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giovedì 26 febbraio 2009

Il Maestro Bartolucci a Palermo





Ci giunge una gradita segnalazione: lunedì si è tenuto nella cattedrale di Palermo il concerto del coro della Fondazione Bartolucci (nella foto), con questo programma:

prima parte tutto Palestrina :
- ad te levavi a 5 voci (offertorio I domenica di avvento);
- alcuni brani dalla Cantica a 5 voci
- Tu es Petrus a 6 voci

poi nella seconda parte, mottetti di Bartolucci a 4 - 5 e 6 voci;

come brano finale il Credo della Missa Papae Marcelli (nuovamente Palestrina)

Ovviamente il maestro Bartolucci, 92 anni, ha diretto tutto a memoria !

Per chi non conoscesse la gloriosa figura di Domenico Bartolucci, nominato Direttore della Cappella Sistina ad vitam, come da tradizione, da Papa Pio XII, rimandiamo ai numerosi articoli su di lui scritti da Sandro Magister. Uno in particolare, vogliamo in parte riportare: narra di come il grande Bartolucci, nonostante l'incarico vitalizio di cui si diceva, sia stato evitto, cacciato e dichiarato decaduto per le manovre del famigerato Piero Marini, ex cerimoniere pontificio, e del card. Noè, lui pure alfiere dello sfacelo liturgico e quindi chiaramente allergico allo splendore del gregoriano e specie della polifonia, da secoli incarnato dalla Cappella Sistina.

Il posto di Bartolucci venne affidato a mons. Liberto, notato da Giovanni Paolo II durante un viaggio in Sicilia come abile corifeo di canzonette nelle messe da stadio. Con gli esiti artistici prevedibili: non lo diciamo noi, ma è opinione universale da noi già riportata in questo post.

Ed ecco quanto scriveva Magister su L'Espresso del 1997 (link):


Solo a ricordargli la serata rock di Bologna con Giovanni Paolo II e Bob Dylan, il maestro Domenico Bartolucci sobbalza e ribolle. «Fossi stato il cardinal Giacomo Biffi, mi sarei dimesso», taglia corto. Intanto però lui, Bartolucci, l'hanno dimesso per davvero, d'imperio, nonostante sia dal 1956 "magister ad perpetuum" della gloriosa Cappella Sistina e porti con vigore i suoi più che ottant''anni. Al suo posto, alla direzione della più romana delle cappelle di musica liturgica, le autorità vaticane hanno chiamato un forestiero dalla Sicilia, dal duomo di Monreale, monsignor Giuseppe Liberto.«È l'ultimo segno del mutamento di rotta voluto da Oltretevere in materia di musica liturgica», commenta Giovanni Carlo Ballola, affermato critico musicale ma anche diacono della Chiesa di Roma. Mutamento di gusti musicali? Non solo. Molto, molto di più.

Bartolucci sfoglia l'ultimo libro del cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, autorità che nella Chiesa è seconda solo al papa. «Ecco qua. Lo riconosce persino lui. L'origine dei mali della Chiesa d'oggi è nella rottura che dopo il Concilio Vaticano II s'è fatta con la tradizione liturgica precedente. Rottura, scrive testualmente Ratzinger, "le cui conseguenze potevano essere solo tragiche". Sentito? Tragiche. La Chiesa non sa quale tesoro perde abbandonando il Gregoriano e la polifonia. "Resista, maestro, resista!", mi ha detto lo stesso Ratzinger incontrandomi alla messa di santa Cecilia, il 22 novembre 1996. Inutile. Pochi mesi dopo mi hanno buttato fuori».

Monsignor Liberto, il nuovo maestro della Sistina, la polemica la schiva. «L'ultimo libro di Ratzinger non l'ho letto». Nemmeno quelle poche pagine che hanno fatto rumore? «No. Nemmeno quelle». Neppure i suoi saggi su musica sacra e liturgia raccolti in "Cantate al Signore un canto nuovo", edito da Jaca Book? «No. Proprio non ne ho avuto il tempo».

Strano. Non c'è esperto di musica sacra che non se li sia divorati da capo a fondo. Oltre che superdottore di teologia, infatti, Ratzinger di musica sa parecchio. In proprio e per grazia di famiglia. Suo fratello, Georg, è stato per trent'anni, fino al 1994, maestro della Cappella del duomo di Ratisbona, la stessa dove aveva studiato Lorenzo Perosi, il predecessore di Bartolucci alla Sistina. In questi decenni, la Cappella Sistina e quella di Ratisbona sono state gli ultimi baluardi della musica liturgica all'antica, contro i novismi di marca postconciliare.

Naturalmente c'è anche una lettura opposta degli avvenimenti. Se per Ratzinger la «tragedia» è stata l'abbandono del messale antico, per uno dei suoi più espliciti oppositori, l'arcivescovo di Milwaukee Rembert Weakland, già primate dei benedettini confederati, la «devastazione» è venuta dalla decisione contraria: l'indulto dato da Giovanni Paolo II e dallo stesso Ratzinger ai nostalgici che si ostinano a celebrare con l'antico rito e in latino. Decisione a suo avviso devastante «perché ha dato l'impressione che si possa rovesciare tutto quanto il Concilio Vaticano II» [i lettori ricordano la fine che ha fatto Weakland, no? In caso l'avessero dimenticato, leggano qui]

Oggi il destino della musica liturgica si dibatte proprio tra queste contrapposte visioni catastrofiche. «E così, tra una musica antica quasi sparita e una buona musica nuova ancora di là da venire», osserva Carli Ballola, «si tira avanti col pasticcio di quell'Istruzione vaticana del 1967 che riconferma le scholae cantorum "purché il popolo non sia escluso dalla partecipazione al canto". Come questa mistura tra schola e popolo sia praticabile, rimane uno dei misteri di santa romana Chiesa». Risultato: per dar corso al pasticcio e far «partecipare» il popolo alle messe papali cantate, da trent'anni alla Cappella Sistina non rimane più che poco spazio nei momenti «morti» del rito, nei quali infilare brevi mottetti di polifonia o frammenti di Gregoriano. Delle magnifiche messe polifoniche (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei) del suo autore sommo, il cinquecentesco Giovanni Pierluigi da Palestrina, neanche parlarne. Archiviate. Per eseguirle, la Cappella deve andare in tournée concertistica, all'estero, negli intervalli tra una messa papale e l'altra. Bartolucci era a dirigere in Giappone quando dal Vaticano gli arrivò la notizia che era stato destituito.Viceversa, il successore Liberto le sue benemerenze se le è guadagnate sul campo delle grandi liturgie di massa, rivelandosi abile trascinatore di cori di popolo. Papa Karol Wojtyla ha potuto saggiarne le doti tre volte, in Sicilia, in altrettanti suoi viaggi: a Mazara del Vallo, Siracusa e Palermo, in messe da stadio o celebrate su spianate aperte fronte mare. L'ha così apprezzato che l'ha chiamato a Roma nel novembre 1996 a dirigere i canti della messa in San Pietro per il suo 50.mo di sacerdozio. Altri cinque mesi e l'ha messo a capo della Cappella Sistina. Appena trapelò la notizia del cambio di direttore tra gli uomini di musica d'ogni credo ci fu una sollevazione. L'Accademia nazionale di Santa Cecilia, laica anche se nata dalla costola della Sistina e fondata dallo stesso Pierluigi da Palestrina, incaricò il suo presidente, l'ebreo Bruno Cagli, di comunicare per iscritto al segretario di Stato vaticano, cardinal Angelo Sodano, la «preoccupazione di tutti che possa andare disperso l'incommensurabile patrimonio religioso e artistico legato alla tradizione della polifonia romana». Anche il maestro Riccardo Muti elevò la sua protesta. Ma in Vaticano tirarono dritto. «Non vollero sentire il parere nemmeno del Pontificio istituto di musica sacra, il conservatorio della Chiesa romana», aggiunge Francesco Luisi, che al Pims insegna paleografia musicale rinascimentale ed è prefetto della biblioteca. Il Pims è un altro dei baluardi di resistenza della grande musica liturgica, anch'esso sotto tiro. Il suo penultimo preside, Giacomo Baroffio, studioso e maestro del Gregoriano di fama mondiale, oltre che intransigente nemico d'ogni compromesso modernista, fu cacciato in malo modo dalle autorità vaticane nel 1995. E anche l'attuale preside, Valentino Miserachs Grau, catalano, è poco amato dagli uomini dell'entourage papale. Continua a dirigere la Cappella Liberiana, quella della basilica di Santa Maria Maggiore, ultima sopravvissuta assieme alla Sistina delle molte scholae cantorum romane dei secoli d'oro. E fa di tutto per non deludere i suoi validi allievi del Pims, che lì arrivano da tutto il mondo proprio perché convinti che Roma sia sempre la patria eletta del Gregoriano e della grande polifonia sacra. Con risultati eccellenti. Per una verifica, si vada alla messa che docenti e allievi cantano ogni domenica alle 10 e mezza nella chiesa del Pims di via di Torre Rossa 21. Al termine, uno si chiederà come è possibile che una liturgia così musicalmente preziosa e così densa di risonanze cattoliche si celebri quasi clandestina, proprio nel cuore geografico della Chiesa cattolica apostolica romana. La risposta è che il paradigma musicale e liturgico vincente è cambiato, al centro della cristianità. La Sistina è per statuto la cappella del papa, il coro delle sue messe. E le messe di Giovanni Paolo II sono appuntamento fisso con le moltitudini. Sono messe da mondovisione. Via, quindi, le polifonie cinquecentesche e i responsori altomedioevali. Largo a inni e acclamazioni di massa, al passo con la modernità. «Con l'Anno Santo avremo sempre più messe papali, e noi dovremo esserci», annuncia il nuovo direttore della Sistina. Ai suoi 20 tenori e bassi e ai suoi 25 pueri cantores, il compito d'accompagnare la liturgia pontificia del Duemila.

Non sarà il primo esilio, per la gloriosa Cappella. Già una volta ha seguito i papi nella cattività d'Avignone.

9 commenti:

  1. Evviva Palestrina, evviva la polifonia, evviva anche Perotino o Tutilo di San Gallo, dico!

    Ma, per carità del Cielo, in liturgia si canti il GREGORIANO, magari senza bruttarlo con le armonie dell'organo (il quale dovrà pur sonare, ma per suo conto, a latere, così come gli accessi polifonici).

    Il GREGORIANO è povero, il GREGORIANO è casto, il GREGORIANO è obbediente, ed è umile ed etereo, docile a farsi apprendere, ama Dio e il prossimo suo (ma non l'organo e le armonizzazioni).

    Viva, viva Palestrina! Ma, per carità del Cielo, in liturgia si torni, si torni al GREGORIANO!

    F. Pernice (il quale è convinto che rudimenti di gregoriano si possano apprendere con la stessa facilità dei "cantacci" pre- e post-conciliari, solo con molto maggior frutto e molta maggiore gioia)

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  2. Caro Pernice, parole sante: e bisognerebbe farlo capire anche a certi preti che celebrano la messa tradizionale, durante la quale - durante, sottolineo! - fanno però cantare cose tipo "Te lodiamo Trinità" e "Noi vogliam Dio". Va bene il fascino retrò di queste anticaglie, ma vogliamo mettere l'efficacia di un buon gregoriano per l'edificazione di tutti, oltre ovviamente al suo valore estetico infinitamente superiore?

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  3. Fa piacere vedere che anche tra coloro che amano la Tradizione ci sia chi ragiona. Il rischio che il tradizionalismo porti con sé la riesumazione di relitti pseudotradizionali - come i canti cui allude lei, gentile Jacopo - è concreto. Dunque ripetiamo quello che scrive a chiare lettere... il Vaticano II: il canto proprio della chiesa cattolica latina è il GREGORIANO e a questo bisogna accordare la preferenza.

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  4. fanno però cantare cose tipo "Te lodiamo Trinità" e "Noi vogliam Dio".
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    E perché mai, anziché "aut, aut", non "et, et"?

    A mio modesto avviso, alcuni canti della tradizione popolare (in Friuli, ad esempio, "Dal Tuo celeste trono")suonano spiritualmente molto intensi ed evocativi ed anche molte composizioni nello stile "ceciliano" (pur non esprimendosi nell'essenziale solennità che è propia del gregoriano) mi paiono liturgicamente molto pregnanti.

    Cordialmente.

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  5. A me piace " A te Signor leviamo i cuori...."

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  6. Non sarei d'accordo nel vedere le Ninfee di Monet, che pure mi piacciono, appese nella cappella Sistina. Così i canti paraliturgici d'anteguerra, che hanno sicuramente una loro dignità, per me stridono all'interno di una messa tradizionale. Per gli esperimenti liturgici c'è già tanto spazio!

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  7. Ooo, ben detto, caro Jacopo! Il fatto che certi cantacci fossero di prammatica nelle messe XIX secolo o agli inizi del XX non li trasforma in voci del Depositum tradizionale.

    Se la modernità è proprio incontinente e avverte l'insopprimibile bisogno di aggiungere la sua voce a quella dell'Antico Padre Gregorio (e dei suoi numerosi figli di stretta osservanza), lo faccia componendo nuovi inni gregoriani (esiste già qualche buon saggio in questo senso), e non ingrommando la purità del rito con le canzonette d'antan (e che facciamo: Symbolum 1877 ?!).

    Lo "et - et" suggerito da Imerio è sensato, ma deve valere più come eccezione che come regola, altrimenti, a furia di allargare le maglie, ricominciamo con i pateracchi. E se un tempo c'erano Pontefici capaci di tuonare contro certe sindromi degenerative, come l'uso del canto lirico in chiesa, oggi (per non parlare di pochi anni fa!) non sembra più che sia così.

    F. Pernice

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  8. Aggiungo che i canti in volgare a contorno o all'interno delle messe furono introdotti con l'intenzione di "fare partecipare" il popolo. Erano insomma il prodromo della riforma liturgica di là da venire. Oggi, dopo quarant'anni di novus ordo missae, francamente non si avverte più quest'esigenza. Per cui il loro scopo l'hanno ampiamente assolto. Quindi cantiamoli pure, sono belli perché spesso opera di serissimi professionisti della musica, ma fuori dalla messa.

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  9. Piero Marini,il noto segretario dell'arcinoto Annibale Bugnini,ed il Card.Noe',su cui si stenda un velo pietoso.....Figure note,a Roma notissime,in ambienti i piu' "disparati",che hanno avuto tutto dalla benevolenza dei "Romani" Pontefici da Paolo VI a GPII.Il piu' grande "miracolo" petrino,gia' allo studio dei biografi del "servo di Dio", e' stato comunque quello di porre mons.Liberto(sic!)sullo scranno che fu di Allegri,Perosi e Bartolucci.

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La Redazione