Post in evidenza

Elenchi dei Vescovi (e non solo) pro e contro Fiducia Supplicans #fiduciasupplicans #fernández

Pubblichiamo due importanti elenchi. QUI  un elenco coi vescovi contrari, quelli favorevoli e quelli con riserve. QUI  un elenco su  WIKIPED...

giovedì 30 aprile 2009

I vescovi tedeschi stoppano la nomina di un cattoprogressista


I Vescovi tedeschi hanno opposto il loro veto alla nomina del previsto Presidente (non aveva competitori per le elezioni interne) del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (Zentralkomittee der deutschen Katholiken), la principale organizzazione laicale di Germania (come il sinistro nome "comitato centrale" lascia indovinare) e forse la più grande del genere nel mondo. Il candidato era Heinz Wilhelm Brockmann (nella foto), Segretario di Stato del Ministero della Cultura del Land Hessen; il suo partito è la CDU (il partito cristiano democratico). Brockmann ha spiegato ai media che è importante che i Cattolici partecipino alla società civile e si confrontino con temi essenziali come il clima, l'educazione, il comportamento etico in economia.

Avrebbe dovuto essere eletto alla Presidenza (anche perché non ci sono altri candidati) il prossimo otto maggio, fortemente spinto dai vari consigli pastorali diocesani. Sennonché lo statuto dell'organizzazione richiede che la conferenza episcopale approvi l'elezione del nuovo presidente con una maggioranza di due terzi; e richiesta di un'approvazione preventiva, la conferenza episcopale l'ha respinta a maggioranza.

Il vescovo di Osnabrück, Mons. Franz-Josef Bode, ha ritenuto molto spiacevole la decisione dei suoi confratelli, che tra l'altro non ha precedenti; il portavoce del vescovo ha osservato come mons. Bode ritenesse il candidato "ben qualificato" per l'importante posizione.

Perché dunque la (lodevolissima) bocciatura?

Perché Brockmann è attivo da sempre in corpi laicali il cui obiettivo è minare dall'interno la Chiesa.

Egli è vicino a gruppi dissidenti, nostalgici degli anni Sessanta e Settanta, come Chiesa Popolare, Chiesa dal basso, e simili.

E' cofondatore dell'organizzazione di consultori Donum Vitae che, a dispetto del nome, si occupa di rilasciare alle madri incinte i certificati, richiesti dalla legge tedesca, per avere accesso all'aborto.

Quando la Chiesa tedesca volle separarsi dalle sue responsabilità in simili organizzazioni abortiste, Brockmann definì la scelta "un disastro".

Infine, profittando del suo impegno politico, si è battuto per l'insegnamento della religione islamica nelle scuole.


Riconosciamo dunque merito, in questo frangente, ai vescovi tedeschi. Forse qualcosa si muove.

Fonte: Cathcon

Tornielli: Ranjith in Sri Lanka. La salute di Canizares


di Andrea Tornielli

Ormai è deciso e la pubblicazione della nomina potrebbe essere resa nota già sabato prossimo: monsignor Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don [nella foto], attuale segretario della Congregazione del culto divino, lascia una seconda volta la Curia romana per tornare in Sri Lanka. Sarà nominato arcivescovo di Colombo, e non si esclude, per lui, la berretta cardinalizia in un prossimo concistoro. Vescovo ausiliare di Colombo nel 1991, nel novembre 1995 gli venne assegnata la diocesi cingalese di Ratnapura. Sei anni dopo, nell’ottobre 2001, Papa Wojtyla lo nominò segretario aggiunto della Congregazione di Propaganda Fide, guidata dal cardinale Crescenzio Sepe. I due non andarono molto d’accordo, e così, a sorpresa, nell’aprile 2004 Ranjith - che non apparteneva al servizio diplomatico della Santa Sede - fu nominato nunzio apostolico in Indonesia e Timor Est. Il prelato, ben conosciuto dall’allora cardinale Ratzinger, considerò l’allontanamento un’ingiusta punizione. Nessuno si sorprese, dunque, che Benedetto XVI, pochi mesi dopo l’elezione, nel dicembre 2005, lo richiamasse a Roma come segretario del Culto divino. Tutti pensavano che, al momento della pensione per l’allora Prefetto, il cardinale nigeriano Francis Arinze, sarebbe toccato al suo vice di prenderne il posto. Considerato dagli avversari troppo vicino ai tradizionalisti e ai lefebvriani, a causa anche di qualche intervista improvvida dai toni poco misurati, Ranjith ha visto prima sfumare la possibilità della successione ad Arinze (anche se il nome dell’attuale Prefetto, il pororato spagnolo Antonio Canizares Llovera, era tra quelli suggeriti da lui), e ora viene allontanato per la seconda volta dalla Curia romana. La sua presenza in prima linea sulla frontiera asiatica sarà importante, perché lì si gioca una sfida decisiva per la Chiesa. Ma è difficile non considerare la nomina un promoveatur ut amoveatur. Si conferma così quello della liturgia come un ambito delicatissimo, teatro di “battaglie” tra impostazioni diverse. Ed è significativo che Papa Ratzinger abbia deciso di affidare il dialogo con i lefebvriani non alla Congregazione del Culto, ma a quella per la Dottrina della Fede. Dal fine della scorsa settimana, il cardinale Canizares è ricoverato al Policlinico Gemelli per una tromboflebite (ne ha dato notizia il quotidiano spagnolo ABC). Lo stress delle ultime settimane, legato alla designazione del successore di Ranjith, ne ha aggravato le conseguenze. Il porporato, che si sta riprendendo bene, dovrà rimanere in ospedale per due settimane e dunque - se la nomina a Colombo di Ranjith sarà resa nota già sabato - difficilmente sarà contestualmente annunciato anche il suo successore, sul cui nome nei sacri palazzi si è giocata una non facile partita. Sarà, con tutta probabilità, un vescovo anglofono. Si tratta di una nomina delicatissima e ben ponderata: il nuovo segretario avrà infatti un ruolo chiave per poter contribuire a pacificare finalmente il “campo di battaglia” liturgico, attuando al contempo con moderazione, a piccoli passi, ma con determinazione, quella “riforma della riforma” liturgica tanto auspicata da Benedetto XVI: senza inutili nostalgie per il passato né sterili formalismi, guardando al futuro nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II e al tempo stesso correggendo con pazienza storture e abusi liturgici. Negli ultimi anni i segretari del Culto si sono avvicendati con una frequenza che non ha precedenti negli altri dicasteri curiali. In molti si augurano che questa volta la scelta sia ben ponderata e l’eletto abbia davanti a sé un tempo sufficiente per ambientarsi e collaborare efficacemente con il Prefetto Canizares e con il Papa.

Quella volta che il card. Ratzinger fu fermato senza il visto in aeroporto...


Il Papa ha nominato il nuovo presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, il vescovo (ora arcivescovo) Zygmunt Zimowski (a sinistra nella foto), già suo collaboratore alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Il sito Benoit et moi ha ripubblicato questa intervista del presule polacco, rilasciata nel 2006, in cui ricorda gli anni in cui ebbe a lavorare con l’allora card. Ratzinger. Ringraziamo con profonda gratitudine e riconoscenza la cara Luisa che non solo ci ha segnalato l'intervista, ma si è anche presa cura di tradurne la gran parte, a beneficio di tutti i lettori italiani. Grazie, Luisa.


-Eccellenza, lei è senza dubbio il polacco che conosce meglio Benedetto XVI. Quanto tempo avete lavorato insieme alla CDF?
Diciannove anni e 15 giorni. E' quel che lo Stato della Città del Vaticano ha calcolato per il mio trattamento pensionistico, che riceverò dopo il mio 75o compleanno. Io spero di vivere ancora altrettanto (ride)

-Quando lo ha incontrato per la prima volta?
Nell`autunno 1975. Il vescovo di Innsbruck celebrava il trentesimo anniversario della sua ordinazione episcopale e aveva invitato il cardinale Ratzinger, allora arcivescovo di Monaco per tenere l’omelia.
Mi ricordo dei suoi gesti, come la sua omelia scorreva fluida, i fedeli lo ascoltavano la bocca aperta. Ho osservato allora che Joseph Ratzinger è non solo un teologo ma anche un pastore. Ho visto la sua umiltà. E questa prima impressione resterà con me per sempre [..]
Ho cominciato a lavorare alla CDF nel 1983. C’è un proverbio che dice: “la sorte è cascata su Matteo”. Ho dapprima rifiutato dicendo che non avevo studiato a Roma che la Curia Romana mi era sconosciuta ma l’arcivescovo Ablewitz sorridendo mi disse "è meglio che non ci siano bagagli (del passato)”
Dopo fu la routine, il lavoro quotidiano accanto a questo grande uomo. I membri della Congregazione hanno sempre pensato che Ratzinger era un grande uomo di Chiesa. Siamo stati affascinati dalla sua semplicità, la sua bontà, la sua apertura.

-Questo contraddice l`immagine dei media: il panzercardinal, Ratzinger così riservato miracolosamente trasformato in un sorridente Benedetto XVI?
Sì ho letto questa opinione. È un grosso malinteso. Il cardinale è sempre stato un uomo sorridente, gioioso, dolce. Era timido, ma quando, dopo aver passato l`ostacolo della timidezza, si avvicinava , si impegnava a fondo.

-Era un panzercardinal?
Sì, quando si trattava della fede. San Paolo scrive che dobbiamo avere un`armatura di fede. È stato fermo e uomo di decisione, perchè durante 23 anni come prefetto doveva decidere in materia di fede e morale. Ma è sempre stato accanto a Giovanni Paolo II. Ho notato che i media quando avevano paura di attaccare direttamente il Papa molto spesso attaccavano al suo posto il cardinale Ratzinger.

- Questo lo imbarazzava?
Più c’erano critiche e più era calmo. Paradossalmente. È un uomo di preghiera. Ha sempre sottolineato che sono la verità, la pienezza della fede che contano.

-Quali sono i documenti che hanno provocato le critiche le più violente?
Per esempio i due documenti univoci - sulla teologia della liberazione e la Dominus Jesus, nel 2000. Io mi ricordo che ebbi una cena tête-à-tête con Giovanni Paolo II - Mons. Dziswisz era in missione da qualche parte - e il S. Padre mi ha parlato di quei documenti. Ha detto che la teologia della liberazione aveva solamente una dimensione orizzontale, che non aveva riferimenti a Dio. Ha aggiunto: "Io so perché i comunisti mi odiano tanto". Ha sbottonato tre bottoni della sua talare bianca e ha sorriso: "Perché io conosco l'interno"

-E Dominus Jesus? I media hanno spesso scritto che si trattava di un documento scritto in opposizione a Giovanni Paolo II...
Non è affatto vero! Il Papa aspettava veramente questo documento. Gli ha consacarato diverse meditazioni all`Angelus. Certe persone hanno voluto ostinatamente provare che il cardinale aveva cercato di spingere il documento. Tuttavia, ogni documento della Congregazione per la Dottrina della Fede ha qualcosa di un Credo, è ratificato dal Papa.
I media hanno voluto mettere il cardinale in conflitto con il Papa. Ma io li vedo ancora insieme, hanno sempre seguito una strada comune [..] Sono sempre stati vicini l`uno all`altro.
In occasione della Dominus Jesus, certi hanno anche voluto mettere in opposizione due cardinali tedeschi, Ratzinger e Kasper, responsabile dell’unità dei cristiani, ma non ci sono riusciti.

- Eccellenza, Lei ha insistito sulla semplicità del suo superiore. La vostra conversazione circa la sua ordinazione episcopale è diventata quasi un aneddoto.
Quando ho accettato la nomina per iscritto come vescovo di Radom, sono andato dal card. Ratzinger. Nel corso della conversazione, mi sono alzato di improvviso, mi ha guardato con aria un po’ perplessa, e gli ho detto: "Durante tutti questi giorni non ho mai domandato nulla, ma ora vi domando, Signor Cardinale, di ordinarmi vescovo." E’ rimasto sorpreso. Mi ha guardato e mi ha risposto: "Non sono degno".
E io ho detto: "No, sono io che non sono degno".
"Se nessuno di noi è degno, allora facciamolo", ha risposto sorridendo. E poi ha chiesto: "Ma in che lingua? Io non conosco il polacco".
Io ho proposto il latino. E ha risposto: "Che cosa dirà la gente di Radom? Ci devono comprendere". "Prepareremo dei libretti con le traduzioni", gli ho risposto.

- Una prova di grande intuizione sacerdotale.
Sì. Conosco parecchi altri esempi dell’umiltà del cardinale. Venti collaboratori della Congregazione per la Dottrina della Fede hanno preso lo stesso aereo per Radom, per la mia ordinazione. Quando ho proposto al cardinale un posto in classe affari, ha rifiutato. "Mi siederò con gli altri", ha risposto.
Poi, sull’aereo, gli hanno offerto un posto in classe affari, ma ha nuovamente rifiutato. Il volo è stato ritardato di un’ora, ma lui era in piedi ad aspettare umilmente. Molto edificante per noi.
Un altro aneddoto. L’episcopato americano aveva invitato il card. Ratzinger negli Stati Uniti. Padre Thomas, l’americano che organizzava questo viaggio, non ha pensato di procurarsi un visto per il cardinale. Sono atterrati a New York. Il Padre Thomas è passato dall’uscita per i cittadini americani, e il cardinale è rimasto pazientemente in piedi nella fila d’attesa per gli stranieri. Il Padre Thomas è andato a prendere i bagagli e il cardinale attendeva. Un quarto d’ora, mezz’ora, anche più. Alla fine è arrivato allo sportello di immigrazione. Ha dato all’agente il suo passaporto dello Stato della Città del Vaticano.
L’agente l’ha scrutato e gli ha chiesto quale fosse il motivo della sua visita: affari o piacere? Sorpreso, ha sorriso: "Non lo so...". L’agente d’immigrazione gli ha dichiarato: "Non posso lasciarla passare, padre, non ha il visto". Egli ha preso il suo passaporto tedesco, ma l’agente ha risposto: "Comunque le serve un visto". Il cardinale aspettava umilmente davanti allo sportello. Il Padre Thomas ha visto da lontano che c’era qualche problema e ha gridato: "Lo sa che quest’uomo è il cardinale Ratzinger?" E l’agente ha risposto: "Ma se non ha il visto...".
Il P. Thomas ha tempestato i responsabili dell’aeroporto e il cardinale ha ottenuto un visto di 30 giorni. Ha visitato diverse diocesi, fatto delle predicazioni. Nel corso della sua ultima riunione a Filadelfia ha riferito questa storia. Alla fine, ha aggiunto: "Ora so la ragione della mia visita: si trattava di un viaggio d’affari e di piacere". Tutti si sono messi a ridere.

- Avete fatto vacanze insieme?
Sì, una volta siamo stati una settimana in Sudtirolo (Bressanone). Abbiamo fatto passeggiate in montagna. Camminate non molto difficili, ma abbiamo camminato parecchio. La nonna del cardinale era sudtirolese, così si è riempito del paesaggio, l’ha ammirato.
Un’altra volta, abbiamo fatto un viaggio in Abruzzo. Mi ricordo bene che abbiamo incontrato un pastore. Un uomo semplice, non rasato, con il suo gregge. Gli si è avvicinato. Hanno cominciato a parlare. E allora ho avuto un’idea luminosa: devo fare una foto, perché si tratta di una riunione di due pastori!
[..]

– E come pregava il card. Ratzinger?
E’ uomo di profonda preghiera. Ho notato che amava soprattutto la preghiera dei salmi. Si fermava spesso, assorbito nella preghiera del breviario.
Diceva messa ogni mattina. La sola persona che vi partecipasse (all’inizio) era sua sorella: una donna semplice, modesta. Mi ricordo come si prendeva cura di lei, conducendola per Roma. La sua morte improvvisa è stato un grande shock per lui. Ella era andata alle tombe di famiglia ed è morta improvvisamente (il 2 novembre 19991 n.d.t.). L’ha sopportato con grande fede – dopo tutto aveva scritto un libro sull’escatologia – ma si è ben visto quanto ha sofferto.
[..]
- E come se la cava Benedetto XVI – un intellettuale timido, un topo di biblioteca - con la folla?
L’ho visto all’opera a Colonia. Sono rimasto commosso. Mi sono detto: "Oh, signor cardinale, che cosa le è successo?". Sono stato toccato quando l’ho visto, un uomo di grande delicatezza, predicare a più di un milione di pellegrini. Si tratta di una situazione nuova: il cardinale, quand’era prefetto, non poteva carezzare i bambini in piazza S. Pietro, perché si diceva che avrebbe fatto concorrenza al Papa. Ha fatto fedelmente solo quello che ci si aspettava da lui. Ma a Colonia, ho visto la potenza dello Spirito Santo. Come 2000 anni fa, quando ha ‘scosso’ gli Apostoli, oggi scuote questo teologo di grande modestia.
Quel che è interessante, è che Benedetto XVI ha parlato ad ogni nazione dei suoi problemi: ai Francesi ha parlato della messa domenicale, agli Italiani del Catechismo della Chiesa, ha ringraziato i Polacchi per il loro attaccamento alla fede. A Colonia, non ho visto un intellettuale pieno di modestia. Ho visto un profeta.

mercoledì 29 aprile 2009

Ancora sul teologo Mancuso

Dopo l'articolo di don Baget Bozzo dedicato all'eterodosso teologo alla moda, riprendiamo una recensione ad un libro scritto a quattro mani col sedicente esperto di esegesi biblica, Corrado Augias. La recensione che segue è apparsa su Il Foglio del 27 aprile. Se ne diamo notizia, lo scopo è sempre quello: se lo conosci, lo eviti.

LA TEOLOGIA DEI COLEOTTERI


E’ impossibile che un ateo erudito e un paleocristiano, incrociandosi, non si sorridano complici. La stessa febbre chiamata Dio li affratella in una comunità di destino. Nel caso di Corrado Augias e Vito Mancuso non si può dire che l’intesa produca espressioni identiche nella foto in bianco e nero sulla quarta di copertina del loro libro, scritto a quattro mani e con propositi agonistici medievalizzanti: “Disputa su Dio e dintorni”, Mondadori, 269 pagine per 18 euro e 50 centesimi. Ma questo accade perché uno dei due, il teologo Mancuso, ha già vinto in partenza e rilassa i muscoli; l’altro, l’erudito Augias, si contrae nel godimento sensuale della propria sconfitta. Entrambi sono programmaticamente fuori posto, ciascuno a modo suo, e appunto per questo interessanti. Mancuso è un credente acattolico a proprio agio nella chiesa cattolica contemporanea. Augias rivendica sangue ebraico per parte di madre, denuncia un incontro traumatico con la religione galilea (certe carezze di un prete), patisce lo scarto tra la tesi nullista che deve sostenere e la sensibilità con la quale affronta la pugna. Verrà sedotto e travolto senza clangore di ferri.

I due si trovano fin dall’inizio nella scelta di confrontarsi sull’origine della vita e la sua evoluzione, sul suo compimento e sulla libertà individuale d’incatenarsi a questa o quella sorte, a questa o quella morte. Chiamano ciò “Dintorni” ed è già il cuore del libro, il giardino in cui la disputa fiorisce nel dialogo e finisce per rendere quasi superflua la pars maior che segue, dedicata a “Dio (e altri misteri)”. Augias muove con generosità, rinuncia alla dissimulazione, non si mette in guardia, consegna se stesso e il senso dell’umano nel “grande flusso dell’Essere” che non è Dio, non ha trascendenza, non giustifica dogmi fuori dall’orizzonte morale dell’io federato al consesso civile. La legge morale “dentro di sé” è il salvacondotto kantiano opposto alla metafisica cattolica e alla sua proiezione mondana gerarchizzata, la chiesa vaticana, ed è il frutto di un’evoluzione giocata dalla sorte sulla ruota della casualità. Numerose, classiche e affidabili – da Darwin ai suoi migliori discendenti – le fonti biologiche e filosofiche che alimentano la narrazione illuminista di Augias. Ma che vale?

Il lettore del Foglio ha fatto in tempo a familiarizzare con la sottigliezza quieta di Mancuso, con la sua capacità di argomentare entrando in casa altrui per riconoscervi il calco negativo della propria. Con Augias va così. Il teologo raccoglie la medesima sintesi proteica dalla quale originò la vita visibile cara agli atei evoluzionisti e ne deduce un disegno implicito, “una logica intrinseca alla natura”, una legge pronta per sedimentarsi nello stesso Essere eterno, ma “personale, quel Dio interpretato dalle diverse religioni in vario modo, e dal cristianesimo come amore”. Già la parola amore ha un potere seduttivo stupefacente, percorre tutto l’arcobaleno che può collegare l’Eros primigenio – forza attrattiva universale – all’umanitarismo contemporaneo. Se poi si stralcia preventivamente la scena del Dio demiurgo che avrebbe prima creato e poi decotto il brodo primordiale (Genesi 2,7); se si predilige l’infusione del soffio vitale nella polvere per affermare “che l’origine della vita non va interpretata come un miracolo che scende dall’alto, bensì come una proprietà emergente da una certa configurazione della materia”; se si riduce a pura questione statistica la necessità interna alla formazione dell’essere uomo e delle sue aspirazioni estetico-spirituali; se si fa questo, e Mancuso fa proprio questo, si esce dalla lettera del testo rivelato su cui poggia l’edificio giudaico-cristiano ma si entra nell’accampamento avversario e si getta scompiglio. Stabilito (da un cattolico acattolico) che Dio è materia in ebollizione dotata di un fine interno, di che discutere oltre?

Sicché Augias ripiega subito sulla violenza mondana: “Penso che la storia della chiesa cattolica è accompagnata da una serie nutrita di errori e di crimini; la sua pretesa di proclamarsi portatrice di una morale valida per tutti non è legittima”. Ma qui si fa appello alla violenza di una chiesa dalla quale Mancuso è filosoficamente uscito prima ancora di entrare nelle pagine di questo libro. Così la replica diventa uno sfoggio sereno e compiaciuto di sensatezza convenzionale: la chiesa gerarchica e la sua dottrina ufficiale stanno da una parte e si ergono come un male necessario (forzatura interpretativa non peregrina) ma non sufficiente e anzi più spesso ostativo a che la “verità” dello spirito si dispieghi extra moenia. Perché dall’altra parte – dice Mancuso – signoreggia invece la sua “chiesa celeste” animata “dalla tensione interiore verso il bene e la giustizia” e di conseguenza tutta proiettata verso il mondo, fuori dalla sorella istituzionale gerarchica: “Se rimanda alla vera chiesa, che è la chiesa celeste, la chiesa istituzionale è fedele a se stessa, altrimenti no”. Bene, e che cosa sostiene questa chiesa celeste di cui Mancuso, perfetto discepolo di Carlo Maria Martini, è qui voce suadente? Per esempio, se Augias dice che i papa boys lasciano dietro di sé scie imbarazzanti di preservativi, la chiesa celeste certifica: “1) l’insostenibilità della dottrina cattolica ufficiale sulla contraccezione; 2) la maggior saggezza pratica di questi giovani rispetto ai dettami ufficiali della dottrina, incapace di fare i conti con la realtà della vita; 3) che dietro tante manifestazioni religiose di massa, così care al Vaticano dei nostri tempi, c’è spesso ben poca spiritualità”.

Siamo al primo esempio carnale, in fondo nemmeno il più dirimente, e l’ateo erudito già va in confusione: “Io sono convinto che sia così, ma ancora una volta sono cose che dovrei sostenere io, non lei. Lei è un teologo, ancorché coraggioso e controcorrente”. Se questo è il focolaio acceso nel castrum di Augias, che peraltro si difende versandosi addosso pece bollente – “Mi chiedo se i cattolici come lei siano una spina nel fianco per la chiesa o non la sua foglia di fico” – immaginarsi le fiamme esultanti quando Mancuso infilza i prelati che hanno negato i funerali a Piergiorgio Welby: “Uno scandalo di cui i responsabili renderanno conto a Dio”. O quando, a proposito del caso Eluana Englaro, dice che “una sana teologia” non può non estendere la libertà “anche alla deliberazione degli uomini sulla propria vita mediante il principio di autodeterminazione”. O quando il cattolicesimo di Mancuso si denuda come “ricerca di una spiritualità universale, in grado di far sì che tutti gli uomini, a prescindere dalle appartenenze religiose, si possano aprire alla realtà del bene e della giustizia quale valore supremo per cui vivere”; qualcosa di paragonabile alla “bodhi di cui parla il buddhismo, il satori dello zen”, una cosa “analoga alla conversione della mente o metanoia di cui parla il cristianesimo (e non a caso nel cristianesimo primitivo il battesimo veniva designato proprio photismòs, illuminazione)”.

Un passetto ancora e si giungerebbe alla Noosfera di Theilard de Chardin (assai caro al teologo) o all’unità trascendente delle religioni teorizzata da Frithjof Schuon, l’allievo di quel cattivo incantatore antimoderno chiamato René Guénon. Per sua sorte Mancuso è un evoluzionista, un uomo modernissimo nella sua fede e nella sua “teologia laica”. Nondimeno la chiesa gerarchica dovrebbe comunque urlare all’eresia. Augias freme per l’incolumità del suo interlocutore (sono entrambi schedati come “pericolosi” nei dossier delle spie vaticane); teme per la sorte di questo suo antagonista così mondano da ripetere, come in un precedente suo libro, “che parlare di un’anima spirituale che prescinda dalla materialità dei corpi dei genitori è pura mitologia”.
Per molto meno in altri tempi si finì al rogo, si dispera vanamente l’ateo erudito: “Poiché attraverso questa nostra disputa ho imparato non solo a stimarla, ma anche a nutrire una viva simpatia per le sue idee, la prego di essere prudente”.

Ma né Gesù né sua madre sfuggono alla spericolatezza di Mancuso, quando lui nega il dogma dell’immacolata concezione e si rifugia nel ventre di una madre/materia impersonale più comprensibile agli occhi di un cristianesimo delle origini che attira molto anche Augias: “Del resto il cristianesimo delle origini, quello più prossimo alle parole del fondatore, era assai più vicino dell’attuale a molte delle cose che ho detto”. Ma che cosa ha detto Augias, a parte qualche scappatella troppo ebraicizzante nell’interpretazione cristica, che Mancuso non abbia accolto, arrotondato, coccolato nell’indulgenza e modellato sul prototipo della promiscuità originaria esibita dal cristianesimo gerosolimitano? Il cristianesimo dei martiniani che, senza rinunciare alla loro Roma Mammona, identificano nel deserto mediorientale il traguardo (escatologico perfino) del proprio magistero, l’alfa e l’omega della chiesa integrale (non si butta niente!) che pretendono, con Agostino, essere nata con Abele. Dunque il mistero Mancuso non è un mistero, povero Augias, è soltanto (e si fa per dire) eccellenza filosofico-scientifica germinata dal seme dei primi predicatori della “religio noua” e reincarnata in gente che chiama Dio il caso più o meno intelligente degli atei e sorride del loro adorato periplo scimmiesco nel quale riconosce l’astuzia della ragion divina sotto forma proteica.

Certo poi il temperamento varia a seconda delle equazioni personali. Augias conclude la prestazione con un lirismo fuori misura: “Una volta, allo zoo, ho sentito fortissima la tentazione di abbracciare il povero corpo peloso, lubrico, inconsapevole di uno scimmione, e che lui abbracciasse me, annullando in tal gesto di goffa fraternità i milioni di anni che ci separano”.
Mancuso preferisce l’ultima stazione evolutiva, l’umanità celestiale delle sonate di Bach e quella terrestre sulla quale proiettarne democraticamente l’armonia. La sua teodicea materica ha un fascino settario. Il suo apparente relativismo metafisico, molti secoli fa, sarebbe forse andato incontro alla virile richiesta del nostro Quinto Aurelio Simmaco, il senatore gentile che nell’anno 384 dell’èra volgare patrocinò invano, davanti all’imperatore Valentiniano II, la causa per il ripristino dell’Ara Victoriae nella Curia Iulia del Foro romano.

Diceva Simmaco: “Guardiamo le medesime stelle, comune è il cielo, un medesimo universo ci racchiude: che importa con quale dottrina ciascuno ricerca la verità? Non si può giungere fino a così sublime segreto per mezzo di una sola via”. Mirabile esercizio di paganesimo (dissimulatorio?) non relativista frustrato dal Camillo Ruini dell’epoca, il vescovo Ambrogio che aveva sequestrato l’anima della corte imperiale stanziata a Milano. I senatori galilei, nella circostanza, non si erano opposti all’ambasceria di Simmaco. Forse, perché non insistere, Mancuso avrebbe fatto sua quella loro insolita liberalità. Avrebbe perduto anche lui, però, come ha già perduto (ma lo sa benissimo) la contesa domestica con il riverbero terreno del primo fra i dieci comandamenti da cui tutto discende – “Non avrai altro Dio…” – e con le varie canonizzazioni succedutesi dal Concilio di Nicea a quello di Trento. Il Vaticano II al confronto è un collare appena allentato e comunque, oggi, non se la passa granché bene. Paradossale? Nient’affatto.

Il cattolicesimo comprende in sé come un congegno originario di autodistruzione che deve tenere sempre sotto controllo, forte di un’allucinazione condivisa coi paleocristiani – l’ineluttabilità trionfale dell’avvento cristico – ma pure consapevole che il ritorno alle origini desertiche della sua dottrina coinciderà con l’azzeramento della dottrina medesima e con lo sbandamento delle pecorelle al seguito. Se Mancuso non fosse uno dei volti di questo congegno, non oserebbe tanto: “Inizio dichiarando che nella dogmatica cattolica c’è qualcosa che non va, e che la causa è data dall’impossibilità logica di tenere insieme tre assunti, per essa irrinunciabili: 1) il male c’è; 2) Dio non lo vuole; 3) Dio governa”. Deduzione sillogistica: “Se la natura è governata, è governata sempre. Non si può fare il gioco delle tre carte sulla pelle delle persone. La ‘ripulitura filosofica del cristianesimo’ auspicata da Simone Weil deve iniziare da qui”. Per finire dove? Nel nulla, a meno di accontentarsi della generica idea di bene “che fa apparire la realtà scandalosa del male” cui s’appella Mancuso. Come stornare allora lo sguardo da quel fine interno, da quella entelechia cumulativa, come direbbe l’ellenizzante Mancuso, esibita sottotraccia da una religione fondata, sì, sulla rivelazione scritta unidimensionale, ma costretta a rimasticarsela di giorno in giorno pur di non perdersi il mondo circostante? Che non si lasci nulla al diavolo!

Ecco perché, a leggere con occhio olimpico la “Disputa su Dio e dintorni” tra Augias e Mancuso, se ne ricava pure la sensazione che tanto i due contendenti fraterni quanto l’oggetto della loro fraterna contesa altro non siano che variopinti coleotteri appena coscienti di sbattere le rispettive ali sulle pareti interne dello stesso barattolo di vetro trasparente, ermeticamente chiuso, tremendamente fragile. Come ogni ciclo che va chiudendosi.



Alessandro GIULI

martedì 28 aprile 2009

Il distretto tedesco della FSSPX invita il vescovo Zollitsch a ritrattare

Ringraziamo Rosanna che ci manda questo aggiornamento dalla Germania:

Nel sito del distretto tedesco della Fraternità sacerdotale S. Pio X (link) si legge il seguente comunicato.

A seguito delle eretiche dichiarazioni del vescovo Zollitsch rilasciate alla trasmissione Horizonte l`11.4.09 [segue estratto dell`intervista più la spiegazione del perchè si tratti di un`eresia], Padre Franz Schmidberger, superiore distrettuale della fraternità in Germania, richiede al vescovo in questione un`immediata ritrattazione delle sue dichiarazioni, in quanto tali eresie, pronunciate da un vescovo, danneggiano il magistero della chiesa cattolica.
Schmidberger si augura che questa ritrattazione, con la corretta proposizione sostitutiva, avvenga nei prossimi giorni.

Mons. Mons. Fellay fa il punto e lancia una crociata di rosari per il Papa


+Ave Maria

Cari Amici e Benefattori,

Al momento di lanciare una nuova crociata del Rosario, durante il nostro pellegrinaggio a Lourdes lo scorso ottobre, non pensavamo in una risposta così veloce dal cielo alla nostra richiesta! [..] Dopo il Motu Proprio sulla Messa, [..] è nella visita a Roma nel mese di gennaio, dove abbiamo donato un bouquet di 1.703.000 rosari al Papa, che ho ricevuto dalle mani del Cardinale Castrillón Hoyos il decreto sulla rimessione delle “scomuniche”.
[..]
In effetti, è impossibile capire la nostra posizione e il nostro atteggiamento nei confronti della Santa Sede, se non riconosciamo la percezione della crisi in cui versa la Chiesa. Qui non si tratta di situazioni superficiali, o di visioni personali. Si tratta di una realtà che va al di là della nostra percezione, riconosciuta dalle stesse autorità di tanto in tanto, e verificata nei fatti oramai troppe volte. Questa crisi ha molti aspetti, diversi, a volte profondi, a volte circostanziali, e di questo noi tutti soffriamo. I fedeli sono soprattutto sconvolti da certe cerimonie della nuova liturgia - purtroppo spesso scandalose! – dalla normale predicazione, dove vengono proposte posizioni, in particolare sulla morale, in totale contraddizione con l'insegnamento della Chiesa plurisecolare o l'esempio dei santi. I genitori hanno spesso dovuto constatare con immenso dolore la perdita della fede nei loro figli affidati ad istituti di educazione cattolica, o deplorare la loro quasi totale ignoranza della dottrina cattolica dovuta a mancanza di catechesi. Nei religiosi, in numero incalcolabile, a seguito delle revisioni nelle loro costituzioni, e dopo la riqualificazione conciliare, si manifesta la perdita di spirito evangelico, in particolare quello della rinuncia, della povertà, del sacrificio che si è tradotto in una quasi immediata diminuzione delle vocazioni, tanto che molti ordini e congregazioni chiudono i loro conventi, uno dopo l'altro, quando addirittura non scompaiono del tutto. La situazione di molte diocesi è altrettanto drammatica.
[..]

Ma prendiamo i testi dei Padri della Chiesa, il magistero, la liturgia, la teologia attraverso tutti i secoli: troviamo una unità alla quale noi intendiamo aderire con tutto il nostro cuore. Ma questa unità dottrinale è fortemente contraddetta, ferita, diminuita in pratica, dalle attuali linee di condotta. Non siamo noi ad inventare una rottura, purtroppo esiste, basta vedere come alcuni Episcopati ci trattano, anche dopo la rimozione delle scomuniche, per vedere come profondo è il rifiuto di questi moderni nei confronti di tutto quanto sa di Tradizione, al punto che risulta impossibile non dare a questo rifiuto altra definizione se non quella di rottura con il passato.

Sì, noi tutti siamo stati tanto sorpresi dalla pubblicazione del decreto del 21 gennaio, quanto lo siamo stati per la violenza della reazione dei progressisti e della sinistra, in generale, nei nostri confronti. E' vero che hanno trovato un'occasione d'oro nelle malaugurate parole del Vescovo Williamson, che hanno permesso loro di attribuirle a tutta la Fraternità maltrattandola e considerandola il capro espiatorio. In realtà, siamo stati strumentalizzati in una lotta molto più importante: quella della Chiesa, che porta bene il suo titolo di Chiesa militante contro gli spiriti maligni che vagano in aria, come dice San. Paolo.

Sì, non esitiamo ad inserire la nostra piccola storia nella grande storia della Chiesa, in questa lotta titanica per la salvezza delle anime, come è già annunciato nella Genesi, e descritta in modo sorprendente nel l'Apocalisse di San Giovanni. Spesso questa lotta spirituale, rimane a livello spirituale; di tanto in tanto dal livello delle menti e delle anime scende a livello del corpo e diventa visibile, come nelle aperte persecuzioni.

Dobbiamo riconoscere, vedendo quanto è accaduto negli ultimi mesi, un aumento di intensità in questa lotta. Ed è chiaro che l'unico a cui in ultima analisi è mirata, è il Vicario di Cristo, nel suo sforzo di avviare una qualche restaurazione della Chiesa. Si teme un riavvicinamento tra il capo della Chiesa e il nostro movimento, la paura della perdita dei risultati del Concilio Vaticano II, e viene fatto ogni sforzo per neutralizzarlo. Ma che cosa pensa veramente il papa?

Qual è la sua posizione? Progressisti ed ebrei gli intimano di scegliere tra il Concilio Vaticano II e noi ... al punto che per rassicurarli la Segretaria di Stato non ha trovato di meglio che porre come condizione necessaria per la nostra esistenza canonica la piena accettazione di ciò che noi vediamo come la principale fonte di problemi attuali e alla quale ci siamo sempre opposti ... Tuttavia, loro come noi sono vincolati dal giuramento anti-modernista e da tutte le altre condanne della Chiesa. E’ per questa ragione che non possiamo accostarci al Concilio Vaticano II se non alla luce di queste dichiarazioni solenni (professione di fede e giuramento antimodernista) fatte davanti a Dio e alla Chiesa. E se questo sembra incompatibile, vuol dire che sono le novità ad essere sbagliate. Facciamo affidamento sulle discussioni dottrinali annunciate al fine di chiarire il più profondamente possibile questi punti.

Approfittando della nuova situazione dopo il decreto sulle scomuniche, che non ha cambiato nulla nello statuto canonico della Fraternità, molti vescovi tentano di imporci la quadratura del cerchio esigendo da noi l'obbedienza alla lettera del diritto canonico, in ogni punto, come se noi fossimo perfettamente in ordine, allorché al tempo stesso ci dichiarano canonicamente inesistenti! Già un Vescovo tedesco ha annunciato che prima della fine dell'anno, la Fraternità sarà ancora una volta al di fuori della Chiesa... Bella prospettiva! L'unica soluzione praticabile, quella d’altronde che noi abbiamo sempre chiesto è di una situazione intermedia, necessariamente incompleta e imperfetta dal punto di vista canonico, ma che venga accettata in quanto tale, senza rinfacciarci sempre l’accusa di disobbedienza o ribellione, senza continuare a lanciare nei nostri confronti divieti insostenibili. Perché, in ultima analisi, la situazione anomala in cui si trova la Chiesa e che noi chiamiamo stato di necessità, è dimostrata una volta di più con l'atteggiamento e le parole di alcuni vescovi nei confronti del Papa e della Tradizione.

Come andrà a finire? Non lo sappiamo. Noi manteniamo la nostra proposta e cioè che venga accettata la nostra attuale situazione imperfetta come provvisoria, affrontando le discussioni dottrinali finalmente annunciate, con la speranza che si raggiungano buoni frutti.

Ma in questo percorso così difficile, di fronte a così violente opposizioni, chiediamo a voi, cari fedeli, ancora una volta, di ricorrere alla preghiera. Ci sembra che sia giunto il momento di lanciare una vasta offensiva, profondamente radicata nel messaggio della Madonna a Fatima, che ha promesso una felice soluzione, come ha annunciato che alla fine il suo Cuore Immacolato trionferà. E’ questo trionfo che Le chiediamo, nel modo che Ella stessa ha chiesto, e cioè la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato fatta dal Sommo Pontefice e da tutti i Vescovi dell’orbe cattolico, con la diffusione della devozione al Suo Cuore Immacolato e addolorato. Ecco perché vogliamo offrire al Papa, a tal fine, entro il 25 marzo 2010, ancora un bouquet di 12 milioni di rosari, come una corona di stelle attorno alla Sua persona, accompagnata da una altrettanto notevole quantità di sacrifici e fioretti quotidiani che avremo cura di attingere ogni giorno nel fedele compimento del nostro dovere di stato, e con la promessa di diffondere la devozione al suo Cuore Immacolato. [..] E' chiaro che non intendiamo forzare la Divina Provvidenza, ma abbiamo imparato dagli esempi dei santi e dalla Sacra Scrittura, che i grandi desideri possono affrettare in modo impressionante i disegni di Dio.

Ed è con questa audacia che oggi noi poniamo davanti al Cuore Immacolato di Maria questa intenzione domandando altresì di prendere tutti voi sotto la sua materna protezione.

Dio vi ricolmi di benedizioni!

Nella festa della gloriosa Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo
Winona, Pasqua 2009.

+ Bernard Fellay


Un 'luogo di culto' per 'unità pastorali'

La strisciante apostasia dell'Europa che perde le sue radici passa anche per la neolingua che serpeggia all'interno della Chiesa: non più parrocchie, ma unità pastorali, ossia raggruppamenti senz'anima di ex parrocchie, "presiedute" sì da un sacerdote, ma di fatto appaltate a équipes di animatori laici, lettoridellaparola-ministrimoltordinaridelleucarestia-chitarristi-intonatori-di-salmi-responsorialiecc., i quali naturalmente hanno in odio ogni tradizione, ossia tutto quel che la Chiesa ha fatto prima del loro arrivo, semplicemente perché imporrebbe di ridimensionare la loro conquista del Tempio. A queste 'unità pastorali', come quella che a Foligno raggruppa un numero imprecisato di ex parrocchie (e non dite che è inevitabile per la crisi delle vocazioni: i preti possono benissimo assumere la cura di più parrocchie, senza questo merging & acquisition che le annulla tutte), ben si addice il cubo di Fuksas come 'luogo di culto' (ché, anche qui, chiesa è termine troppo tradizionale, e tra l'altro poco ecumenico; invece luogo di culto va bene anche per quelle 'cappelle interconfessionali' degli aeroporti, specie di salette d'attesa con qualche banco e miasmi di patchouli).
Con pompa magna, presente i vescovo del luogo e l'Arcivescovo di Firenze Betori, è stato inaugurato il nuovo tempio folignate. Del quale il minimo che si possa dire è che è controverso.
Ora, chi vi scrive è un sincero appassionato di architettura moderna e, in linea di principio, nulla ha contro l'uso di un linguaggio espressivo contemporaneo anche per i luoghi di culto: un piccolo gioiello è ad esempio la cappella di Giò Ponti per il Convento delle Carmelitane a Sanremo, le cui alte vetrate smaterializzano la struttura (quasi come nel gotico maturo della Sainte Chapelle di Parigi) e dove le pareti ed il soffitto in pendenza convergono verso la croce dell'altare. Eccola nella foto a destra.
Anche la nuova chiesa di Meier a Tor Tre Teste (a sinistra) è esteticamente notevole, all'esterno. Ma già in quel caso si vede come sia venuto meno uno degli assiomi proprio dell'architettura moderna (il cosiddetto stile internazionale o - che brutta parola! - modernismo), ossia la regola form follows function. Sì, perché la chiesa di Meier è bellissima ma... vuota di contenuto, di anima, di fede. Le sue nude pareti, il minimalismo spinto, disorientano il fedele, trasmettono una malcelata iconoclastia e, in fin dei conti, negano con la loro estenuata cerebralità il dogma dell'Incarnazione, che da sempre giustifica e incoraggia, contro gli antichi divieti semitici (ebraici e maomettani), la rappresentazione percepibile dai sensi dei misteri della Fede.
Il cubo di Fuksas è un passo ulteriore, e non nella giusta direzione. Non ci soffermeremo sull'impatto scenografico osceno (non ci viene altro termine) in rapporto al paesaggio naturale e urbano circostante: uno sconcio capannone industriale di nudo calcestruzzo del genere deturperebbe perfino un suburbio già degradato; figuriamoci il paesaggio umbro. Indugeremo invece sull'aspetto interno e, visto che l'interesse di questo blog è per la liturgia, chiediamoci se un ambiente consimile possa aiutare (o tarpare) l'espressione pubblica delle fede.
Varchiamo dunque virtualmente la porta dell'insolito delubro, con quella salita di accesso lungo tutto uno dei lati del cubo che rende l'insieme tanto somigliante ad un alveare, con la facciata di inquietante inespressività come un Moloch dormiente: il che già trasmette l'idea di una massificazione, di un annullamento dell'individuo nel sistema; qualcosa che ricorda anche gli stranianti falansteri dove i socialisti utopici dell'Ottocento avrebbero voluto radunare le famiglie operaie, così presagendo il futuro di molti tristissimi palazzoni-dormitorio del secolo seguente...
All'interno lo spazio appare definito dagli angoli retti formati dalle spesse pareti di cemento a vista: le vetrate, di forma irregolare, sono in alto, così accrescendo l'oppressione degli alti muri di cemento che vi recingono: la luce viene infatti, principalmente, dall'alto. La forma squadrata è replicata da una struttura, sempre di duro cemento che, nell'intenzione dell'Architetto, dovrebbe definire delle sorte di navate, ma che di fatto sembra una specie di gigantesca cappa aspirante proprio sopra l'altare.
Orbene: a rischio di scioccare qualcuno, diremo che l'interno ci piace. Ci ricorda molto un capolavoro assoluto, a nostro giudizio, ossia il Museo ebraico di Berlino, di Libeskind: là le alte pareti senza finestre, gli angoli spigolosi, la luce cadente da feritoie dall'alto, rendono in modo estremamente efficace ed emoziante il senso di angoscia, di straniamento, di dolore del popolo ebraico nelle grandi prove del XX secolo (foto a destra).
Il punto, però, è appunto questo: angoscia, straniamento e dolore, che in un memoriale sull'Olocausto sono assai a proposito, sono impressioni adatte anche ad una chiesa cattolica? La domanda è evidentemente retorica. In un articolo di Langone (leggibile su Fides et forma) egli riferisce della "rivista di architettura in cui il cubo di Foligno ancora in gestazione veniva definito, per elogiarlo, «criptico, chiuso, astratto»". E prosegue, ben a proposito "«Criptico, chiuso, astratto» non sono aggettivi compatibili con un edificio del culto cattolico, per sua natura aperto, cordiale, rivolto a tutti. Sono invece perfetti per descrivere una loggia massonica, un carcere di massima sicurezza, un impianto per la cremazione dei cadaveri".
La macabra croce che 'adorna' la chiesa di Fuksas

Stefano Chiappalone ci ha molto cortesemente inviato le sue osservazioni sul cubo di Foligno, anzi sulla "chiesa di san Fuksas", come la definisce. Raccomandiamo di leggere l'intero articolo a questo link; qui ne riportiamo un estratto:

Lo studioso austriaco Hans Sedlmayr (1896-1984) identifica alcune tendenze di fondo, ciò che le principali correnti dell’arte moderna hanno messo al posto di Dio: dapprima l’arte comincia a idolatrare sé stessa, passando dal culto dell’arte al culto dell’artista (estetismo), poi la scienza, la tecnica e tutto ciò che sembra il progresso ineluttabile (tecnicismo, culto della geometria), infine a questo eccesso di razionalismo si risponde con l’eccesso opposto, cercando il caos, l’assurdo, la follia deliberata (surrealismo): anche nell’arte necessariamente si riflettono la scissione tra fede e ragione e la conseguente radicalizzazione ora in un senso ora nell’altro, che caratterizzano l’uomo moderno. Su queste basi, l’architettura non può diventare automaticamente cattolica per il solo fatto di progettare chiese, anzi un edificio brutto – nel senso di "non vero", non adeguato alle realtà celesti che dovrebbe simboleggiare – risulterebbe edificante tanto quanto una predica domenicale affidata a Dan Brown...

Così negli anni 1950 Charles-Edouard Jeanneret-Gris, detto Le Corbusier (1887-1965) – secondo il quale, "la macchina, fenomeno moderno, provoca nel mondo una riforma dello spirito" – progettò il convento di Santa Maria de La Tourette secondo criteri assolutamente geometrici. Egli era del resto l’esponente principale di una tendenza a progettare qualsiasi edificio sul modello della macchina, al punto da definire una casa "macchina per abitare". Coerentemente a La Tourette costruì una "macchina per pregare", che parla il muto linguaggio degli automi più che la celeste lingua degli angeli. Il resto è storia recente, basta guardarsi intorno e si potranno ravvisare in misura maggiore o minore nelle nuove chiese, le idolatrie individuate da Sedlmayr.

Inoltre, si registra nella struttura materiale delle chiese un progressivo venir meno della tensione verso l’alto che caratterizzava anche visivamente le cattedrali del passato, nonché la scomparsa di tutte quelle forme inscindibilmente legate all’uomo: tanto il fedele che esse ospitano, quanto l’Uomo-Dio che vi abita con tutta la schiera dei santi – anch’essi uomini e anch’essi misteriosamente spariti dalle pareti sempre più iconoclaste. Relegando Dio nel cielo e dimenticando che Cristo si è incarnato, si finisce infatti per dimenticare l’uomo stesso – anche come semplice interlocutore che non riesce a intendere il linguaggio razionalista di chiese puramente geometriche, né quello astratto degli scarni e soggettivi simboli incapaci di esporre al semplice fedele le verità della fede cristiana. A tale proposito mons. Nicola Bux osserva: "Che dire di un certo spiritualismo oggi in voga che mortifica i sensi, che biasima l’apostolo Tommaso che voleva credere vedendo? Gesù per questo si è fatto vedere – come agli altri apostoli (altrimenti perché il Verbo si sarebbe fatto uomo?)." Alle malattie dell’arte moderna si sommano infatti quelle della teologia "alla moda": si concepisce allora la chiesa come un semplice luogo di riunione di un gruppo che in fondo, dimenticando di elevarsi verso Dio, si limita ad una sterile autocelebrazione; con ciò però è l’uomo stesso a subire una limitazione, poiché riducendo tutto al solo aspetto funzionale, viene amputato dell’elemento simbolico che permette alla ragione di lasciarsi fecondare dal Mistero, di passare in ultima analisi dalle cose che sono – e che vediamo e tocchiamo – all’Essere stesso che ha un volto e un nome.

lunedì 27 aprile 2009

Nuova intervista al card. Castrillòn Hoyos



Il card. Castrillòn Hoyos ha rilasciato il 25 scorso una nuova intervista ad una rivista colombiana, Semana. L’intervistatore non pone le domande che interesserebbero a noi: sul lavoro della Commissione Ecclesia Dei, sulle sue prospettive, sul famigerato e mai emanato decreto di interpretazione del motu proprio, e così via. Ecco comunque alcune delle affermazioni del cardinale, quelle di qualche interesse:


- Semana: Lei, che è la persona in Vaticano che più li conosce, non sapeva della posizione di Williamson?
No, non la sapeva. L’ho saputa solo dalla stampa il 5 febbraio [così tardi?], quando era già stato firmato il decreto per revocare la scomunica. Né il Santo Padre, che prima di essere eletto era membro della mia Commissione e conosceva perfettamente quanto stavamo facendo, né gli altri membri la conoscevamo. Il problema sono le interpretazioni date e l’impressione che togliere la scomunica fosse un atto antisemita, il che non ha nulla a che vedere.

- Semana: Però è stato quello che ha causato la polemica mondiale.
Essi furono scomunicati esclusivamente per essere stati ordinati senza permesso. Dopo tutte le consultazioni tecniche, teologiche e giuridiche, si arrivò a quello che il Santo Padre, che noi crediamo avere la luce dello Spirito Santo, chiedeva. Tuttavia non è stata regolarizzata completamente la situazione dei vescovi lefebvriani: non sono più scomunicati, ma non sono regolarizzati.

-Semana: Per fortuna per Lei, Williamson ha ritrattato.
Ha ritrattato, ma non è sufficiente. Non si tratta di chieder perdono alle persone, né alla sua comunità né alla Chiesa, ma cambiare affermazioni che non sono accettabili né per i fatti né per una verità irrefutabile né per la Chiesa. Si è discolpato in modo insufficiente.

-Semana: Alcuni dicono che Lei è stato usato come un fusibile per mitigare il problema.
Questo non è certo. Non ho niente a che vedere con un problema di un signore che nega un fatto storico. I dialoghi coi lefebvriani non sono cominciati. Gesù Cristo ci disse di essere uniti. Con il papa Giovanni Paolo II e ora con Benedetto, abbiamo cercato di raggiungere questa unione, di mirare a tessere la tunica della Chiesa unita con quelli che si separarono in ragione dei cambiamenti liturgici e le interpretazioni. Io resto pieno di entusiasmo aspettando questi dialoghi.

-Semana: Sono state intaccate le sue relazioni col Papa?
Non furono mai intaccate, mai avuto problemi col Santo Padre. Le difficoltà furono chiarite subito.

-Semana: Proseguirà nel Suo incarico?
Quando compiamo 80 anni ci ritiriamo, non abbiamo che dimetterci. Noi non ci sentiamo obbligati a restare.


L'opposizione romana al Papa secondo l'abbé Barthe. Settima parte.

Opinioni diverse sulla Fraternità San Pio X
C’è da aggiungere che il Cardinale Levada non ha nascosto le sue perplessità nell’ambito delle riunioni di cardinali in cui si è parlato di liberalizzazione della messa tridentina e di reintegrazione della Fraternità San Pio X. Ha anche espresso la sua opposizione a un'eventuale reintegrazione dei vescovi di questa fraternità, suggerendo, contro il precedente della soluzione trovata per il vescovo tradizionalista di Campos (il quale è stato "ufficializzato", nonostante il fatto che si trattasse di un " Lefebvre di seconda generazione", in quanto consacrato dai vescovi della comunità di Mons. Lefebvre), e soprattutto contro ogni buon senso, di reintegrare questi vescovi nello stato in cui si trovavano al momento della loro "uscita dalla Chiesa"- e cioè nello stato di sacerdoti - come se si trattasse di preti cattolici consacrati vescovi all’interno di sette. Si è a lungo ritenuto che il Cardinale Levada sarebbe stato allontanato da Roma e promosso alla sede di New York. Ma il suo stato di salute sta peggiorando di giorno in giorno ed è piuttosto di dimissioni che si dovrebbe semplicemente parlare. Per quanto riguarda il Cardinale Ivan Dias, ormai malato e in uno stato di grande debolezza, è stato nominato a capo della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, in sostituzione del Cardinale Crescenzio Sepe, nel 2006. Faceva parte, quando era Arcivescovo di Bombay, anche della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un tempo vicino al cardinale Silvestrini, è stato osservato come il suo atteggiamento, nei confronti dei più singolari avvenimenti del dialogo interreligioso, abbia assunto aspetti di grande tolleranza. Inoltre, come il Cardinale Levada, è ben lungi dall'essere sulla stessa lunghezza d'onda di Benedetto XVI riguardo le questioni liturgiche ed è stato altresì osservato come a Bombay abbia espresso profonda ostilità nei confronti di tutti i tradizionalismi, ufficiali o meno. Ma la nomina che ha sorpreso più di tutti i sostenitori di Benedetto XVI è stata quella, ancora una volta sostenuta con forza dal Cardinale Re, di Mons. Gianfranco Ravasi, esegeta italiano di alto livello, divenuto presidente del Consiglio per la Cultura - il Ministro della Cultura del Papa, come si suol dire - in sostituzione del Cardinale Poupard. Mons. Ravasi espresse la sua delusione quando il cardinale Castrillòn celebrò una Messa col rito tridentino in S. Maria Maggiore, il 24 maggio 2003, in un commento pubblicato da Avvenire (il giornale che esprime la posizione dominante dei Vescovi italiani), il 12 giugno 2003. La molto "progressista" National Catholic Reporter del 2 maggio 2008 lo definisce perfino come uno dei migliori papabili di impostazione liberale in un futuro conclave. Ma per quello, deve prima diventare cardinale. Quali sono stati i rapporti tra questo biblista milanese e il Cardinale Ratzinger?
Si è certamente fatto apprezzare da lui, che ne aveva fatto un membro della Commissione Teologica Internazionale, e della Pontificia Commissione Biblica sin dal 1995. Era stato tuttavia "stoppato" da lui nella nomina a vescovo di Assisi e alla Prelatura di Loreto. Per quanto si sia dimostrato intelligente nei suoi studi sul funzionamento della poesia biblica e nelle sue opere divulgative di alto livello, che corrispondevano in pieno al modo di funzionamento intellettuale di Joseph Ratzinger, le sue "differenze" con lui in termini di esegesi risultavano difficili da contestare. Ben nota è la critica di Joseph Ratzinger ai presupposti filosofici di Bultmann e Dibelius, i quali arrivarono alla conclusione che è praticamente impossibile conoscere il “Gesù della storia“ attraverso i Vangeli, che non testimonierebbero, secondo loro, se non il "Gesù della fede".
Una deformazione voluta?
Ora, sotto molti aspetti, Gianfranco Ravasi sembra non essere del tutto uscito dall'influenza della vecchia Form-geschichte, studio delle forme letterarie, come proposte da Bultmann. Di qui una divergenza tra Mons. Ravasi e il Papa su questo punto fondamentale – possiamo noi conoscere il “Gesù storico”? - apparsa in modo pubblico e del tutto singolare con la pubblicazione di una nuova edizione - illustrata - del Gesù di Nazaret, nel mese di ottobre 2008, pubblicata da Rizzoli.
Joseph Ratzinger nella prefazione al Gesù di Nazaret aveva scritto per gli eredi di Bultmann: "Ho voluto tentare di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio." Ma nell'introduzione alla nuova edizione Gianfranco Ravasi cita così il Papa: " Ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale". Punto. E Mons. Ravasi commenta questa citazione tronca – troncata in ciò che gli dà la sua forza - in modo sconcertante, "Notiamo l’aggettivo 'reale': non è automaticamente sinonimo di 'storico', perché noi sappiamo che molti eventi non sono registrati, suscettibili d'essere documentati e verificabili storicamente, anche se risultano profondamente reali. In Gesù coesistono varie dimensioni, storiche, mistiche e trascendenti". Seguono considerazioni destinate a dimostrare un Gesù reale nella sua complessità storica e teologica.
Si può immaginare l'emozione a Roma e in Italia. "Per il Papa 'reale' è sinonimo di 'storico', per il suo Ministro della Cultura, no!" ironizzava Massimo Pandolfi ne La Nazione (21 ottobre 2008). Certo, le parole di Mons. Gianfranco Ravasi potrebbero intendersi, di per sé, in modo quasi ortodosso – un’ortodossia un po’ imbarazzata di esserlo - ma resta evidente come Ravasi abbia, come minimo, “garzato” il pensiero dell'Autore (garzato, coperto con un velo di garza: gergo abituale in materia di correzione dei discorsi papali).
segue
Collegamenti alle precedenti parti dello studio dell'abbé Barthe:

domenica 26 aprile 2009

Gli ispiratori di mons. Zollitsch

In riferimento alle strabilianti recenti affermazioni di mons. Zollitsch, presidente della conferenza episcopale germanica, il quale nega la natura sacrificale della morte in croce di Cristo, riducendola ad un modo per 'esprimere solidarietà' con l'uomo sofferente (aspetto che la concezione non diciamo tradizionale, ma semplicemente ortodossa - e ribadita chiaramente dal Concilio Vaticano II e dal Catechismo della Chiesa Cattolica - non nega, ma riassorbe nella più alta idea di un Dio che offre se stesso per "togliere i peccati del mondo"), Cathcon risale all'origine dottrinale di questo grave errore teologico. E' il solito Rahner:


Alcuni autori recenti negano che il sacrificio sia un concetto centrale nella Bibbia. Karl Rahner esprime dubbi circa il fatto che Gesù abbia interpretato la sua propria morte come un sacrificio espiatorio. Rahner trova che l'idea del sacrificio in alcuni tardi testi neotestamentari fu iperinfluenzata, secondo lui, da nozioni primitive che erano state successivamente superate. Reinterpretando l'evento per la coscienza moderna, Rahner espunge il concetto di sacrifio espiatorio e lo sostituisce con il concetto di causalità simbolica o quasi-sacramentale, della quale ho già riferito.

Nessuna sorpresa, allora: Zollitsch è stato il candidato favorito dal suo predecessore alla presidenza della conferenza episcopale, card. Lehmann, che si è dimesso prima del tempo proprio per impedire all'appena nominato Arcivescovo di Monaco di essere eletto per la carica [è risaputo che l'Arcivescovo Marx era il candidato favorito da Papa Benedetto]). Il cardinale Lehmann era assistente ricercatore di Rahner. La principale influenza filosofica di Rahner fu il nazista Heidegger.

Echi di poesia tridentina in Vittorio Sereni - "Viaggio all'alba" (1965)

La minaccia di addurre altri versi di poeti contemporanei attinenti alla messa tradizionale, espressa in calce alla precedente noticina quasimodiana, non era a vuoto, ed eccomi quindi a proporre un’altra breve lettura. La ricavo, come è avvenuto nel caso precedente, da un poeta che non è “religioso” nel senso letterale del termine, né particolarmente vicino alla fede cattolica. Vorrei insomma evitare di proposito di giocare in casa. Si tratta di una poesia di Vittorio Sereni (1913-1983), uno dei più validi autori del nostro Novecento [nella foto]. Risale agli anni Quaranta e si trova nella raccolta Gli strumenti umani, apparsa nel 1965. Premetto al testo solo una breve indicazione che può agevolare la lettura: Voldomino (interpretato nei versi che seguono come una derivazione da “Vultus Domini”) è una località del Comune di Luino, la città natale di Sereni, sul lago Maggiore.

VIAGGIO ALL’ALBA

Quanti anni che mesi che stagioni nel giro di una notte: una notte di passi e di rintocchi. Ma come tarda la luce a ferirmi. Voldomino, volto di Dio. Un volto brullo ho scelto a rispecchiarmi nel risveglio del mondo. Ma dimmi una sola parola e serena sarà l’anima mia.

Da notare per noi specialmente il novenario e l’endecasillabo finali, che riprendono la seconda parte del “Domine non sum dignus”: “…Sed tantum dic verbo, et sanabitur anima mea”. Invocazione che in questa poesia è rivolta a un luogo amato, allo spettacolo dell’alba e,

sabato 25 aprile 2009

Kasper: colloqui con la FSSPX quest'estate

Treviri, 24 aprile 2009 - Colloqui per la riunificazione tra il Vaticano e la tradizionalista Fraternità di S. Pio X, secondo le parole del card. della Curia Walter Kasper, potrebbero cominciare quest'estate. "Non si può sempre rimandare", ha detto il Presidente del Pontificio Concilio per l'Unità dei Cristiani venerdì, 24 aprile, a Treviri. La FSSPX dovrebbe riconoscere le decisioni del Concilio Vaticano II e il Catechismo cattolico. "Non c'è altro modo", ha detto Kasper. Che è, comunque, contrario ad ultimatum.

Il ritiro delle scomuniche dei quattro vescovi della FSSPX alla fine di gennaio ha portato ad un serio risentimento ebreo-cattolico. Uno dei quattro, il britannico Richardo Williamson, nega l'Olocausto. Kasper ha detto che la Fraternità dovrebbe compiere passi verso il Vaticano. L'obbiettivo è, per quanto possibile, riportarli nella Chiesa e non rischiare una divisione permanente. Il cardinale ha accusato la FSSPX di una "rigida visione tradizionale".


Dispaccio Kipa-apic.ch

Scrittura e Tradizione, pilastri della Chiesa

Dal discorso del S. Padre Benedetto XVI ai membri della Pont. Commissione biblica
Roma, 23 aprile 2009
[..] Vi siete nuovamente radunati per approfondire un argomento molto importante: l'ispirazione e la verità della Bibbia. Si tratta di un tema che riguarda non soltanto la teologia, ma la stessa Chiesa, poiché la vita e la missione della Chiesa si fondano necessariamente sulla Parola di Dio, la quale è anima della teologia e, insieme, ispiratrice di tutta l'esistenza cristiana. Il tema che avete affrontato risponde, inoltre, a una preoccupazione che mi sta particolarmente a cuore, poiché l'interpretazione della Sacra Scrittura è di importanza capitale per la fede cristiana e per la vita della Chiesa.
Come Ella ha già ricordato, Signor Presidente, nell'Enciclica Providentissimus Deus Papa Leone XIII offriva agli esegeti cattolici nuovi incoraggiamenti e nuove direttive in tema di ispirazione, verità ed ermeneutica biblica. Più tardi Pio XII nella sua Enciclica Divino afflante Spiritu raccoglieva e completava il precedente insegnamento, esortando gli esegeti cattolici a giungere a soluzioni in pieno accordo con la dottrina della Chiesa, tenendo debitamente conto dei positivi apporti dei nuovi metodi di interpretazione nel frattempo sviluppati. Il vivo impulso dato da questi due Pontefici agli studi biblici, come Lei ha anche detto, ha trovato piena conferma ed è stato ulteriormente sviluppato nel Concilio Vaticano II, cosicché tutta la Chiesa ne ha tratto e ne trae beneficio. In particolare, la Costituzione conciliare Dei Verbum illumina ancora oggi l'opera degli esegeti cattolici e invita i Pastori e i fedeli ad alimentarsi più assiduamente alla mensa della Parola di Dio. Il Concilio ricorda, al riguardo, innanzitutto che Dio è l'Autore della Sacra Scrittura: «Le cose divinamente rivelate che nei libri della Sacra Scrittura sono contenute e presentate, furono consegnate sotto l'ispirazione dello Spirito Santo. La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (Dei Verbum, 11). Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, invisibile e trascendente Autore, si deve dichiarare, per conseguenza, che «i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» (ibid., 11).
Dalla corretta impostazione del concetto di divina ispirazione e verità della Sacra Scrittura derivano alcune norme che riguardano direttamente la sua interpretazione. La stessa Costituzione Dei Verbum, dopo aver affermato che Dio è l'autore della Bibbia, ci ricorda che nella Sacra Scrittura Dio parla all'uomo alla maniera umana. E questa sinergia divino-umana è molto importante: Dio parla realmente per gli uomini in modo umano. Per una retta interpretazione della Sacra Scrittura bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare tramite parole umane. «Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile agli uomini» (Dei Verbum, 13). Queste indicazioni, molto necessarie per una corretta interpretazione di carattere storico-letterario come prima dimensione di ogni esegesi, richiedono poi un collegamento con le premesse della dottrina sull'ispirazione e verità della Sacra Scrittura. Infatti, essendo la Scrittura ispirata, c'è un sommo principio di retta interpretazione senza il quale gli scritti sacri resterebbero lettera morta, solo del passato: la Sacra Scrittura deve «essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12). Al riguardo, il Concilio Vaticano II indica tre criteri sempre validi per una interpretazione della Sacra Scrittura conforme allo Spirito che l'ha ispirata. Anzitutto occorre prestare grande attenzione al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura: solo nella sua unità è Scrittura. Infatti, per quanto siano differenti i libri che la compongono, la Sacra Scrittura è una in forza dell'unità del disegno di Dio, del quale Cristo Gesù è il centro e il cuore (cfr Lc 24,25-27; Lc 24,44-46). In secondo luogo occorre leggere la Scrittura nel contesto della tradizione vivente di tutta la Chiesa. Secondo un detto di Origene, «Sacra Scriptura principalius est in corde Ecclesiae quam in materialibus instrumentis scripta» ossia «la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima che su strumenti materiali». Infatti la Chiesa porta nella sua Tradizione la memoria viva della Parola di Dio ed è lo Spirito Santo che le dona l'interpretazione di essa secondo il senso spirituale (cfr Origene, Homiliae in Leviticum, 5,5). Come terzo criterio è necessario prestare attenzione all'analogia della fede, ossia alla coesione delle singole verità di fede tra di loro e con il piano complessivo della Rivelazione e la pienezza della divina economia in esso racchiusa. Il compito dei ricercatori che studiano con diversi metodi la Sacra Scrittura è quello di contribuire secondo i suddetti principi alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura. Lo studio scientifico dei testi sacri è importante, ma non è da solo sufficiente perché rispetterebbe solo la dimensione umana. Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l'esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all'interno della stessa fede della Chiesa. In mancanza di questo imprescindibile punto di riferimento la ricerca esegetica resterebbe incompleta, perdendo di vista la sua finalità principale, con il pericolo di essere ridotta ad una lettura puramente letteraria, nella quale il vero Autore – Dio – non appare più. Inoltre, l'interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma deve essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa. Questa norma è decisiva per precisare il corretto e reciproco rapporto tra l'esegesi e il Magistero della Chiesa. L'esegeta cattolico non si sente soltanto membro della comunità scientifica, ma anche e soprattutto membro della comunità dei credenti di tutti i tempi. In realtà questi testi non sono stati dati ai singoli ricercatori o alla comunità scientifica «per soddisfare la loro curiosità o per fornire loro degli argomenti di studio e di ricerca» (Divino afflante Spiritu, EB 566). I testi ispirati da Dio sono stati affidati in primo luogo alla comunità dei credenti, alla Chiesa di Cristo, per alimentare la vita di fede e guidare la vita di carità. Il rispetto di questa finalità condiziona la validità e l'efficacia dell'ermeneutica biblica. L'Enciclica Providentissimus Deus ha ricordato questa verità fondamentale e ha osservato che, lungi dall'ostacolare la ricerca biblica, il rispetto di questo dato ne favorisce l'autentico progresso. Direi, un’ermeneutica della fede corrisponde più alla realtà di questo testo che non una ermeneutica razionalista, che non conosce Dio. Essere fedeli alla Chiesa significa, infatti, collocarsi nella corrente della grande Tradizione che, sotto la guida del Magistero, ha riconosciuto gli scritti canonici come parola rivolta da Dio al suo popolo e non ha mai cessato di meditarli e di scoprirne le inesauribili ricchezze. Il Concilio Vaticano II lo ha ribadito con grande chiarezza: «Tutto quello che concerne il modo di interpretare la Scrittura è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la Parola di Dio» (Dei Verbum, 12). Come ci ricorda la summenzionata Costituzione dogmatica esiste una inscindibile unità tra Sacra Scrittura e Tradizione, poiché entrambe provengono da una stessa fonte: «La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Ambedue infatti, scaturendo dalla stessa divina sorgente, formano, in un certo qual modo, una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo; invece la sacra Tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono esser accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza» (Dei Verbum, 9). Come sappiamo, questa parola “pari pietatis affectu ac reverentia” è stata creata da San Basilio, è poi stata recepita nel Decreto di Graziano, da cui è entrata nel Concilio di Trento e poi nel Vaticano II. Essa esprime proprio questa inter-penetrazione tra Scrittura e Tradizione. Soltanto il contesto ecclesiale permette alla Sacra Scrittura di essere compresa come autentica Parola di Dio che si fa guida, norma e regola per la vita della Chiesa e la crescita spirituale dei credenti. Ciò, come ho già detto, non impedisce in nessun modo un’interpretazione seria, scientifica, ma apre inoltre l’accesso alle dimensioni ulteriori del Cristo, inaccessibili ad un’analisi solo letteraria, che rimane incapace di accogliere in sé il senso globale che nel corso dei secoli ha guidato la Tradizione dell'intero Popolo di Dio. [..]
Fonte: Vatican.va (sottol. nostre)

venerdì 24 aprile 2009

Mancuso: che la Forza sia con te. Per una reinterpretazione jedi del 'problema Dio'

Vito Mancuso è docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. Oltre ad articoli su riviste specializzate, ha pubblicato: L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina 2007), con prefazione di Carlo Maria Martini; Per amore. Rifondazione della fede (Mondatori, 2005); Il dolore innocente. L'handicap, la natura e Dio (Mondatori, 2002), con prefazione di Edoardo Boncinelli; Le preghiere più belle del mondo (Mondatori, 1999) insieme all’abate benedettino Valerio Cattana; Dio e l'angelo dell'abisso (Città Nuova, 1997), con prefazione di Mario Luzi; Hegel teologo (Piemme, 1996).
Svolse dal 1986 al 1988 il suo ministero sacerdotale come parroco presso la parrocchia San Cipriano in Via Carlo d'Adda a Milano. Poi Mancuso si è sposato ed ha abbandonato il ministero, ma non l'insegnamento della teologia, presso l'Università di don Verzè. E' diventato un teologo 'alla moda', vezzeggiato dai soliti noti (in primis il card. Martini che, pur con untuose prese di distanza dalle tesi dirompenti del suo ex prete diocesano, ha di fatto, con la sua prefazione, calato tutto il suo peso in vantaggio dell'opera di Mancuso, L'anima e il suo destino, del quale l'Autore stesso scrive: «Il principale obiettivo di questo libro consiste nell'argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dall'alto, sorga un futuro di vita personale dopo la morte»; come ha osservato la Civiltà Cattolica del 2 febbraio 2008, "L’assenza quasi totale di una teologia biblica e della recente letteratura teologica non italiana, oltre all’assunzione più o meno esplicita di numerose premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce l’Autore a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica").
Riportiamo ora un articolo di don Baget Bozzo destinato a questo eteroclito teologo.


TEOLOGISMI ESISTENZIALI DI VITO MANCUSO


di Gianni Baget Bozzo


Vito Mancuso è divenuto il teologo politico di Repubblica ed è un grande acquisto per il giornale fondato da Eugenio Scalfari. Con ciò la critica laicista alle posizioni della Chiesa si arricchisce della contestazione di esse in chiave teologica. Perché Mancuso conosce bene la teologia, l’ha assimilata e sa usarla con una penna efficace sul piano della comunicazione di stampa. La sua strategia di attacco consisterà nel ridurre tutte le questioni a un solo termine, quello della decisione umana come unica soluzione. Qualunque posizione comporti un riferimento di criteri non subordinati alla scelta dell’uomo viene ridotta da Mancuso al principio che nelle cose del mondo conta la forza, e la libertà umana è anch’essa una forza.

USO POLITICO DEL PENSIERO TEOLOGICO

Questa posizione teologica conviene al laicismo di Repubblica, secondo cui la Chiesa non ha diritto a intervenire sul piano del dibattito pubblico, perché i suoi dogmi non sono razionali. Sicché Mancuso offre argomenti a coloro per cui la migliore Chiesa è quella del silenzio. L’obiettivo centrale è papa Ratzinger, cioè proprio colui che fa della differenza ecclesiale il presupposto del suo magistero e del suo ministero e, quindi, è portato a incrociare il laicismo diffuso ogni qualvolta parli. Il compito di Mancuso è dunque molto semplice; gli basta dimostrare che il Papa parla da Papa e suppone pertanto il dogma cattolico. Egli può censurare il fatto che il discorso papale contraddice ciò che è comunemente accettato dai mezzi di comunicazione sociale. Su Il Foglio Mancuso parlava ancora da teologo; oggi usa la sua teologia in chiave di critica politica dei testi papali. Si tratta di dimostrare che il fattore X, cioè l’evento spirituale nella sua densità, non è un fenomeno né un assioma e quindi è condannato alla insignificanza. Mancuso è giunto all’uso politico del pensiero teologico, e questo pone il problema. È possibile uno sviluppo ulteriore del Mancuso teologo dopo che egli ha invalidato l’impianto stesso del discorso teologico proprio della Chiesa? Avendo criticato l’edificio dogmatico, c’è ancora spazio nei pensieri di Mancuso per la teologia?

DARWIN, OVVERO DELLA NON CASUALITÀ

L’efficacia di Mancuso sta nell’aver pensato di costruire una teologia sul principio che vi sia una forza unica nella realtà e che essa si svolga solo su sé stessa. Già spiegare il concetto di evoluzione nel quadro di questo monismo è un problema. Di fatto, coloro che hanno filosofato a partire dall’evoluzione di Darwin, e hanno dedotto una metafisica dalla sua concezione delle origini della specie, hanno fondato la loro teoria sulla contingenza e non sulla causalità; hanno cioè espunto ogni concetto di finalità e quindi quello stesso di evoluzione, tutto riducendo al mero effetto di cause contingenti non aventi in sé alcuna ragione, scopo o fine. È interessante quindi vedere Mancuso in dialogo come un filosofo che interpreta l’implicito del pensiero di Darwin come successione di mere contingenze, senza causalità intenzionale e senza finalità. Cioè, senza ragione. Il darwinismo non è la sua metafisica, ma la può produrre se esso viene pensato in modo metafisico: gli rimane l’unico spazio della pura contingenza come pura casualità. Micromega ha dedicato un numero al centenario della nascita di Darwin. In questo numero ha ospitato un dialogo tra un filosofo della scienza, Telmo Pievani, e Vito Mancuso. Il dibattito comincia con l’assunzione di Darwin a maestro della teologia, perché Mancuso dichiara: «Se non ci fosse stato Darwin io probabilmente adesso sarei ateo, non credente». È evidente che Darwin viene qui assunto come un’interpretazione che trascende i suoi testi e quindi collegato a una visione generale della vita. Pievani è incerto nel seguirlo su questa strada, perché ritiene che rendere coeso il pensiero di Darwin all’idea di contingenza storica, significa diminuirne il contenuto scientifico. Tende, cioè, a distinguere Darwin dalle sue interpretazioni metafisiche, sia da quelle di Mancuso sia dalle proprie, sebbene riconosca che l’opera di Darwin ha un significato anche filosofico e culturale. Ma è proprio su questo tema filosofico che si svolge il dialogo, perché Pievani mantiene fermamente l’idea che la mera contingenza, la non causalità e la non finalità, sono l’unica strada per fare della rivoluzione darwiniana, come egli la chiama, appunto una «rivoluzione». Il dibattito si svolge dunque tra due filosofie opposte: quella di Mancuso tende a fondare il concetto di causalità e di finalità di evoluzione dal semplice al complesso; Pievani, invece, rimane fedele alla pura contingenza come implicito metafisico dell’opera dello scienziato. Per questo Pievani è particolarmente interessato a respingere la teoria di Herbert Spencer del pensiero di Darwin come una grande filosofia del progresso universale. Pievani è convinto che dall’assenza totale di una direzione del processo cosmico sia possibile fondare un’etica umana ben argomentata radicata nella libertà e nella responsabilità. In realtà, questa etica della libertà e della responsabilità è proprio quella in base a cui Mancuso critica le posizioni cattoliche. Conseguentemente, Pievani nega il concetto di natura che «non può essere un serbatoio dal quale attingere i princìpi in grado di orientare direttamente la vita morale».

UN DIO/ENERGIA SOLIDALE AL COSMO

Mancuso serba un concetto classico di natura, tolto dalla metafisica tradizionale, Pievani coerentemente lo nega. Mancuso introduce concetti metafisici che negano il suo materialismo, per cui lo spirito «non è qualche cosa che si oppone alla materia, ma il frutto del lavoro stesso della materia». Di qui il dibattito si sposta nella ricerca di Mancuso di trovare nel divenire della specie tracce di dualità, di differenze, di relazioni. La differenza umana dalle altre forme di vita sta nella capacità di compiere atrocità ed eroismi. Questa è la prova della discontinuità dell’essere umano rispetto alla sfera naturale della vita. Ma come trovare in questo una differenza tra le grandi stragi che l’evoluzione della specie comporta?
Il problema interessante del dibattito sta, però, nella concezione di Dio. Mancuso usa il concetto che egli ha introdotto nell’universo darwiniano, quello di natura «se Dio esiste anche lui va pensato come natura». Se lo spirito è una costruzione della materia, Dio è solidale al cosmo e non può essere pensato che come energia, la stessa materia del mondo. La ricerca del teologo non può essere allora che l’esame della storia dell’evoluzione per trovarvi tracce del superamento dell’idea di forza in quello di relazione per introdurre una diversità dopo aver supposto l’unità della forza. Come togliere al darwinismo il concetto che siano la selezione e la competizione il criterio della vita? Mancuso cerca di introdurre un’idea di solidarietà e comunione nel cammino collettivo di bilanciare il concetto di forza con quello di relazione. Ma è la relazione così introdotta una forma diversa dalla forza o non è invece un semplice esercizio di essa? Le forme di solidarietà collettive del mondo animale non avvengono anch’esse sulla spinta dell’adattamento all’ambiente conducendo al sacrificio della vita di un animale per il bene del branco e della specie?
La relazione non introduce alcuna alternativa al concetto darwiniano, secondo cui è la necessità della sopravvivenza la causa del mutamento. Non introduce altro concetto che quello di adattamento all’ambiente sotto la spinta dei fattori costrittivi. E il caso e la necessità rimangono il criterio darwiniano per spiegare l’evoluzione. Introdurre nell’evoluzione il concetto di natura che suppone una identità, una razionalità e un ordine della soluzione darwiniana, lascia aperto il problema se vi può essere il superamento umano della forza. Cioè, se il linguaggio etico dell’uomo non rappresenta di fatto una trascrizione della forza nei rapporti sociali. Certo, occorre spiegare perché l’uomo non accetta il principio che solo la forza sia il criterio di ordinamento della vita. Ma ciò potrebbe provare soltanto che l’uomo rappresenta una deviazione da una logica della vita fondata sulla forza e che la coscienza infelice è solo il sintomo di un mancato adattamento della specie umana alle leggi della vita.
Mancuso, infatti, pensa che l’uomo rappresenti una evasione dalla legge della forza e raggiunga le figure dello spirito. Ma come è possibile configurare un salto di qualità che rappresenti una differenza ontologica tra il processo nella vita e la nuova qualità raggiunta con la coscienza umana? Se l’uomo è un’eccezione alle leggi della vita, occorre definire come questo si prova e come questo è possibile. E postula che vi sia qualcosa che renda possibile il salto ontologico. E questo contraddice il materialismo biologico su cui si fonda l’interpretazione del darwinismo fatto da Mancuso. Lo spirito umano è una differenza ontologica dello schema materialistico o esso non è che una trascrizione di esso in un altro linguaggio. L’evoluzione diviene così nel sistema di Mancuso una antropogonia che è una teogonia. La formazione della coscienza umana raggiunge la sua pienezza nell’idea di Dio concepita dallo spirito umano. Il sistema di Mancuso suppone una realtà divina che diviene autocoscienza di sé nella storia umana. L’uomo, per Mancuso, è l’autocoscienza dell’universo. L’uomo è la rivelazione del divino a sé stesso, la piena autocoscienza dell’uomo nella sua ragione è la rivelazione del processo di complessificazione della materia sino all’autorivelazione del divino che l’ha mossa. Ciò comporta una visione positiva della storia, la convinzione che l’antropogonia come teogonia non può che compiersi nella prassi umana e che essa è l’ultimo portato del processo dell’universo. Pievani chiede a Mancuso se si riconosca nel pensiero di Spinoza. Mancuso rifiuta, perché riconosce il problema del male come possibilità dell’uomo. Ma che cosa è il male in un processo di complessificazione che è interamente finalizzato e il cui fine diviene l’ultima necessità? La conclusione di Pievani è l’affermazione della sfiducia nella «natura cooperativa» teorizzata da Mancuso: «A ben poco può servire questo metodo per trovare una morale valida per gli esseri umani».