diabolici).

Con richiamo alla Lettera di san Paolo agli Efesini 6,17, l’amitto viene interpretato come «l’elmo della salvezza», che deve proteggere colui che lo porta dalle tentazioni del demonio, in particolare dai pensieri e desideri cattivi durante la celebrazione liturgica. Questo simbolismo è ancora più chiaro nel costume seguito a partire dal medioevo dai Benedettini, Francescani e Domenicani, presso i quali l’amitto si applicava prima sulla testa e poi si lasciava cadere sulla casula o sulla dalmatica.

3) Il camice o alba è la lunga veste bianca indossata da tutti i sacri ministri, che ricorda la nuova veste immacolata che ogni cristiano ha ricevuto mediante il battesimo. Il camice è dunque simbolo della grazia santificante ricevuta nel primo sacramento ed è considerato anche simbolo della purezza di cuore necessaria per entrare nella gioia eterna della visione di Dio in Cielo (cf. Matteo 5,8). Questo si esprime nella preghiera detta dal sacerdote, mentre indossa il camice, orazione che fa riferimento ad Apocalisse 7,14:

Dealba me, Domine, et munda cor meum; ut, in sanguine Agni dealbatus, gaudiis perfruar sempiternis.

(Purificami, Signore, e monda il mio cuore, perché purificato nel Sangue dell’Agnello, io goda degli eterni gaudi).

4) Sopra il camice, all’altezza della vita, è indossato il cingolo, un cordone di lana o di altro materiale adatto che si utilizza a mo’ di cintura. Tutti gli officianti che indossano il camice dovrebbero portare anche il cingolo (questa consuetudine tradizionale è oggi disattesa molto di frequente) [5]. Per i diaconi, i sacerdoti e i vescovi, il cingolo può essere di diversi colori, secondo il tempo liturgico o la memoria del giorno. Nel simbolismo delle vesti liturgiche, il cingolo rappresenta la virtù del dominio di sé, che san Paolo enumera anche tra i frutti dello Spirito (cf. Galati 5,22). La corrispondente preghiera, prendendo spunto dalla Prima Lettera di Pietro 1,13, dice:

Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.

(Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della dissolutezza, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità).

5) Il manipolo è un paramento liturgico adoperato nelle celebrazioni della Santa Messa secondo la forma straordinaria del Rito Romano; è caduto in disuso negli anni della riforma liturgica, anche se non è stato abolito. Il manipolo è simile alla stola, ma di lunghezza minore: è lungo meno di un metro e fissato a metà da un fermaglio o da fettucce simili a quelle che si trovano nella pianeta. Durante la Santa Messa nella forma straordinaria, il celebrante, il diacono e il suddiacono lo portano all’avambraccio sinistro. Questo paramento forse deriva da un fazzoletto (mappula) che era portato dai romani annodato al braccio sinistro. Siccome la mappula si utilizzava per detergere il viso da lacrime e sudore, gli scrittori ecclesiastici medievali hanno assegnato al manipolo il simbolismo delle fatiche del sacerdozio. Questa lettura è entrata anche nell’apposita preghiera di vestizione:

Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris.

(O Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore, affinché riceva con gioia il compenso del mio lavoro).

Come si vede, nella prima parte la preghiera cita il pianto ed il dolore che accompagnano il ministero sacerdotale, ma nella seconda parte si fa riferimento al frutto del proprio lavoro. Non sarà fuori luogo richiamare il passo di un salmo che può aver ispirato questa seconda simbologia del manipolo, visto che la Vulgata così rendeva il Salmo 125,5-6: «Qui seminant in lacrimis in exultatione metent; euntes ibant et flebant portantes semina sua, venientes autem venient in exultatione portantes manipulos suos» (corsivo nostro).

6) La stola è l’elemento distintivo del ministro ordinato e si indossa sempre nella celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali. È una striscia di stoffa, di norma ricamata, il cui colore varia secondo il tempo liturgico o il giorno del santorale. Indossandola, il sacerdote recita la relativa preghiera:

Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis; et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.

(Restituiscimi, o Signore, la stola dell’immortalità, che persi a causa del peccato del primo padre; e per quanto accedo indegno al tuo sacro mistero, che io raggiunga ugualmente la gioia senza fine).

Siccome la stola è un paramento di enorme importanza, che indica più di ogni altro lo stato di ministro ordinato, non si può non lamentare l’abuso ormai diffuso in molti luoghi che i sacerdoti non portino più la stola quando indossano la casula [6].

7) Infine, ci si riveste della casula o della pianeta, la veste propria di colui che celebra la Santa Messa. I libri liturgici hanno usato in passato i due termini latini casula e planeta come sinonimi. Mentre il nome di planeta si usava particolarmente a Roma ed è rimasto in Italia, il nome di casula deriva dalla forma tipica della veste che all’origine circondava interamente il sacro ministro che la portava. L’uso della parola casula si trova anche in altre ligue: «casulla» in spagnolo, «chasuble» in francese e in inglese, «Kasel» in tedesco. La preghiera relativa alla casula fa riferimento all’esortazione della Lettera ai Colossesi 3,14: «Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione»; e, infatti, l’orazione con cui si indossa la casula o pianeta cita le parole del Signore contenute in Matteo 11,30:

Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam. Amen.

(O Signore, che hai detto: Il mio gioco è soave e il mio carico è leggero: fa’ che io possa portare questo [indumento sacerdotale] in modo da conseguire la tua grazia. Amen).

In conclusione, si può auspicare che la riscoperta del simbolismo proprio ai paramenti e delle rispettive preghiere possa incoraggiare i sacerdoti a riprendere la consuetudine di pregare durante la vestizione, in modo da prepararsi con il dovuto raccoglimento alla celebrazione liturgica. Se è vero che è possibile pregare con diverse orazioni, o anche semplicemente elevando la mente a Dio, nondimeno i testi delle preghiere per la vestizione hanno dalla loro parte la brevità, la precisione del linguaggio, l’afflato di spiritualità biblica, nonché il fatto di essere state pregate per secoli da un numero incalcolabile di sacri ministri. Queste orazioni si raccomandano dunque ancora oggi, per la preparazione alla celebrazione liturgica, anche svolta in accordo alla forma ordinaria del Rito Romano.

Note

[1] Cf. ad esempio san Girolamo, Adversus Pelagianos, I, 30.

[2] Edito dalla LEV, Città del Vaticano 2009, pp. 385-386.

[3] Riprendiamo il testo delle preghiere dall’edizione del Missale Romanum emanato nel 1962 dal beato Giovanni XXIII, Roman Catholics Books, Harrison (NY) 1996, p. lx. La traduzione in italiano delle preghiere è nostra.

[4] La Institutio Generalis Missalis Romani (2008) al n. 336 permette di non assumere l’amitto quando il camice è confezionato in maniera tale da coprire completamente il collo, nascondendo la vista dell’abito comune. Di fatto, però, avviene di rado che l’abito non sia visibile, anche solo parzialmente; di qui la raccomandazione ad utilizzare comunque l’amitto.

[5] Lo stesso n. 336 della Institutio del 2008 prevede la possibilità di omettere il cingolo, se il camice è confezionato in maniera tale da aderire al corpo senza di esso. Nonostante questa concessione, bisogna riconoscere: a) il valore tradizionale e simbolico dell’uso del cingolo; b) il fatto che difficilmente il camice – sia in foggia più tradizionale, che soprattutto nei tagli più moderni – aderisce da sé al corpo. Se la norma prevede la possibilità, essa dovrebbe però restare piuttosto ipotetica in via di fatto: in concreto, il cingolo risulta sempre necessario. A volte si trovano oggi dei camici che hanno il cingolo incorporato: una fettuccia di stoffa unita al camice per mezzo di una cucitura all’altezza della vita e che si annoda al momento della vestizione: in questi casi la preghiera sul cingolo può essere recitata mentre si annoda. Resta però di gran lunga preferibile la forma tradizionale.

[6] «Il Sacerdote che porta la casula secondo le rubriche non tralasci di indossare la stola. Tutti gli Ordinari provvedano che ogni uso contrario sia eliminato»: Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, 25 marzo 2004, n. 123.